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    Quanta carne consumare per una dieta sana e sostenibile? Non più di due etti a settimana

    Nella piramide sui consumi alimentari raccomandati all’interno di una dieta mediterranea la carne si trova in alto, a sottolineare che in una sana alimentazione i suoi consumi dovrebbero essere ridotti. Nel piatto della dieta planetaria (quella elaborata dalla Eat-Lancet Commission), la dieta che fa bene anche all’ambiente, la carne non occupa che una piccolissima fetta, perché sappiamo che le diete a larga base vegetale hanno un minor impatto sul pianeta. Ridurre i consumi, più che rinunciare alla carne stessa, è dunque l’imperativo tanto dei nutrizionisti che degli ambientalisti. Un obiettivo che potrebbe essere raggiunto non superando i due etti e mezzo di carne a settimana.

    Il dato arriva da uno studio apparso nelle scorse settimane sulle pagine di Nature Food, frutto del lavoro in cui un gruppo di ricercatori della Technical University of Denmark e del Mit di Boston interessati proprio a comprendere quali fossero i consumi alimentari che potessero garantire – in generale – sia la salute della persona che quella dell’ambiente.

    Alimentazione

    “Così potete convincere chi mangia carne a diventare vegano”

    di Paola Arosio

    01 Maggio 2025

    Per farlo hanno condotto delle analisi mettendo insieme le informazioni nutrizionali e gli impatti ambientali di diversi alimenti (oltre 2500 quelli considerati, consumati negli Stati Uniti) e i requisiti che le diete dovrebbero avere per considerarsi sane e sostenibili secondo la scienza, spiegano. È chiaro infatti che alimenti diversi, e i relativi consumi, hanno un impatto diverso sull’ambiente, in termini di utilizzo di risorse ed emissioni, così come diversa è la distribuzione di energia, proteine, vitamine, fibre, grassi e zuccheri all’interno dei diversi cibi. Non solo: gli stili alimentari possono rappresentare anche un fattore di rischio per alcune malattie, e gli scienziati hanno tenuto conto anche di questo.

    Il principale risultato che emerge dal lavoro è una cifra: 255 grammi. Con un consumo simile di carne (pollame o maiale), spiegano i ricercatori, ci si può ritenere soddisfatti sia sul fronte salutistico che ambientale.

    “Oggi la maggior parte delle persone si rende conto che dovremmo mangiare meno carne per motivi sia ambientali che di salute – racconta Caroline H. Gebara, prima autrice del paper – Ma è difficile stabilire quanto sia ‘meno’ e se faccia davvero la differenza nel quadro generale. Pertanto, basandoci sui limiti planetari, abbiamo calcolato una cifra concreta – 255 grammi di pollame o maiale a settimana – che si può effettivamente visualizzare e considerare quando si è al supermercato”.

    In generale però, aggiungono gli esperti, molte delle diete analizzate possono dirsi sane e sostenibili, con le diete flexitariane, vegane, e latto-ovo-vegetariane come quelle che più facilmente riescono a soddisfare i requisiti ambientali e di salute. Di contro, e con poca sorpresa, non lo sono quelle ad alto contenuto di carni, sia rosse che bianche.

    Sostenibilità

    Le crocchette “taglia emissioni” per cani e gatti: a base di farina d’insetti e carne sintetica

    di Gabriella Rocco

    11 Maggio 2025

    Il messaggio, scrivono i ricercatori, è che non c’è un unico sistema alimentare giusto, ma che si può essere largamente flessibili nelle proprie scelte alimentari, anche tenendo conto dei gusti, delle culture locali e delle possibilità di produzione. Sta di fatto però che a oggi, con circa due etti e tre etti e mezzo (per l’Europa e gli Usa) di consumi di carni al giorno, i nostri stili alimentari sono flessibili in direzione opposta, e molto lontani dal dirsi sia sane che sostenibili. LEGGI TUTTO

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    Nichel green per decarbonizzare la produzione delle batterie al litio

    La decarbonizzazione delle nostre società passa necessariamente per l’elettrificazione dei trasporti e dell’industria. Ma come ogni soluzione ad un problema complesso, anche l’elettrico nasconde le sue insidie. Le batterie necessarie per sostituire i motori a combustione, ad esempio, necessitano di materiali e processi intrinsecamente inquinanti, la cui produzione rischia di ridurre, o azzerare, i benefici ambientali delle nuove tecnologie. È il caso del nichel, elemento insostituibile nei modelli di batteria al litio più diffusi sul mercato dell’auto, la cui estrazione con metodi tradizionali oggi produce circa 20 di CO? per ogni tonnellata di materiale raffinato. Un nuovo studio, pubblicato su Nature da un team di ricercatori del Max Planck Institute for Sustainable Materials, propone però una soluzione carbon free: un metodo per l’estrazione del nichel che non produce gas serra e permette di risparmiare sensibilmente l’energia necessaria.

    Il nichel ovviamente non è l’unico metallo contenuto nelle batterie elettriche, né il più inquinante in termini di emissioni di gas serra. Ha comunque un impatto importante in termini di CO?, destinato a crescere con l’allargamento del mercato delle auto elettriche previsto nei prossimi anni, che dovrebbe raddoppiare la domanda globale di nichel entro il 2040, facendola arrivare a sei milioni di tonnellate l’anno, di cui tre milioni solo per la costruzione di batterie.

    Economia circolare

    Viaggio nell’impianto che estrae terre rare dai dispositivi elettronici che buttiamo

    di Luca Fraioli

    15 Aprile 2025

    La produzione di nichel green è quindi una delle strade da percorrere per assicurare che la transizione ecologica non finisca semplicemente per spostare l’inquinamento da un punto ad un altro del ciclo di produzione dell’energia. “Continuando a produrre nichel con le tecniche convenzionali e utilizzandolo per l’elettrificazione stiamo solo spostando il problema, invece di risolverlo”, sottolinea a proposito Ubaid Manzoor, ricercatore del Max Planck Institute che ha collaborato allo studio.

    Tradizionalmente, l’estrazione del nichel fa affidamento sui minerali di elevata purezza, più rari. Quelli di minore purezza devono infatti essere estratti con un processo a più fasi, che vanno dalla calcinazione (un processo termico che si utilizza per ottenere l’ossido di nichel da composti come idrossido, carbonato o nitrato di nichel), alla fusione, alla riduzione e raffinazione del materiale, tutte operazioni energivore e particolarmente inquinanti in termini di emissioni.

    Biodiversità

    Quali rischi dalle “miniere” nell’oceano profondo? Per la scienza “impatti anche dopo decadi”

    di Giacomo Talignani

    28 Marzo 2025

    La nuova tecnica prosta da Manzoor e dal suo team permette di utilizzare i minerali meno puri, e di effettuare tutti i passaggi necessari all’estrazione del nichel in un’unica fornace, utilizzando plasma di idrogeno che permette di tagliare dell’84% le emissioni di CO? e di ridurre del 18% i consumi energetici. Garantirebbe quindi un importante risparmio di energia, minori emissioni dai processi di raffinamento, e amplierebbe la disponibilità di materiali grezzi, permettendo di utilizzare i minerali meno puri anche per applicazioni di alta precisione, come le batterie.

    In laboratorio la tecnica si è rivelata estremamente promettente, ma per vedere un’applicazione reale deve essere scalata per funzionare efficacemente a livello industriale. Ed è quello a cui lavorano ora i ricercatori del Max Planck Institute. LEGGI TUTTO

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    Il cambiamento climatico aumenta i rischi per la gravidanza in tutto il mondo

    C’è un altro risvolto negativo, sin qui trascurato, del cambiamento climatico. Già, perché il global warming può minacciare sempre più il buon esisto delle gravidanze. Il numero medio complessivo dei giorni considerati “pericolosamente caldi”, e dunque potenzialmente a rischio per la salute di madre e nascituro, è infatti raddoppiato, negli ultimi cinque anni, nel 90% dei paesi del mondo e nel 63% delle città. In quella che è, a tutti gli effetti, la prima analisi di questo tipo, Climate Central ha analizzato le temperature giornaliere dal 2020 al 2024 in 247 paesi e territori e 940 città per misurare l’aumento dei “giorni a rischio di calore in gravidanza”, ovvero giorni in cui le temperature massime superano il 95% delle temperature storiche locali, soglia associata a un aumento del rischio di parto prematuro.

    Per lo studio i ricercatori hanno usato il sistema Climate Shift Index (CSI), calcolando il numero di giorni a rischio di caldo in gravidanza che si sarebbero verificati in un mondo senza cambiamenti climatici causati dall’uomo (quel che si definisce uno scenario controfattuale) e confrontandolo con il numero totale osservato ogni anno.Inequivocabili, dunque, i risultati dello studio: in quasi un terzo dei paesi e dei territori (78 su 247), i cambiamenti climatici hanno aggiunto almeno un mese in più di giorni a rischio gravidanza ogni anno, dal 2020 al 2024.

    Sos nei Paesi più “vulnerabili”
    E non finisce qui: a complicare le cose la circostanza, non marginale, che il cambiamento climatico ha aggiunto il maggior numero di giorni di gravidanza a rischio di calore proprio nei paesi in via di sviluppo che spesso hanno un accesso limitato all’assistenza sanitaria: tra questi i Caraibi, l’America centrale e meridionale, le isole del Pacifico, il Sud-est asiatico e l’Africa sub-sahariana. Non è del resto una novità che queste siano tra le regioni più vulnerabili agli impatti del cambiamento climatico, malgrado contribuiscano in misura minore alle emissioni di gas serra.Non ci sono dubbi neanche sugli effetti potenzialmente deleteri del caldo estremo, e in particolare delle ondate di calore, sulla salute materna e infantile: alte temperature durante la gravidanza sono collegate all’aumento del rischio di complicazioni, in primis ipertensione, diabete gestazionale, ricovero ospedaliero, grave morbilità materna, parto morto e parto pretermine. Circostanze che, com’è noto, possono portare a impatti sulla salute dei bambini per tutta la vita.

    “Serve una risposta integrata”
    “Il cambiamento climatico non è più solo una questione ambientale, ma un determinante di salute pubblica che sta già colpendo le persone più vulnerabili: le donne in gravidanza e i loro bambini. – denuncia Martino Abrate, ginecologo e membro di ISDE, l’Associazione Medici per l’Ambiente – I dati sono allarmanti nel 90% dei paesi e l’Italia è tra i più colpiti: dei 35 giorni di pericolo attuali, 22 sono stati aggiunti dal cambiamento climatico solo negli ultimi cinque anni. Come medici e ginecologi, non possiamo più ignorare questa realtà. Serve una risposta integrata che combini prevenzione clinica, adattamento sanitario e azioni decise per ridurre le emissioni. Proteggere il clima oggi significa salvaguardare la salute delle generazioni di domani”.

    Usa un tono decisamente grave anche Bruce Bekkar, medico specializzato in salute delle donne e autorità in materia di pericoli del cambiamento climatico per la salute umana: “Il caldo estremo è oggi una delle minacce più pressanti per le donne in gravidanza in tutto il mondo – dice – e spinge un numero maggiore di gravidanze in un territorio ad alto rischio, soprattutto in luoghi che già lottano con un accesso sanitario limitato. Ridurre le emissioni di combustibili fossili non è solo un bene per il pianeta: è un passo fondamentale per proteggere le donne incinte e i neonati in tutto il mondo”.

    “Anche un solo giorno di caldo estremo può aumentare il rischio di gravi complicazioni in gravidanza”, annuisce Kristina Dahl, vicepresidente scientifico di Climate Central. “Il cambiamento climatico sta aumentando il caldo estremo e sta aumentando le probabilità contro le gravidanze sane in tutto il mondo, soprattutto in luoghi dove l’assistenza è già difficile da raggiungere. – aggiunge – L’impatto sulla salute materna e infantile è destinato a peggiorare se non smettiamo di bruciare combustibili fossili e non affrontiamo con urgenza il cambiamento climatico”. LEGGI TUTTO

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    Quei vigneti urbani tra tecnologia e recupero di antichi filari

    I vigneti urbani sono oasi di verde in giungle di cemento, patrimoni agricoli, storici e culturali. La vite coltivata nelle città rappresenta spesso anche un vero e proprio tesoro di biodiversità: varietà antiche, talvolta esemplari, e biotipi estremamente rari nel paesaggio agricolo delle regioni vitivinicole. Un’associazione nata a Torino, la Urban Vineyards Association – UVA (nomen omen), riunisce 27 tra i più importanti vigneti urbani in 10 Paesi del mondo: a Venezia ce ne sono quattro, il più antico dei quali ha 800 anni, uno è a Parigi (sulla collina di Montmartre), e poi a Londra, Vienna, Los Angeles (Hollywood), Brasilia, Melbourne, Salonicco, Lisbona, Barcellona, Lione, Avignone, Palermo, Catania, Milano (Vigna di Leonardo), Torino, Firenze, Bergamo.

    Ognuno con la sua storia e le sue caratteristiche uniche. Il sodalizio promuove anche progetti di restauro storico e azioni di valorizzazione culturale, paesaggistica, turistica. Tra le iniziative, l’istituzione di una giornata mondiale dei vigneti urbani (la prima edizione si è svolta il 27 ottobre scorso) e un catalogo dei vini urbani per trasmettere il messaggio che il vino ricavato dalle uve che crescono in città non è da meno rispetto a quello prodotto dalle vigne di campagna.

    Clos de la Vigne al Palais des Papes (© Christophe Grilhe/urbanvineyards.org)  LEGGI TUTTO

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    Rinnovabili, il Tar accoglie il ricorso: da riscrivere il decreto Aree idonee

    Il Tar del Lazio smonta una parte importante del Decreto del Ministero dell’ambiente e della Sicurezza energetica sulle aree idonee per lo sviluppo delle rinnovabili: una sua sentenza ha annullato i commi 2 e 3 dell’articolo 7 del “DM aree idonee” che garantivano una ampia discrezionalità alle Regioni sulla individuazione dei siti su cui erigere […] LEGGI TUTTO

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    C’era una volta l’Amazzonia, il WWF: “In 15 anni rischiamo di perderla”

    C’era una volta l’Amazzonia. Con alte probabilità, a meno di una inversione di rotta netta, questo in appena quindici anni potrebbe essere il titolo non di una favola, ma di un libro di storia. L’Amazzonia, grande polmone verde del mondo, continua a stare male: soffre per gli effetti della deforestazione, degli incendi e della perdita di biodiversità ed arranca davanti alla crisi climatica mentre si sta pian piano trasformando da foresta pluviale a savana.

    L’ennesimo grido d’allarme lo ha lanciato nelle ultime ore il WWF con una campagna chiamata SOS Amazzonia e la diffusione di un report che svela come fra appena 15 anni le condizioni della gigantesca area forestale sudamericana potrebbero essere irreversibili. “I dati indicano come purtroppo dal 1970 le pressioni causate dall’uomo su questo importante ecosistema siano aumentate esponenzialmente. Ad oggi ben il 17% della foresta amazzonica è stato perso. Nonostante i tassi di deforestazione si siano stabilizzati, si sta approcciando un pericoloso tipping point (ovvero a un punto di non ritorno) che ne comprometterebbe definitivamente la resilienza” fanno sapere dal WWF specificando che “se un ulteriore 5% di foresta amazzonica venisse distrutta, la foresta amazzonica perderebbe definitivamente la sua resistenza e resilienza venendo sostituita da un’arida savana”.

    Natura

    Le foreste assorbono quasi un terzo delle emissioni di CO2

    a cura della redazione di Green&Blue

    21 Marzo 2025

    Lo scenario indicato dal WWF è talmente plausibile che quest’anno, anche nel tentativo di portare gli occhi del mondo proprio sulla salute della grande foresta, la Conferenza mondiale delle parti sul Clima, la COP30, si terrà proprio in Brasile a Belém, nel cuore dell’Amazzonia. L’idea del governo Lula, che secondo i dati attuali ha in parte fermato i tassi di deforestazione, è anche quella di mostrare ai leader del Pianeta cosa rischiamo di perdere senza una efficace protezione dell’Amazzonia. Eppure, nonostante annunci e proclami sulla sua difesa, l’Amazzonia oggi continua ad essere sotto forte pressione: la deforestazione per favorire il mercato della soia e dell’agricoltura intensiva, gli incendi, l’impatto del comparto minerario così come gli effetti del riscaldamento globale innescato dalle emissioni umane, continuano a mantenere la “febbre” alta. LEGGI TUTTO

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    Ecco i 25 primati più a rischio di estinzione

    Quattro specie di lemuri, l’orango di Tapanuli, il gorilla del Cross River: sono solo alcune delle 25 specie di primati più a rischio di estinzione, inserite nella lista stilata dagli esperti della International Union for Conservation of Nature (Iucn), della Conservation International (Ci) e della International Primatological Society (Ips). L’elenco viene aggiornato ogni due anni e quello appena pubblicato contiene ben otto primati che non erano mai apparsi prima fra quelli maggiormente minacciati.

    Parliamo di animali originari dell’Africa continentale, del Madagascar, dell’Asia e del Sud America, che secondo gli autori del report sono minacciati soprattutto dal cambiamento climatico, dalla distruzione degli habitat, dalla caccia e dal commercio illegale. Fra le specie elencate c’è appunto l’orango di Tapanuli (Pongo tapanuliensis), diffuso nelle foreste pluviali dell’isola di Sumatra e scoperto nel 2017. Al momento, si legge nella pubblicazione, si contano meno di 800 esemplari e, insieme al gorilla del Cross River (Gorilla gorilla diehli), è la specie meno numerosa in assoluto fra le grandi scimmie.

    Microcebo di Madame Berthe (Microcebus berthae) (ap) LEGGI TUTTO

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    Fondi del Pnrr anche per impianti fotovoltaici già realizzati destinati a una comunità energetica

    Spazio ai contributi del PNNR anche per gli impianti fotovoltaici già realizzati e destinati ad una Comunità energetica, con la possibilità di presentare la domanda al Gse anche se la Cer non è stata ancora costituita. Le novità grazie al decreto Bollette, che consente di recuperare risorse altrimenti destinate a rimanere inutilizzate. Si consente infatti […] LEGGI TUTTO