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    Sostenibilità, per le aziende è ancora un obiettivo difficile da raggiungere

    La sostenibilità è ormai un tema centrale per le aziende e la maggior parte dei manager dichiara di avere obiettivi chiari e coraggiosi in materia, ma quasi nessuno ritiene di essere sulla buona strada per raggiungerli. È quanto emerge da un sondaggio condotto a livello globale dalla società di consulenza Bain & Company che ha coinvolto oltre 300 dirigenti d’azienda. Nel 67% dei casi questi ultimi spiegano di avere ambiziosi piani di sostenibilità in termini ambientali, sociali e di governance, ma solo il 3% pensa di essere sulla buona strada per raggiungerli. Il motivo? Non essersi mobilitati realmente per realizzare i propri obiettivi, portando anche le idee più promettenti a cadere nel vuoto per la mancanza di supporto.

    Secondo la ricerca, solo il 25% del campione intervistato ritiene che oggi la sostenibilità sia ben integrata nella propria attività. Mentre il 36% riferisce di essere molto al di sotto del livello di progresso previsto su questi temi. Cambiare rotta però è possibile, si legge nell’indagine, adottando alcune buone pratiche e abbracciando una nuova mentalità che guarda alla sostenibilità come a una parte integrante del business e come a un’opportunità per creare valore.

    Le buone pratiche e i casi aziendali virtuosi

    In primo luogo, occorre tradurre le proprie ambizioni di sostenibilità in obiettivi concreti e pluriennali, testando al contempo le strategie per ottenere questi risultati. Un esempio in questo senso arriva da Walmart. Il ceo della società Doug McMillon evidenzia come l’ambizione in termini di sostenibilità sia di porre l’ambiente e le persone al centro del business. Questo approccio ha aiutato Walmart a evitare più di 750 milioni di tonnellate di emissioni dal 2017, in particolare riducendo le emissioni di carbonio dei sistemi di refrigerazione, adottando pratiche sostenibili per la logistica dell’ultimo miglio e muovendosi verso un modello circolare a rifiuti zero.

    Allo stesso modo, Solvay, azienda belga che opera nel settore chimico e delle plastiche, ha focalizzato la sua ambizione di sostenibilità su tematiche come “clima, risorse e miglioramento della vita”, traducendole in precisi obiettivi aziendali. Questi includono l’incremento dell’efficienza energetica e processi industriali sempre più elettrificati, l’aumento delle forniture di energia verde negli impianti, l’attenzione alla biodiversità nei propri siti industriali, la riduzione del consumo di acqua. In questo modo, l’organizzazione ha ridotto le proprie emissioni dirette del 19% e la pressione sulla biodiversità del 28% dal 2018. Per i manager di Solvay, la sostenibilità rappresenta uno strumento per mitigare i rischi e promuovere la creazione di valore duraturo. Non a caso, la performance in materia di sostenibilità incide per il 15% sul bonus annuale di tutti i manager.

    In secondo luogo, si evidenzia nell’analisi, è importante che nel momento in cui si lavora su nuove opportunità di sostenibilità venga considerato il loro impatto su un’ampia varietà di stakeholder. Ad esempio, in Walmart è stata lanciata l’idea di costruire un’infrastruttura per veicoli elettrici, con l’obiettivo di ridurre le emissioni nel trasporto di merci dai negozi e dai centri logistici alle abitazioni, considerando anche il valore che questa soluzione avrebbe potuto apportare ai consumatori, ai dipendenti e alle comunità. Il gruppo ha annunciato che avrebbe costruito una rete di ricarica rapida per veicoli elettrici a basso costo in diverse località, consentendo ai clienti di ricaricare le proprie auto mentre fanno acquisti.

    In terzo luogo, le aziende che intendono accelerare nelle loro ambizioni di sostenibilità dovrebbero puntare su team dedicati multidisciplinari per testare potenziali nuove soluzioni. Occorre poi puntare su un sistema per accelerare la scalabilità delle soluzioni di sostenibilità considerate interessanti. In questo può essere utile fare affidamento su feedback da parte di dipendenti e clienti o discutere delle soluzioni adottate nelle riunioni operative dell’azienda.

    Infine, conclude lo studio, per capire com’è posizionata la propria azienda sul fronte della sostenibilità, i ceo dovrebbero porsi alcune domande: “I nostri quadri hanno specifici obiettivi di sostenibilità? Abbiamo creato dei team dedicati alla sostenibilità e allo sviluppo di nuove soluzioni? I nostri dipendenti promuovono idee di sostenibilità che potrebbero diventare nuove fonti di valore? In che modo un modello ripetibile per scalare il cambiamento potrebbe accelerare il nostro percorso verso la sostenibilità?”. LEGGI TUTTO

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    L’industria aerospaziale accelera sulla sostenibilità

    L’industria aerospaziale, con quasi un miliardo di tonnellate di anidride carbonica emesso ogni anno, è tra i settori maggiormente alle prese con il tema delle emissioni. Non solo: un aereo in volo emette anche ossidi di azoto, particolato carbonioso e aerosol di solfati, che danneggiano lo strato di ozono. Il problema è costituito soprattutto dai jet privati, in costante aumento, e dai voli cargo non necessari. Una situazione non più sostenibile, anche perché le stime prevedono che la quantità di agenti nocivi aumenterà sempre di più ogni anno.

    Cambio di rotta

    Il settore si trova quindi a un bivio. Se non prendesse alcun provvedimento, potrebbe triplicare il volume attuale di emissioni nette di CO2 per il 2050. Al contrario, se assumesse una serie di misure, anche radicali e strutturali, potrebbe addirittura ridurle a zero per quella data. Quest’ultima strada è complessa ma non impossibile, e prevede che si agisca su più fronti.

    Innanzitutto, la decarbonizzazione. Sebbene ancora minoritari in assoluto, stanno prendendo piede i carburanti sostenibili, estratti da materiali vegetali e animali, alghe e rifiuti alimentari, il cui utilizzo potrebbe ridurre gli effetti delle emissioni di gas serra di oltre l’80%. Per il momento la produzione è in fase di sviluppo, rendendo questo tipo di carburanti molto costoso, ma il vantaggio è che possono essere usati sui modelli attuali di aerei senza bisogno di riprogettare i motori.

    Focus sui consumi

    In futuro, comunque, i velivoli tenderanno a consumare molto meno carburante. A questo obiettivo si arriverà lavorando su una serie di fattori, come il miglioramento della progettazione dei motori, l’uso di rivestimenti avanzati, una maggiore aerodinamicità e l’uso di materiali più leggeri. In questo senso un ruolo cruciale lo avranno la tecnologia laser e la stampa 3D, che interverranno direttamente in fase di produzione permettendo oltretutto un notevole risparmio alle compagnie.

    Come già l’industria automobilistica, inoltre, anche quella aerospaziale dovrà ripensare i suoi sistemi di propulsione, puntando sull’elettrico, sul solare o sulla pila a combustibile (fuel cell). Questo richiede una stretta collaborazione con altri settori produttivi, ma porterà a una maggiore efficienza, a una migliore autonomia di carburante e all’ottimizzazione delle prestazioni.

    Poi c’è da considerare l’espansione della mobilità aerea avanzata, guardando soprattutto all’avanguardia rappresentata dal decollo e atterraggio verticale elettrico (Evtol). Sebbene ancora in una fase iniziale, il sistema Evtol promette di rivoluzionare i viaggi aerei per brevi e medie distanze, abbattendo la quantità di emissioni nocive. Inoltre, grazie alla riduzione di parti rotanti, ridurrebbe notevolmente l’inquinamento acustico, altro aspetto su cui l’industria subisce molte pressioni. Ci sono poi i droni elettrici per consegne dell’ultimo miglio e gli aerotaxi (sempre elettrici), il cui utilizzo ridurrebbe la congestione urbana eliminando al tempo stesso sette milioni di tonnellate di CO2 a livello globale.

    Il contributo che arriva dalla tecnologia

    Infine si sta lavorando per ottimizzare la gestione dei viaggi aerei, sfruttando la tecnologia per migliorare la pianificazione delle rotte, la manutenzione delle risorse e l’efficienza operativa. È intuitivo che l’intelligenza artificiale potrebbe giocare un ruolo chiave in questo senso. L’intelligenza artificiale può essere usata anche per digitalizzare la gestione dei clienti negli aeroporti, in modo da ridurre le pratiche burocratiche e altre attività associate alle emissioni di gas serra. Si calcola che, semplicemente agendo su questi ultimi aspetti, si arriverebbe a una riduzione di emissioni dell’11%. LEGGI TUTTO

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    Cop28 al via: accelerare su transizione verde, ma servono progetti e risorse

    Prende il via oggi la 28° Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, in programma a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti dal 30 novembre al 12 dicembre, dove si parlerà dei finanziamenti per i progetti a supporto di clima e natura, attualmente insufficienti per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Durante il summit, il dibattito si focalizzerà sull’opportunità di ridurre o eliminare gradualmente i combustibili fossili, anche alla luce del nuovo rapporto dell’Onu il quale prevede che la produzione globale di carbone è destinata ad aumentare fino al 2030, mentre la produzione di petrolio e gas crescerà almeno fino al 2050.

    Posizioni diversificate su gas e petrolio

    Francia, Spagna, Kenya e una dozzina di altri paesi stanno spingendo per eliminare completamente i nuovi progetti di petrolio e gas, mentre altri paesi sostengono una riduzione limitata. Nonostante le divisioni, l’auspicio del segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres è che i prossimi colloqui sul clima della Cop28 si concludano con un accordo più ambizioso. “Abbiamo bisogno di impegni credibili per incrementare le energie rinnovabili, eliminare gradualmente i combustibili fossili e aumentare l’efficienza energetica. La Cop28 deve inviare un chiaro segnale che l’era dei combustibili fossili ha esaurito il gas e che la sua fine è inevitabile”, dichiara Guterres. Un segnale che purtroppo non è arrivato dalla Cop27 di Sharm El Sheikh, archiviata senza un accordo per colpa di alcuni paesi produttori di petrolio e gas che invece puntano sulla tecnologia emergente della cattura di carbonio (CCUS) per risolvere i problemi del Pianeta.

    Lo studio del Wef

    In effetti, secondo il World Economic Forum (Wef), la cattura del carbonio potrebbe aiutare a contrastare le emissioni delle centrali elettriche e degli impianti industriali che utilizzano combustibili fossili, a patto che la sua capacità aumenti di almeno 40 volte entro il 2030 per raggiungere lo zero netto entro il 2050. “Per mantenere qualche possibilità di limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C entro la fine di questo secolo, le emissioni globali devono diminuire di circa il 7% annuo fino al 2030”, sottolinea il Wef nel suo nuovo rapporto The State of Climate Action.

    Il problema è duplice: le emissioni stanno aumentando dell’1,5% all’anno. E i finanziamenti per i progetti a supporto di clima e natura non sono abbastanza sufficienti per invertire la rotta. Ma quante risorse servirebbero? “Oltre 100-150mila miliardi di dollari a livello globale nei prossimi 3 decenni”, afferma Bcg che nel suo rapporto “Sustainability in Private Equity” mostra come le società di private equity possano fare la differenza in questo senso.

    Il ruolo della finanza sostenibile

    “La finanza sostenibile è la leva più efficace per raggiungere l’obiettivo emissioni zero – spiega Elisa Crotti, managing director e partner di Bcg – L’attuale gap di investimenti nell’ambito del clima si traduce in almeno 3-5 mila miliardi di dollari di investimenti all’anno nei prossimi 30 anni, con un aumento da cinque a otto volte rispetto ai livelli attuali. Questo spinge a ripensare e implementare una nuova architettura finanziaria per raggiungere realmente gli obiettivi climatici, nonché a lavorare più velocemente e più uniti per riuscirci.”

    Lo studio Bcg sostiene che le società di private equity possano fare la differenza in 3 ambiti. Decarbonizzazione: promuovendo progetti green nelle società in portafoglio. Utilizzo delle energie rinnovabili: le società in portafoglio per più di due anni mostrano un livello di adozione delle rinnovabili tre volte superiore rispetto a quelle detenute da meno tempo. Impatto sociale: le aziende private creano più posti di lavoro rispetto a quelle pubbliche, solo nell’ultimo anno le prime hanno assunto 4 nuovi dipendenti netti in più ogni 100 dipendenti a tempo pieno rispetto alle seconde.

    Il 57% di aziende private ha almeno una donna nel proprio Cda, rispetto al 90% delle aziende pubbliche. Se consideriamo poi le donne in posizioni di leadership, nelle società private ne troviamo un 22%, rispetto al 17% delle aziende pubbliche. Inoltre, la percentuale di donne C-suite nelle aziende private aumenta per la durata dell’investimento di un fondo di private equity. LEGGI TUTTO

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    Natali (Mundys): “La trasparenza driver strategico”

    “La sostenibilità non consiste in una o più azioni, bensì è un percorso che si costruisce tappa dopo tappa, nella consapevolezza che si possono ottenere risultati via via più importanti coinvolgendo sempre più l’organizzazione aziendale e tutti i soggetti con cui l’impresa si trova a relazionarsi”. È la convinzione di Giuseppe Natali, tax affairs manager Mundys. La holding italiana attiva in 24 Paesi, nei settori delle infrastrutture aeroportuali, autostradali, e dei servizi legati alla mobilità, ha da poco ottenuto per il secondo anno consecutivo la certificazione di Fair Tax Foundation. Quest’ultima è un’organizzazione britannica indipendente e non profit che promuove l’operato di realtà aziendali internazionali per comportamenti corretti e trasparenti sul fronte fiscale. Come già accaduto nel 2022, si tratta dell’unica azienda italiana ad aver ottenuto il riconoscimento.

    “Questo risultato rappresenta per noi un’ulteriore conferma dell’impegno portato avanti da Mundys sul fronte della sostenibilità e della trasparenza, anche a livello fiscale”, rivendica il manager. Nei mesi scorsi il gruppo che ha nella famiglia Benetton l’azionista di riferimento (Alessandro è vicepresidente) insieme al neo socio Usa Blackstone, ha pubblicato la seconda edizione del Tax Transparency Report, nel quale viene illustrato dettagliatamente il contributo fiscale di tutte le asset companies nelle giurisdizioni in cui opera e indicato l’ammontare delle imposte pagate e di quelle raccolte e riversate alle amministrazioni fiscali locali. Meccanismi che in apparenza possono apparire tecnici, ma che in realtà sono un’istanza di attualità se si pensa al bisogno  di trasparenza anche a fronte delle polemiche che coinvolgono alcune multinazionali, con la tendenza a eludere il pagamento delle imposte nei Paesi in cui fatturano cifre importanti. Senza dimenticare il contributo che le tasse hanno per consentire agli Stati di funzionare e fornire i servizi pubblici di cui tutti possiamo usufruire.

    Così, non solo i consumatori, ma anche gli investitori, le istituzioni e gli altri soggetti economici con i quali si interfaccia ogni singola impresa diventano sempre più sensibili a queste tematiche, stimolando l’adozione di comportamenti virtuosi che generano anche una maggiore attrattività in termini di mercato. Uno scenario che crea reazioni a catena che promettono di rivoluzionare il modo in cui si fa business, con i temi della sostenibilità che sempre più evolvono da azioni volontarie – dettate da scelte etiche del management – ad architravi dei piani industriali, in una duplice ottica di riduzione dei rischi e creazione di nuove opportunità. Sotto il primo profilo, curare gli aspetti di tutela dell’ambiente, promuovere interventi di inclusione sociale e mettere in piedi un sistema adeguato di governance riduce i pericoli di incidenti e scandali, di fatto favorendo una crescita sana del business. Sotto il secondo aspetto, l’integrazione delle tematiche Esg nel business aiuta a entrare nelle filiere che ergono delle barriere all’ingresso proprio in materia di sostenibilità.  

    “Questo risultato è stato possibile attraverso il significativo miglioramento delle informazioni rese pubbliche a disposizione dei nostri stakeholders, grazie alla collaborazione con le aziende del gruppo e con le autorità fiscali dei Paesi in cui Mundys opera”, aggiunge Natali. Il quale ribadisce il concetto dei miglioramenti continui che si possono ottenere in materia di sostenibilità. “Il nostro obiettivo è crescere generando valore diffuso. Per questo abbiamo messo a punto un piano di sostenibilità, organizzato sui tre pilastri fondamentali: pianeta, persone e prosperità”, racconta il manager. “Oltre a promuovere forme di mobilità a basso impatto ambientale, mettiamo in campo iniziative per usare meno e meglio le risorse naturali attraverso la ricerca di soluzioni tecniche, tecnologiche, manageriali e organizzative finalizzate alla salvaguardia del capitale naturale. Promuoviamo attivamente la diversità e la crescita del nostro capitale umano, garantendo a tutti le stesse opportunità. Infine siamo impegnati a gestire il business con un modello di governo fondato su etica, integrità e trasparenza. Tutti concetti che non sono solo comunicati, ma frutto di una verifica costante da parte di enti terzi, che ci aiuta a migliorarci continuamente”, rivendica.

    Natali cita la scelta di realizzare “un monitoraggio costante di come gli strumenti di credito finanziario stanno evolvendo, in modo da essere pronti a cogliere opportunità sul fronte dell’accesso ai mercati obbligazionari e bancari”. A questo proposito, la capogruppo guidata dal ceo Andrea Mangoni e dal presidente Giampiero Massolo nei mesi scorsi ha convertito l’intero debito di 3 miliardi in sustainability linked loans, che legano il tasso di interesse al raggiungimento degli obiettivi Esg assunti. LEGGI TUTTO

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    Quando la governance orienta il board: così si vince la sfida Esg

    Sicuramente la meno sexy, ma probabilmente la più rilevante. Quando si parla di Esg (environmental, social and governance), l’attenzione è posta in primo luogo sugli aspetti di tutela dell’ambiente e quindi sulle iniziative di inclusione sociale. Più raro, invece, è che il focus sia incentrato sull’insieme di processi, regole, strumenti e ruoli finalizzati a garantire che l’azienda svolga in maniera efficiente la propria attività. Si tratta di aspetti in molti casi per addetti ai lavori, ma estremamente importanti per minimizzare i rischi ed evitare conseguenze negative per l’immagine e per il business.

    “La governance consente di costruire una piattaforma abilitante per far sì che i temi E e S abbiano effettivamente un impatto significativo. In caso contrario, c’è il rischio che le iniziative orientate alla tutela ambientale restino un po’ avulse dal business e vissute come un ulteriore adempimento, con un focus sulla misurazione anziché sull’impatto reale”, spiega Barbara Quacquarelli, professoressa di Organizzazione aziendale all’Università di Milano Bicocca e referente area Innovazione e Sviluppo Risorse Umane alla Scuola nazionale dell’Amministrazione. Una riflessione, la sua, che centra uno dei limiti spesso emersi in relazione alle iniziative aziendali nel campo della sostenibilità. Se queste ultime non sono inquadrate nelle strategie complessive delle imprese, anche con un’analisi dei ritorni attesi, il rischio è che si rivelino di corto respiro nel tempo. In sostanza, progetti di volontariato a perdere (“gli inglesi usano l’espressione ‘nice to have’ per indicare le iniziative non connesse all’attività di impresa”, aggiunge l’esperta), che magari vengono tagliati alla prima necessità.

    Quindi c’è un altro aspetto da valutare e riguarda la capacità di dar vita ad azioni organiche nel contesto aziendale. “Affinché la sostenibilità diventi centrale nella vita di un’impresa non bastano gli investimenti e nemmeno i progetti; occorre che tutte le persone che ne fanno parte abbiano gli obiettivi Esg come riferimento delle rispettive attività”. Questo è possibile, prosegue Quacquarelli, “solo se si mette a punto una governance adeguata a orientare sia le scelte del board, sia quelle del personale nella medesima direzione. Vuol dire partire dall’integrare questi obiettivi non solo nella mission e vision aziendale, ma scendere a cascata nell’operatività delle funzioni aziendali, come ad esempio puntando a un allineamento del piano di comunicazione o negoziando finanziamenti ancorandoli a criteri Esg”.

    In sostanza, dar vita a un sistema adeguato di governance richiede di saper svolgere la propria attività prestando attenzione alla compliance normativa e alle ricadute che questa ha sugli aspetti della sostenibilità in tutte le direzioni nelle quali può estrinsecarsi questo concetto. Significa – ad esempio – estendere il concetto di mission dell’azienda al di là dei confini del solo profitto per includere tutti gli aspetti che riguardano oggi la sensibilità diffusa tra consumatori, investitori e altri soggetti che si interfacciano con l’impresa.

    A livello teorico esistono due modelli prevalenti di governance: uno incentrato sugli azionisti, che in sostanza chiede al management di agire per massimizzare il valore delle azioni, l’altro che invece include nelle valutazioni sulle scelte da adottare gli interessi anche di altri stakeholder, come dipendenti e soggetti esterni provenienti dalla società civile. “In uno scenario in costante evoluzione, molti consigli di amministrazione hanno difficoltà nel concretizzare i criteri Esg per una carenza di abilità”, sottolinea uno studio di Bcg. “Spesso i dirigenti mancano di competenze in materia di sostenibilità, mentre i dipendenti che le possiedono non dispongono di credenziali per entrare a far parte del board”. Una situazione che dimostra come la messa a terra dei progetti di governance sia tutt’altro che semplice, nella misura in cui deve incidere profondamente sul modo stesso in cui un’azienda è strutturata. Il rischio è “una trappola paralizzante di velocità e complessità”, come la definisce Bcg, che rischia di portare all’inazione. Un atteggiamento che rischia di far perdere rapidamente competitività all’azienda.

    Grafico a cura di Silvano Di Meo   LEGGI TUTTO

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    Shipping, Lloyd’s Register: “Ammoniaca verde e bio-Gnl, i carburanti del futuro”

    Come si muoveranno le navi del futuro? Sono due i combustibili alternativi che potrebbero orientare nei prossimi anni la rotta del trasporto marittimo: ammoniaca verde, combustibile ottenuto dall’idrogeno, e biometano liquefatto (bio-Gnl). È quanto sostiene il rapporto “The Future of Maritime Fuels” del Lloyd’s Register, società di riferimento a livello mondiale nel settore della classificazione navale, alla luce degli impegni stringenti che l’industria del mare deve perseguire per azzerare le emissioni di gas serra al 2050.

    Nel primo scenario, lo studio sostiene che l’ammoniaca verde, ottenuta dall’idrogeno attraverso un processo di produzione al 100% rinnovabile e carbon-free, sarà probabilmente il carburante più adottato nel lungo termine dal trasporto marittimo. Questa previsione porterà potenzialmente il settore a diventare il più grande utilizzatore di ammoniaca a livello mondiale. Secondo le stime, questo combustibile catturerà una quota compresa tra il 20% e il 60% del totale dei carburanti utilizzati per il trasporto marittimo entro il 2050, con un consumo totale che aumenterà in media da 0,79 exajoule (EJ) nel 2030 a 6,06 EJ nel 2050.

    Nel secondo scenario, lo studio prevede invece che il biometano liquefatto catturerà in media il 34% del totale dei carburanti utilizzati per il trasporto marittimo entro il 2050, con un consumo totale che aumenterà da 0,5 EJ nel 2030 a 4,58 EJ nel 2050. Tuttavia, l’analisi sottolinea che la fornitura stimata di biometano necessario per la navigazione varierà tra 0,3 EJ e 2 EJ durante il periodo in esame, un valore inferiore alla domanda.

    Il rapporto prevede inoltre che il metanolo avrà una quota più bassa nel mercato dei carburanti per la navigazione marittima rispetto a biometano e ammoniaca. Una previsione, evidenzia lo studio, in controtendenza rispetto all’andamento degli ordini registrato negli ultimi anni, per lo più concentrato su unità a metanolo a doppia alimentazione. In conclusione, lo studio stima che la quota combinata di metanolo bio e verde, combustibili alternativi ottenuti rispettivamente dalle biomasse e da fonti rinnovabili, avranno una quota di mercato in media del 13,4% sul totale dei carburanti per il trasporto marittimo entro il 2050.

    “Le nostre proiezioni dimostrano l’entità della sfida che investitori e armatori hanno di fronte per sciogliere l’attuale dilemma legato alla scelta dei carburanti alternativi su cui puntare. Ancora oggi non è chiaro quale sia la categoria dei carburanti del futuro che dominerà il mix di combustibili marittimi nel breve e lungo termine. Per questo, gli investitori stanno prendendo tempo perché i rischi sono tanti. Questa incertezza ha frenato gli investimenti sui combustibili a basso o zero carbonio. Pertanto, in questo momento, iniziative pionieristiche come i Green shipping corridors (che fungono da modello per la riduzione globale delle emissioni marittime e della catena di approvvigionamento, ndr), risultano fondamentali nel tentativo di ridurre l’incertezza del mercato”, sottolinea Carlo Raucci, consulente per la decarbonizzazione, LR Maritime Decarbonisation Hub. LEGGI TUTTO

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    Salone dell’auto di Monaco, il futuro della mobilità è green

    La transizione verso la mobilità sostenibile è ormai una strada tracciata, complice la spinta di governi e istituzioni verso la virata green del settore automobilistico e la maggiore sensibilità dei consumatori verso l’acquisto di modelli rispettosi dell’ambiente. Ma in che modo sta evolvendo il mercato delle vetture sostenibili? A darci un’idea è l’Iaa, il salone […] LEGGI TUTTO

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    Il fattore umano alla base delle città intelligenti, ma servono competenze digitali

    La transizione ecologica e digitale abbraccia diversi aspetti della nostra società: la rivoluzione tecnologica e l’impegno alla decarbonizzazione hanno infatti innovato il nostro modo di vivere, dal lavoro al tempo libero, dalle relazioni sociali alla mobilità. Valorizzazione dei dati e intelligenza artificiale, digitalizzazione delle attività amministrative, auto elettriche e smart working sono solo alcuni esempi di queste profonde trasformazioni che contribuiscono a realizzare la visione delle città intelligenti, centri urbani futuristici concepiti per migliorare la qualità della vita dei suoi abitanti nel rispetto dell’ambiente e con una gestione efficiente delle risorse pubbliche. 

    Una realtà che riguarda soprattutto le grandi città, come Barcellona e Milano, dove si stanno sperimentando diversi progetti, tra cui modelli di MaaS (Mobility as a Service); ma che comincia a interessare anche comuni di minori dimensioni. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, come ricorda uno studio degli Osservatori digital innovation del Politico di Milano, il 39% dei comuni al di sopra dei 15.000 abitanti ha avviato almeno un progetto di Smart City nel 2022, il 21% se si considerano tutti i comuni della Penisola. Il tema è quindi sempre più rilevante, tenendo conto anche del fatto che attualmente nel mondo la popolazione che vive in città costituisce il 55% del totale: un valore destinato a crescere, e che raggiungerà quota 70% entro la fine del 2050 secondo le previsioni dell’Onu.

    Tra tecnologia e capitale umano

    Alla base dello sviluppo delle smart city ci sono diverse applicazioni come Internet of Things (IoT), Intelligenza artificiale, Big data, Cloud computing, Digital Twin: la tecnologia è fondamentale per favorire l’efficientamento energetico e ridurre i consumi, abbattere l’inquinamento atmosferico in città e tutelare l’ambiente e la salute delle persone. Come ricorda il Politecnico di Milano, nel 2022 è cresciuto il mercato delle smart city in Italia: ha raggiunto i 900 milioni di euro, registrando un incremento del 23% rispetto al 2021. Nel tempo le amministrazioni pubbliche e le aziende hanno investito in diverse iniziative, e le quote maggiori del mercato sono rappresentate da progetti legati all’illuminazione pubblica (24%), smart mobility (21%), smart metering – vale a dire i sistemi che consentono la telelettura e la telegestione dei contatori di luce, gas, acqua – e smart building (12%). E i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza hanno contribuito a questo andamento, favorendo anche lo sviluppo di soluzioni legate all’energia (13%), come smart grid e comunità energetiche rinnovabili.

    Altro elemento importante per promuovere lo sviluppo di queste città intelligenti è la presenza di un’infrastruttura adeguata, e quindi reti abilitanti che permettono di mettere in funzione e in comunicazione gli oggetti connessi delle città del futuro. In particolare, le reti 5G favoriscono una migliore e più veloce circolazione dei dati dei vari dispositivi collegati: pensiamo ad esempio ai semafori intelligenti e alle auto connesse, che possono consentire una più efficace e moderna gestione del traffico.

    Infine, alla base della visione delle smart city ci sono le persone: non solo perché destinatarie dei benefici di questa trasformazione tecnologica ed ecologica; ma anche in termini di capitale umano, perché sono le loro competenze e intelligenze che rendono possibile questo modello urbano. In riferimento al primo punto, sono diverse le applicazioni che contribuiscono a migliorare la qualità della vita degli abitanti: pensiamo ai sensori di rilevamento e ai droni per l’analisi del rischio idro-geologico, che consentono di monitorare il territorio e rilevare situazioni potenzialmente pericolose; ancora il monitoraggio dell’ambiente, grazie a sensori e tecnologie che permettono di misurare l’inquinamento acustico e valutare la qualità dell’aria nelle città.

    Per quanto riguarda l’importanza del fattore umano, la mancanza di competenze adeguate rappresenta una delle barriere per lo sviluppo di smart city in Italia. Secondo i dati del Politecnico, tra il 2021 e il 2022 questo problema riguardava il 47% dei comuni. Un ostacolo che comprende anche la penuria di professionisti ed esperti nell’analisi dei dati raccolti con i dispositivi connessi. Una situazione che è però in miglioramento: l’anno scorso nell’ambito della valorizzazione dei dati da parte dei comuni, sono diminuiti i problemi legati alla mancanza di competenze (-22 punti percentuali rispetto al 2021), alla comprensione del valore generato (-20 p.p.) e alla carenza di adeguati sistemi digitali (-27 p.p.).

    Più in generale, il problema del digital divide e della scarsità di specialisti Ict è ben evidenziata anche dall’indice Desi della Commissione europea, che riassume gli indicatori delle prestazioni digitali dei Paesi Ue: l’Italia si piazza al 18° posto su 27, e siamo in difficoltà proprio sulla dimensione del capitale umano. Da un lato, per quanto riguarda il divario digitale – che può dipendere dalla mancanza di infrastrutture e dotazioni, ma anche dall’assenza di conoscenze informatiche – solo il 46% delle persone possiede almeno competenze digitali di base, un dato inferiore alla media Ue che è del 54%; dall’altro, i laureati in discipline Ict (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) sono ancora pochi: la quota di persone che ha preso un titolo di studio universitario in queste discipline rispetto al totale di laureati è dell’1,4%, il valore più basso registrato nell’Unione europea. In più, continua lo studio, nel mercato del lavoro la percentuale di specialisti Ict è pari al 3,8 % dell’occupazione totale, ancora al di sotto della media Ue (4,5 %).

    Il rafforzamento delle competenze digitali di base è fondamentale per consentire un’ampia partecipazione della popolazione all’economia e ai servizi digitali delle smart city. Come è prioritario garantire la sicurezza dei dati dei cittadini, che vengono raccolti e analizzati per offrire quei servizi e progettare migliori spazi urbani. LEGGI TUTTO