15 Marzo 2024

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    La menopausa allunga la vita ai cetacei: così balene e orche si occupano dei cuccioli

    Le specie di cetacei che sperimentano la menopausa hanno aspettative di vita più lunghe rispetto alle altre. Fino a 40 anni in più delle balene di dimensioni simili. E possono così occuparsi e prendersi cura della famiglia allargata, in particolare figli e nipoti. Arrivano da uno studio degli  scienziati dell’Università di Exeter, dell’Università di York e dal Center for Whale Research, appena pubblicato sulla rivista Nature con il titolo The evolution of menopause in toothed Whales, nuove risposte su quello che resta ancora, per certi versi, un grande enigma biologico.Nella quasi totalità delle specie, infatti, le femmine continuano a produrre uova per tutta la vita. L’obiettivo? Massimizzare il loro successo riproduttivo. Un modello che ha senso, chiaramente, in termini di selezione naturale: più prole una femmina riesce a generare e allevare con successo nel corso della sua vita, più copie dei suoi geni vengono potenzialmente trasmesse alle generazioni future.Non accade, com’è noto, nell’uomo. Ma anche negli scimpanzè, dove la popolazione femminile vive a lungo oltre l’età riproduttiva, come dimostrato da una lunga ricerca sulla comunità di scimpanzé Ngogo, che vive in un’area particolarmente isolata nel Parco nazionale di Kibale, in Uganda. E, come ribadisce l’ultimo studio, anche per gli esemplari femminili di cinque taxa di odontoceti: globicefali, narvali, beluga, pseudorche e orche condividono singolarmente questa condizione del ciclo di vita con l’essere umano, malgrado una separazione di 90 milioni di anni di evoluzione indipendente.”La domanda su come si sia evoluta la menopausa affascina da sempre gli scienziati”, spiega Sam Ellis, autore principale dello studio e biologo all’Università di Exeter. “Anche perché sono pochissime le specie, tra le oltre cinquemila di mammiferi, che attraversano questa condizione” aggiunge. 

    Così diverse, così simili a noi

    È analizzando le dimensioni, la vita media, il numero di piccoli generati e la durata della fertilità di 32 specie di cetacei odontoceti spiaggiati, che i ricercatori hanno, in sintesi, trovato evidenze di menopausa nelle cinque specie in questione”. Stabilendo, per esempio, che femmine di orca si riproducano generalmente solo fino a circa 40 anni, ma vivano fino all’età di 80-90 anni. Metà del loro percorso di vita, quindi, non è legato a finalità riproduttive.”L’evoluzione della menopausa – sostiene con forza Darren Croft, che ha co-firmato l’articolato – può essere avvenuta solo in circostanze molto specifiche. Il requisito è che le femmine trascorrano la vita a stretto contatto con la prole, e abbiano così la possibilità di migliorare le chances di sopravvivenza della famiglia. Estendendo le nostre ricerche a più specie abbiamo scoperto che la menopausa si è evoluta per consentire un’estensione della durata della vita femminile oltre gli anni riproduttivi, in modo da favorire l’accudimento dei figli e dei nipoti. E per noi umani condividere un tratto così intimo e particolare con un gruppo tassonomico decisamente distante dalla nostra specie è senz’altro affascinante”.La ricerca, sostenuta con i fondi del Leverhulme Trust e dal Natural Environment Research Council (NERC), intriga anche i cetologi italiani. “Pur non fornendo prove conclusive sul perché la menopausa si sia evoluta, i risultati di questo studio appena pubblicato sono notevoli e sicuramente interessanti nel parallelo con la specie umana”, annuisce Daniela Silvia Pace, docente di Ecologia e Acustica dei Mammiferi Marini, Dipartimento di Biologia Ambientale, Sapienza Università di Roma.

    “Da minaccia per le figlie a risorsa per le discendenti”

    Vivere abbastanza a lungo senza riprodursi consente dunque alle femmine di occuparsi della “famiglia allargata”, cioè di diventare nonne o bisnonne, in modo da potersi prendere cura delle loro famiglie condividendo il cibo o facendo da baby-sitter. “In sostanza, la menopausa farebbe sì che le femmine aumentino le loro opportunità di aiuto intergenerazionale, senza aumentare la sovrapposizione riproduttiva con le loro figlie”, annota Daniela Silvia Pace. Interessante. Del resto, quando madri e figlie dello stesso gruppo cercano di riprodursi contemporaneamente tende a verificarsi, in natura, un potenziale conflitto per le risorse: entrambe devono dare la priorità alle risorse per la propria prole. “E la situazione si aggraverebbe se le femmine si riproducessero più a lungo. – aggiunge la cetologa – Smettendo di riprodursi, le femmine riducono al minimo questo conflitto”.E non finisce qui. Lo studio ipotizza che una struttura sociale in cui le femmine siano a stretto contatto con la loro prole e i loro nipoti – circostanza che non accade in tutte le specie animali – e dove ci sia l’opportunità di favorire le possibilità di sopravvivenza della famiglia (per esempio utilizzando le conoscenze delle “nonne” per guidare il gruppo alla ricerca di cibo quando questo scarseggia) – favorisca l’affermarsi della menopausa e, dunque, di una prolungata fase post-riproduttiva.”E in effetti l’esperienza di vita delle femmine post-riproduttive sarebbe cruciale per affrontare le sfide ambientali in tempi di difficoltà – spiega Pace – come si osserva, per esempio, nelle società umane durante i periodi di conflitto sociale, quando le persone si rivolgono agli anziani della loro comunità che hanno dalla loro caratteristiche come l’esperienza e la conoscenza. E come osserviamo da tempo nell’etologia dei cetacei odontoceti”.E i maschi? L’aspettativa di vita inferiore in media di 40 anni con le femmine di orca disegna, per loro, percorsi etologi differenti: vivono di meno, ma continuano a riprodursi fino alla fine della loro vita non rimanendo nello stesso gruppo sociale dei loro figli o nipoti. “Nelle orche, i maschi che non hanno quindi l’opportunità di fornire aiuto fino a tarda età ai loro parenti più stretti, sembrerebbero selezionati dall’evoluzione per offrire e garantire invece una continua possibilità di riproduzione”, annota la biologa. Ma perché allora la disparità di aspettativa di vita che contraddistingue i maschi e le femmine di orche non si verifica nell’essere umano? “Per ora – spiegano i ricercatori autori dello studio, che non intendono fermarsi – i nostri risultati mostrano che gli esseri umani e gli odontoceti mostrano cicli di vita sorprendentemente convergenti: proprio come negli esseri umani, la menopausa negli odontoceti si è evoluta per selezione per aumentare la durata complessiva della vita, senza che per questo sia estesa anche la durata della capacità riproduttiva”. LEGGI TUTTO

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    Imballaggi, via libera del nuovo regolamento Ue

    Regolamento imballaggi, c’è l’accordo. I Ventisette ambasciatori degli Stati membri dell’Unione europea hanno confermato l’esito positivo del negoziato tra Consiglio e Parlamento europeo sulla revisione della direttiva sul packaging e il riuso del packaging. Lo ha annunciato la presidenza belga di turno alla guida dell’Ue. Si tratta dell’ultimo passo per l’adozione dei due provvedimenti dopo i negoziati con […] LEGGI TUTTO

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    La Francia contro la moda usa e getta: una tassa sul fast fashion per ridurre l’impatto ecologico

    Parigi, la capitale europea della moda, dichiara ufficialmente guerra all’ultra fast fashion. Dalla città francese – che insieme a New York, Milano e Londra fa parte delle big four della moda globale – arriva la proposta di una legge (la prima al mondo) nel tentativo di limitare gli impatti ambientali legati al mercato dei vestiti a basso costo e all’alta impronta ecologica di aziende come Shein o Temu, per citarne alcune.Il 14 marzo, come ha spiegato Christophe Bechu, ministro della Transizione ecologica, la Francia attraverso il voto alla Camera bassa è diventata così il primo Paese al mondo “a legiferare per limitare gli eccessi dell’ultra fast fashion”. Due le misure chiave approvate dai parlamentari transalpini: da una parte il divieto di pubblicità per tessuti economici, dall’altra una imposta ambientale da applicare sugli articoli a basso costo. 

    L’indagine

    Greenpeace traccia i resi online: gli abiti percorrono fino a 10mila chilometri

    di Giacomo Talignani

    12 Febbraio 2024

    Il sistema della moda usa e getta, quello che permette di acquistare capi all’ultima moda a basso prezzo e con pochi semplici clic da ogni parte del mondo, sta impattando sempre di più a livello di emissioni climalteranti per la produzione, oppure di rifiuti e di impatto a livello di resi come racconta una recente inchiesta di Greenpeace, ma anche a livello sociale viste le migliaia di fabbriche cinesi dove i ritmi di lavoro sono folli e secondo diverse associazione i dipendenti risultano sottopagati.

    Il mercato francese dell’abbigliamento, come quello italiano, è stato invaso da abiti importati a basso costo mentre alcuni marchi nazionali hanno invece dichiarato bancarotta. A preoccupare l’esecutivo è però soprattutto la questione ambientale: secondo la deputata Anne-Cecile Violland di Horizons, il partito di Emmanuel Macron, oggi “l’industria tessile è l’industria più inquinante” e il settore che “rappresenta il 10% delle emissioni di gas serra” è anche uno dei principali “per spreco di risorse come l’acqua” . Un settore che sta accelerando il suo impatto ambientale proprio a causa dell’ultra fast fashion, la moda capace di generare migliaia di nuovi capi ogni giorno.

    Longform

    L’industria della moda può diventare sostenibile?

    di Vittorio Emanuele Orlando

    10 Marzo 2023

    In particolare per Violland alcune aziende, come la cinese Shein, impattano più di altre “con i suoi 7.200 nuovi capi di abbigliamento al giorno” e sono un esempio di “produzione intensiva di moda” che deve essere regolamentata. Per questo la Francia ha deciso – una volta entrata in vigore la legge che ora richiede il voto del Senato – di mettere un freno agli impatti del fast fashion con criteri che verranno  poi definiti nel dettaglio nel decreto. L’idea attuale è costringere i produttori di fast fashion a informare i consumatori sull’impatto ambientale della loro produzione e a partire dal prossimo anno è previsto un sovrapprezzo legato all’impronta ecologica di cinque euro per capo, che salirà poi a 10 euro entro il 2030. L’addebito però non può superare il 50% del prezzo di cartellino. I proventi della tassa saranno usati per sovvenzionare produttori di abbigliamento sostenibile fornendo armi per potere “competere più facilmente”. 

    Una competizione che risulterà comunque improbabile, secondo il The State of Fashion 2024, rapporto di Business of Fashion & McKinsey che svela come la concorrenza fra colossi di e-commerce quali Shein e Temu farà aumentare il ritmo del consumo di abbigliamento a basso costo.

    Moda sostenibile

    La riscoperta dell’usato per l’ambiente e il risparmio: il fenomeno Vinted

    di Fiammetta Cupellaro

    08 Aprile 2023

     Alla vigilia del voto francese Sinistra e Verdi chiedevano, anche per questo, di includere delle sanzioni minime per produttori che infrangono la legge e criteri più severi legati alle condizioni dei lavoratori nel settore, ma la proposta è stata bocciata. Avanza invece l’idea di limitare la pubblicità del fast fashion anche se per il deputato conservatore Antoine Vermorel-Marques “il divieto di pubblicità per i prodotti tessili, soprattutto quelli di moda, significa la fine della moda”.In generale, raccontano i dati Ue, l’industria della moda a livello mondiale sta diventando sempre più inquinante: per esempio ogni anno utilizza 93 miliardi di metri cubi d’acqua. Il consumo di risorse dovuto al fast fashion, così come la produzione di rifiuti, sta portando a una produzione annuale tra gli 80 e i 100 miliardi di nuovi capi, praticamente circa 14 per ogni persona sul Pianeta.

    Economia circolare

    Slow Fiber: una filiera per la moda più durevole, pulita e giusta

    di Maria Rita Corda

    02 Giugno 2023

    Buona parte di questi capi sono praticamente usa e getta: utilizzati per le mode del momento e poi dismessi e diretti alle discariche. Solo nell’Unione Europea vengono generati 5,2 milioni di tonnellate di rifiuti in abbigliamento e calzature all’anno, dodici chili a cittadino. Un ritmo che, come indica la volontà di legge francese, non è più sostenibile per la salute della Terra. LEGGI TUTTO

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    I voli aziendali pesano per il 30% delle emissioni da trasporto aereo in Europa

    I viaggi aerei sono la forma di mobilità a maggiore intensità climatica. In particolare, quelli effettuati dalle aziende – che muovono manager, dirigenti, dipendenti, ospiti – ogni anno rappresentano, su scala globale, circa il 15-20% delle emissioni complessive dell’aviazione: una percentuale che in Europa sale addirittura al 25-30%. Servirebbe dunque un piano per contenere questi numeri e invece le più grandi aziende italiane – come molte su scala globale – non hanno una strategia per ridurre l’impatto ambientale dei loro voli aziendali. È uno degli aspetti che mergono dal report Travel Smart Ranking 2024, realizzato per il terzo anno consecutivo dall’associazione ambientalista indipendente europea Transport & Environment.Secondo la classifica, che prende in considerazione le 328 aziende di tutto il mondo che compiono il maggior numero di viaggi aerei aziendali, ben 15 sono italiane (cioè il 5% delle 328 totali) e nessuna di loro ha impostato chiari obiettivi volti a ridurre le emissioni della mobilità aerea. “Questo segnala – si legge in una nota – che le aziende italiane non stanno intervenendo abbastanza rapidamente né stanno dimostrando un impegno proattivo rispetto alla riduzione delle proprie emissioni”.

    Crisi climatica

    La protesta degli attivisti climatici negli aeroporti d’Europa: “Stop a voli inquinanti e rumore”

    di Giacomo Talignani

    13 Marzo 2024

    Italia maglia nera

    Tutte le aziende italiane analizzate nel rapporto – di fatto, molte fra le più grandi multinazionali del paese – mancano di obiettivi evidenti per ridurre le emissioni dei viaggi aziendali: 13 di queste hanno ottenuto un punteggio pari a C, mentre le altre due – Iveco ed Enel – hanno ottenuto una D, il punteggio più basso. Una situazione dettata principalmente dal fatto che non hanno reso note (o solo parzialmente) le proprie emissioni di viaggio, rendendo di fatto impossibile misurare il loro score climatico in materia di mobilità. Risulta dunque evidente il ritardo delle aziende italiane in confronto alle multinazionali di altri paesi come Spagna, Paesi Bassi, Francia, Regno Unito e Germania, dove almeno un’azienda ha ottenuto punteggi come A o B.

    Editoriale

    Dalle auto alle navi, perché decarbonizzare i trasporti è un affare

    di Massimo Nordio*

    08 Novembre 2023

    Aziende lungimiranti contro procrastinatrici

    Dall’analisi del rapporto emerge una discrepanza tra aziende dello stesso settore. Il documento le etichetta come aziende “lungimiranti”, che fissano chiari obiettivi climatici (molto poche, a dire il vero), e aziende “procrastinatrici” che, anno dopo anno, mancano di farlo. Dall’analisi di T&E tutte le aziende italiane appartengono – come evidenziato poco sopra – alla seconda categoria, avendo ottenuto un punteggio C o D e non avendo fissato target di riduzione delle emissioni per la loro mobilità interna (o non riportando in maniera completa e trasparente le emissioni dei viaggi aziendali).”Le aziende italiane devono urgentemente fissare degli obiettivi per ridurre le emissioni dei viaggi aziendali. Non ci sono scuse per cui non si debba intervenire: lo dimostrano le controparti di altri paesi che hanno fissato obiettivi chiari – spiega Carlo Tritto di Transport & Environment Italia – cosa sta impedendo ai “procrastinatori” italiani di fare lo stesso? La nostra ricerca evidenzia la netta differenza tra aziende impegnate nella sostenibilità e quelle aziende che non si assumono pienamente la loro responsabilità climatica”.

    Poche aziende dal grande impatto

    Allargando lo sguardo a tutte le aziende analizzate nella classifica emerge che alcune tra esse hanno un impatto sproporzionato, e dunque un maggiore potenziale di riduzione delle emissioni: il 7% delle 328 aziende è infatti responsabile del 36% delle emissioni per voli di lavoro. Quali sono? I top 25 frequent flyer, cioè le 25 multinazionali che hanno volato di più per lavoro – tra cui figurano Volkswagen, Accenture e KPMG – non solo hanno causato emissioni molto elevate ma stanno mancando anche di adottare piani per ridurre il numero di voli. La campagna Travel Smart chiede quindi alle aziende di fissare obiettivi di riduzione della mobilità corporate aerea del 50% almeno entro il 2025 o prima. Un impegno simile, certo piuttosto complesso per alcune realtà, sarebbe tuttavia necessario per rendere le emissioni dell’aviazione compatibili con i target climatici della COP di Parigi. Se solo queste 25 aziende si impegnassero a ridurre i loro viaggi di lavoro di circa la metà, si arriverebbe a un risparmio di 5.9 Mt di CO2, pari alle emissioni prodotte da tre milioni di auto in un anno.

    Siemens, Microsoft e Google pronte alla riduzione dei voli

    Nella classifica dei principali flyer, come li chiama appunto l’indagine, sprovvisti di un programma di intervento solido nella riduzione delle proprie emissioni figurano anche aziende con un’immagine in realtà piuttosto climate friendly come Siemens, Microsoft e Google. Ad esempio, le emissioni di Siemens nel 2019 erano pari a 0,31 Mt di CO2, l’equivalente di quasi due voli giornalieri, per un intero anno, da Londra a New York. Senza adeguati obiettivi di riduzione delle emissioni, il livello delle emissioni dai voli aziendali rischia di tornare ai livelli pre-Covid, come rilevato dal sistema di tracciamento elaborato da T&E. Allineandosi d’altronde alle tendenze del settore travel considerato nel suo complesso.

    Tornando all’Italia, fra le aziende italiane del settore bancario i colossi Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno ricevuto C come score e non hanno imboccato un percorso verso la riduzione delle emissioni dei propri viaggi di lavoro. Tuttavia, aziende dello stesso settore di altri paesi, come la Lloyds Banking e Fidelity International conquistano una A, dimostrando che il percorso verso la riduzione delle emissioni è possibile. Anche nel settore manifatturiero le sigle italiane sono agli ultimi posti. I tre principali “viaggiatori aziendali” di questo settore – Danieli & C. Officine Meccaniche, Maire Tecnimont e IMA spa – registrano tutti una votazione pari a C, poiché nessuno di loro ha ridotto l’impatto della propria mobilità corporate. Allo stesso modo, in altri paesi i grandi protagonisti del settore manifatturiero, come Michelin o Steelcase, hanno strutturato programmi ambiziosi per far fronte a questo problema, sostituendo i viaggi aerei con modalità di trasporto alternative, oppure investendo su modalità di collaborazione virtuali. Danieli & C Officine Meccaniche e Maire Tecnimont registrano – dopo la controllata di Stato Leonardo – i valori emissivi dai viaggi aerei più elevati in Italia, in termini assoluti.

    I limiti del rapporto

    Il Travel Smart Ranking classifica come detto 328 aziende statunitensi, europee e indiane – dunque non considera il mondo asiatico – sulla base di 11 indicatori relativi alle emissioni di viaggi aerei, agli obiettivi di riduzione e alla trasparenza dei dati. Le aziende ricevono un voto A, B, C o D. Nell’edizione di quest’anno della classifica 16 aziende hanno ottenuto un punteggio A, 40 hanno ottenuto una B, la grande maggioranza ha ricevuto una C (230) e 42 aziende hanno visto un punteggio pari a D associato al proprio nome. Sono tuttavia solo 44 le aziende che fanno luce sull’impatto climatico completo dei loro viaggi (incluse le emissioni non di CO2), in aumento rispetto ai 40 dell’anno scorso. Questa è la terza edizione della classifica.Questa classifica riguarda solo la mobilità aziendale aerea, che se è senz’altro cruciale nella riduzione delle emissioni e per il futuro di un’aviazione sostenibile, non è l’unico tassello di una strategia di sostenibilità: la responsabilità climatica e ambientale di un’azienda si estende infatti a molti altri settori e ambiti. LEGGI TUTTO

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    La carne di pitone da allevamento come alternativa sostenibile: uno studio

    La carne di pitone d’allevamento potrebbe offrire un’alternativa più sostenibile rispetto ad altre carni d’allevamento. Lo sostiene uno studio internazionale, pubblicato su Scientific Reports, che ha analizzato i tassi di crescita dei pitoni in due allevamenti in Thailandia e Vietnam. 

    Daniel Natusch e colleghi della Macquarie University di Sydney, in Australia, hanno studiato come  4.601 pitoni reticolati (Malayopython reticulatus) e birmani (Python bivittatus) sono cresciuti rapidamente nell’arco di 12 mesi, senza aver bisogno di essere nutriti con frequenza, come altri animali da allevamento.Lo studio è stato condotto in due allevamenti di pitoni situati nella provincia di Uttaradit (Thailandia) e a Ho Chi Minh City (Vietnam). I rettili sono stati alimentati settimanalmente con una varietà di proteine di provenienza locale, tra cui roditori selvatici e farina di pesce, e sono stati misurati e pesati regolarmente per un periodo di 12 mesi prima di essere abbattuti.Gli autori hanno scoperto che entrambe le specie di pitone crescevano rapidamente – fino a 46 grammi al giorno – anche se le femmine avevano tassi di crescita più elevati dei maschi. Dopo la quantità di cibo consumato, il tasso di crescita di un serpente nei primi due mesi di vita è stato il miglior predittore delle sue dimensioni corporee in seguito.

    La ricerca

    Dai cianobatteri la bistecca del futuro

    di Sandro Iannaccone

    15 Marzo 2024

    I ricercatori hanno sperimentato diverse combinazioni di fonti proteiche (tra cui pollo, prodotti di scarto del maiale, roditori e farina di pesce) su un sottogruppo di 58 pitoni birmani dell’allevamento di Ho Chi Minh e hanno scoperto che per ogni 4,1 grammi di cibo consumato si poteva raccogliere 1 grammo di carne di pitone. Questo rapporto di conversione del cibo non variava significativamente tra le diete dei pitoni e, in termini di conversione delle proteine, è più efficiente di altri animali studiati finora. Inoltre, il 61% di questi pitoni birmani ha digiunato per periodi compresi tra 20 e 127 giorni, perdendo però pochissima massa corporea durante questo periodo. 

    Secondo gli autori, questi risultati indicano che l’allevamento commerciale dei pitoni potrebbe essere un’opzione di produzione alimentare fattibile e sostenibile che potrebbe integrare i sistemi di allevamento esistenti.

    Alimentazione

    Dalla Corea arriva la carne coltivata nel riso

    di Sandro Iannaccone

    14 Febbraio 2024

    Le pressioni ambientali e demografiche stanno influenzando i sistemi agricoli convenzionali. Nella produzione zootecnica, gli animali a sangue freddo, noti come ectotermi, per lo più mammiferi e di uccelli, la cui particolarità consiste nel produrre una temperatura interna costante, compresa tra i 36 e i 37°C, sono molto più efficienti dal punto di vista energetico rispetto agli animali a sangue caldo, noti come endotermi, come i bovini o il pollame.Alcune fonti alimentari di animali a sangue freddo, come la carne di serpente, stanno acquistando popolarità in alcuni Paesi asiatici dove vengono tradizionalmente consumate, ma l’industria rimane piccola. LEGGI TUTTO

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    Nelle Marche un laboratorio per un’industria meno impattante

    In quella che un tempo fu una palestra, 700 metri quadri alle porte di Camerino, nel cuore del cratere maceratese del terremoto del 2016, si progetta un futuro che possa prescindere dai combustibili fossili. E che punti sui materiali bio-based (interamente o parzialmente derivati da biomassa, piante e vegetali in primis) e sull’economia circolare, in particolare sul riuso del rifiuto post-industriale e post-consumo. Si chiama MARLIC, acronimo di Marche Applied Research Laboratory for Innovative Composites, il laboratorio inaugurato a luglio al termine di un progetto da 11,5 milioni di euro che ha visto comporsi una piattaforma collaborativa co-finanziata dalla Regione Marche e dedicata alla manifattura sostenibile e all’ecosostenibilità di prodotti e processi per nuovi materiali. LEGGI TUTTO

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    Dirigenti scolastici, via libera al nuovo contratto: aumenti da 240 euro al mese. E arriva il preside-mentor

    C’è l’ok al nuovo contratto per i dirigenti scolastici che prevede un aumento di 240 euro di cui 195 sulla retribuzione fissa. E introduce anche una novità sulla mobilità interregionale riconoscendo ai presidi la possibilità di passare, nel limite del 60% dei posti disponibili annualmente, nella Regione in cui si fa richiesta, tenuto conto dei posti regionali già messi a concorso dall’amministrazione.
    È stata firmata il 13 marzo all’Aran da tutte le organizzazioni e confederazioni sindacali rappresentative l’ipotesi di contratto collettivo nazionale di lavoro dell’Area dirigenziale Istruzione e ricerca relativa al triennio 2019-2021. Il rinnovo riguarda circa 6.500 unità di personale tra dirigenti della Scuola, dell’Università, dell’Afam, della Ricerca.
    Gli aumenti in busta paga
    Come detto il nuovo contratto potrà consentire di riconoscere aumenti medi del 3,78%. Il Ministero potrà, inoltre, riconoscere ulteriori incrementi per i dirigenti scolastici utilizzando specifiche ed ulteriori risorse destinate dalla legislazione vigente. L’ipotesi di contratto prevede i seguenti aumenti mensili: dal 1° gennaio 2019 di 84 euro; rideterminato dal 1° gennaio 2020 in 130 euro; rideterminato dal 1° gennaio 2021 in 135 euro. Il nuovo valore a regime annuo lordo per 13 mensilità dello stipendio tabellare è rideterminato, pertanto, da 45.260,73 euro in 47.015,73 euro. Il valore della retribuzione di posizione parte fissa, con relativi oneri a carico del Fun, è incrementato a decorrere dal 1° gennaio 2021 di 60 euro mensili lordi per 13 mensilità e, dunque, è rideterminato in 13.345,11 euro.

    Scuola, stipendio di 1 euro. Il conguaglio fiscale manda presidi, dirigenti e docenti in rosso

    di Corrado Zunino

    04 Febbraio 2024

    La figura del mentor per affiancare i neoassunti
    Altra novità di rilievo, “già prevista negli altri contratti per la dirigenza pubblica, l’introduzione della figura del ‘mentor’, ossia un dirigente o professionista esperto che viene chiamato, su base volontaria, ad affiancare il personale neoassunto durante i primi mesi di servizio – ha sottolineato il presidente Aran, Antonio Naddeo -. Mi fa particolarmente piacere evidenziare che su questo contratto c’è la firma di tutte le organizzazioni sindacali, a differenza di quanto accaduto per il rinnovo del contratto del comparto, con la mancata sottoscrizione da parte della Uil Rua. Siamo pronti – conclude Naddeo – ad aprire la settimana prossima, il 20 marzo, la nuova tornata contrattuale 2022-2024, partendo dal comparto Sanità, che riguarda oltre mezzo milione di lavoratori del Servizio sanitario nazionale”.
    Valditara: “Segnale di attenzione”
    “Con questo contratto – ha dichiarato il ministro Giuseppe Valditara – vogliamo dare un ulteriore segnale di attenzione nei confronti dei dirigenti scolastici, che con il loro impegno quotidiano rappresentano un pilastro fondamentale del mondo della scuola. La loro valorizzazione passa dal miglioramento delle condizioni lavorative e anche dall’aspetto economico, elementi che abbiamo tenuto fortemente in considerazione all’interno di questo accordo. Il mio obiettivo è ridare prestigio e autorevolezza a tutti i lavoratori della scuola perché da loro passa il futuro del nostro Paese”. LEGGI TUTTO

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    Dai cianobatteri la bistecca del futuro

    È nota, un po’ impropriamente, come alga azzurra, o alga verde-azzurra, ma non ha niente in comune con le alghe in senso stretto: il suo nome designa, in realtà, un phylum di batteri fotosintetici, i cianobatteri, spesso presenti in laghi d’acqua dolce, ruscelli, stagni e paludi. Questi batteri sono responsabili della colorazione verdastra delle pozze d’acqua che colonizzano, e alcuni di loro producono tossine velenose; altri, invece, potrebbero rilevarsi estremamente utili alla produzione sostenibile di proteine simili a quelle della carne. Un’équipe di ricercatori della University of Copenhagen, infatti, ha appena messo a punto un sistema per produrre, a partire dai cianobatteri, dei filamenti proteici che ricordano molto da vicino quelli presenti nella carne “reale”. I dettagli della scoperta sono stati pubblicati sulla rivista Acs Nano.

    Alimentazione

    Dalla Corea arriva la carne coltivata nel riso

    di Sandro Iannaccone

    14 Febbraio 2024

    Come accennavamo, i cianobatteri hanno molto poco a che fare con le alghe; uno dei pochi elementi comuni con il mondo vegetale è la loro capacità di eseguire la fotosintesi. Di più: secondo le ipotesi attualmente più accreditate, si pensa che i cianobatteri siano stati gli “inventori” della fotosintesi, quasi 4 miliardi di anni fa, e che per questo motivo abbiano giocato un ruolo fondamentale nell'”ossigenare” l’atmosfera terrestre, rendendo possibile lo sviluppo di tutte le altre forme di vita aerobiche. Ma c’è dell’altro.”I cianobatteri”, ha spiegato Poul Erik Jensen, del Department of Food Science dell’ateneo danese, “sono organismi viventi che possono essere ‘indottì a produrre una proteina che non produrrebbero naturalmente. L’aspetto più interessante è che questa proteina viene prodotta in forma di filamenti che in qualche modo somigliano alle fibre della carne. Potrebbe essere possibile usare questi filamenti nei surrogati vegetali della carne, nel formaggio o in altri tipi di alimenti che hanno quella particolare struttura”.

    Ricerca

    Non solo carne: in Nuova Zelanda si sperimenta l’orticoltura cellulare

    di Simone Valesini

    16 Settembre 2023

    Già da diverso tempo, in verità, la comunità scientifica sta guardando con attenzione ai cianobatteri e alle microalghe come potenziali fonti di cibo alternativo, per almeno due ragioni: da una parte perché “assomigliano” ai vegetali (essendo in grado di eseguire la fotosintesi), e dall’altra perché contengono e producono grandi quantità di proteine e acidi grassi polinsaturi (quelli che, per intenderci, “fanno bene”).Nel caso di cui parliamo, gli scienziati danesi hanno bioingegnerizzato i cianobatteri inserendovi dei geni esterni con le “istruzioni” necessarie a produrre altre proteine ancora più simili a quelle della carne, servendosi di un processo relativamente semplice, economico e soprattutto scalabile: “Potremmo riuscire a utilizzare l’intero cianobatterio nei prodotti alimentari”, dice ancora Jensen, “e non solo le fibre proteiche, e in questo modo ridurremmo ulteriormente l’onere del processo. Nella ricerca in ambito alimentare, in effetti, si cerca sempre di minimizzare la processazione della materia prima in modo da lasciare inalterato il valore nutritivo degli ingredienti e di sprecare energia”.

    La produzione in serie e la commercializzazione di questa bizzarra carne surrogata, comunque, è ancora piuttosto lontana, anche se i primi risultati sono incoraggianti: “Lavoreremo per affinare l’ingegnerizzazione di questi organismi e renderli ancora più produttivi”, conclude Jensen. “Un po’ come quello che avvenne con le mucche, che abbiamo cercato in tutti i modi di rendere più produttive possibile: ma nel nostro caso, avendo a che fare con batteri, non abbiamo alcun problema etico di benessere animale. Non riusciremo a farlo nel futuro immediato, perché dobbiamo ancora comprendere alcuni meccanismi metabolici di questi organismi. Ma siamo sulla buona strada, e sono convinto che ce la faremo. Potrebbe essere l’approccio migliore per produrre le proteine di cui abbiamo bisogno”. LEGGI TUTTO