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    Lo sputo contro il vento

    Chi sputa contro vento si sta sputando in faccia. Stanno così le cose tra la specie umana e il Pianeta di cui è ospite. Ma ospite è definizione che le va stretta e si è attribuita la proprietà della terra con quello che c’è al di sopra e al di sotto. Nella scrittura sacra la divinità assegna alla specie dell’Adàm il titolo di forestiero e di inquilino, “perché mia è la terra”, dice. È data in comodato d’uso, regolata da due verbi: lavorare e custodire.

    Per maggiore garanzia e perché non si abusi del permesso di sfruttamento, la divinità impone la pausa di una settima porzione di tempo con obbligo di interruzione di ogni attività. Il sabato non è istituito per il riposo umano, ma per concedere un respiro alla terra. Un giorno su sette, un anno su sette, per sollievo.

    Queste antiche condizioni di soggiorno sono state cancellate dalla pressione sul Pianeta da parte della specie che definisce se stessa: sapiens. A me lettore, quelle pagine spiegano i limiti oltrepassati, l’invasione di campo nell’intima biologia del mondo. Il vocabolo greco oikos, ambiente, domicilio, forma la parola ecologia. Oggi è percepita come una lontana eco che ripete a cantilena un canto funebre. Gli ecologisti sono considerati profeti di sciagure.Da bambino ho potuto trascorrere periodi estivi al mare. Ho molto giocato con la sabbia. Da bambino napoletano, invece di castelli, costruivo vulcani. Un buco passante permetteva di far uscire fumo dalla cima. Alla fine del giorno non c’era bisogno di rimettere a posto la sabbia, ci pensavano le onde a liberarla dalle forme inventate dal gioco.Anche le fitte orme dei bagnanti venivano pareggiate. Era una lezione che ho imparato più tardi a riconoscere e apprezzare. La specie umana è impronta sulla sabbia.In alta montagna posso vedere com’era e come sarà il mondo senza la specie sapiens.

    “La vita, mia cara, senza di noi è pensabile”, scrive il poeta Brodskij. Il suo verso sta per me a epigrafe di quello che vedevo da bambino tornando alla spiaggia il giorno dopo.

    In anni adulti ho fatto l’operaio in edilizia, all’epoca in cui il lavoro manuale costava meno di una betoniera. Si lavorava con la pala lo scarico del camion di sabbia da rigirare a secco con il cemento e poi con l’acqua per l’impasto. Serviva alla gettata di solai, travature, pavimenti.

    Vedevo i metri cubi di sabbia tolti da chissà quale greto di fiume, lago o sponda di mare, materia prima dei miei giochi estivi: ora costretta a imprigionarsi dentro una forma rigida. In edilizia la sabbia è inclusa tra i materiali definiti inerti. Non lo è, sapevo di no. Era un errore, prima che un insulto. Era fatta di sgretolamenti di gusci, di lische, di vita marina assortita. La sabbia è biologia e biografia della terra. Definirla inerte permette la licenza di disporne a oltranza.

    Questa breve storia personale della sabbia mi fa da esempio dello sfruttamento delle materie vive della terra.In anni recenti si è manifestata una parte di gioventù allarmata dalle conseguenze climatiche. Sentono che il loro futuro non è individuale. Non è  più individuale la domanda: “Cosa farò da grande?”. Le loro età successive sono inesorabilmente connesse a quella dell’intero pianeta. Sentono che il prossimo avvenire non ha verbi al futuro, ma al presente indicativo e in fine di frase presenta l’appuntito gancio del punto interrogativo: “?”

    Questa parte di nuova gioventù sente di dover inventare una risposta e di assumersene responsabilità, che è voce del verbo rispondere.

    Sceglie di manifestarsi con forme insolenti d’intervento, imbrattature lavabili, interruzioni di circolazione. Disturbano ma in modo rigorosamente inoffensivo.

    È isolata, come il profeta Giona che grida il finimondo per le vie della lussuosa e incurante città di Ninive.

    È una gioventù che ha smesso la docilità e accetta di farsi insultare e processare, compromettendo il proprio avvenire con condanne penali. Sta alla sbarra da imputata ma non si difende, non si dichiara innocente: assume su di sé il compito di testimonianza.

    Non possiede la massa critica necessaria per avviare la reazione a catena del consenso.

    Accetta l’emarginata missione della profezia.Alla guida del mondo c’è la più scadente selezione di anzianità,  incapace d’intendere il futuro. Se ne sta accovacciata sul presente come su uova non gallate, che non si schiuderanno. Fa invece marcire il tempo utile del mondo a ravvedersi e provvedere.

    Questa nuova gioventù presenta all’ordine del giorno del mondo il verbo convertire, più forte e profondo delle misure palliative di contenimento delle emissioni.Questa gioventù anticipa le prossime generazioni che inventeranno l’economia delle riparazioni dei torti, degli abusi commessi a danno della vita del Pianeta.Questa gioventù grida come Giona dentro Ninive. Ninive lo ascoltò e la sua rovina annunciata fu revocata.Oppure la terra si riprenderà da sola i sabati negati, tutti insieme e con gli interessi di mora. LEGGI TUTTO

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    Inquinamento da polveri sottili, in metropolitana raddoppia

    Una rampa di scale in discesa, la biglietteria, i tornelli. E poi giù, nel ventre affollato, rumoroso e grigio della grande città, dove i convogli si susseguono, fendendo, con i loro occhi lucenti, il buio. Milano, Roma, Napoli, ma anche Londra, Berlino, Parigi. Qui, come nella maggior parte delle metropolitane del mondo, la qualità dell’aria è pessima. Anzitutto perché quella presente viene prelevata dall’esterno, attraverso griglie poste a livello del suolo, ed è quindi già carica delle particelle inquinanti di superficie, che derivano da attività industriali, traffico stradale, concentrazione urbana. A questo particolato si sommano poi le polveri sottili generate dalla stessa metro, attraverso frenate, usura di ruote e rotaie, sgretolamento delle coperture delle gallerie, passaggio dei convogli.

    Il report

    In Italia 18 città fuorilegge per lo smog: gli standard europei per la qualità dell’aria sono lontani

    di Cristina Nadotti

    08 Febbraio 2024

    Il doppio di particelle per chi va in metro

    Vari studi mirati a valutare l’atmosfera si sono svolti nella metropolitana della capitale francese, come ha recentemente raccontato Jean-Baptiste Renard, ricercatore dell’Università di Orléans, su The Conversation. L’ultima sua ricerca ha esaminato le concentrazioni di PM 2,5, particelle di diametro inferiore o uguale a 2,5 micrometri (un micrometro equivale a un millesimo di millimetro), introducendo il concetto di inquinamento in eccesso, cioè correlato unicamente alla metro, che si ottiene sottraendo ai valori dei sotterranei quelli dell’aria esterna vicina. L’esperto ha, quindi, effettuato le misurazioni nelle ore di punta, utilizzando appositi sensori mobili, in tutte le stazioni della metro della Ville Lumière e poi in superficie. Ebbene, dai dati è emerso un valore medio di circa 15 microgrammi per metro cubo nei sotterranei e di 15 microgrammi all’esterno. Il che significa, in pratica, che gli utenti della metropolitana raddoppiano la loro esposizione quotidiana alle particelle sottili rispetto a chi si muove senza utilizzare questo mezzo. Inoltre, è stato calcolato che un’ora e mezza in ambienti sotterranei aumenta l’esposizione giornaliera di un utente di 1 micrometro per metro cubo. “Si tratta di un valore medio”, sottolinea Renard, “che può essere più elevato nelle linee metropolitane più inquinate e nelle stazioni poco ventilate”.

    L’emergenza

    “Milano paragonata a Delhi per l’inquinamento atmosferico: la crisi del clima non aiuta a respirare”

    di Giacomo Talignani

    19 Febbraio 2024

    Lo studio cinese sui metalli

    Altre ricerche si sono focalizzate sulla composizione del particolato nei sotterranei. Una di queste è stata pubblicata nel 2021 su Environmental Research e condotta, nell’estate e nell’inverno del 2019, nella metropolitana di Nanchino, in Cina. Tra i principali costituenti metallici delle particelle sono stati rintracciati ferro, rame, manganese, stronzio e vanadio, evidenziando che i lavoratori della metro erano esposti a livelli più elevati di queste sostanze rispetto ai pendolari. Il ferro è risultato l’elemento più abbondante, rappresentando circa l’80% del totale. In particolare, l’esposizione media giornaliera a questo metallo è stata di 15,5 microgrammi per metro cubo per gli addetti e di 2 microgrammi per gli utenti. I lavoratori sono stati esposti a ferro, rame, manganese, stronzio-vanadio a livelli rispettivamente otto volte, quattro volte, tre volte, due volte superiori rispetto a quelli dei pendolari.

    I dati

    Inquinamento atmosferico, solo in 7 Paesi su 134 l’aria è pulita: la classifica IQAir

    di Giacomo Talignani

    19 Marzo 2024

    Nuovi standard europei

    In tutto ciò, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha recentemente dato un giro di vite, pubblicando i nuovi obiettivi per il PM 2,5 nell’atmosfera: cinque microgrammi per metro cubo in media nell’arco dell’anno e 15 microgrammi come limite massimo quotidiano. Per avvicinarsi a queste raccomandazioni, nel febbraio 2024 la Commissione europea ha abbassato la media annuale tollerata da 25 microgrammi per metro cubo a 10. “Gli standard di qualità dell’aria attualmente riguardano solo gli ambienti esterni”, hanno fatto notare alcuni esperti. “Sembra, tuttavia, ragionevole, alla luce delle rilevazioni, proporre di estendere monitoraggio e normative alle metropolitane, dato che il trasporto pubblico sotterraneo è utilizzato quotidianamente da un gran numero di utenti”. In attesa di un adeguamento legislativo, meglio adottare le strategie che consentirebbero di migliorare l’aria sotterranea: rallentare la velocità dei treni in presenza di curve strette e pendenze elevate; utilizzare sistemi di ventilazione intelligenti per controllare lo scambio tra le masse d’aria esterne e quelle sotterranee; usare purificatori d’aria; installare porte per banchine, utili, oltre che per la sicurezza dei passeggeri, anche per ridurre l’ingresso dell’aria contaminata dei tunnel nella piattaforma; effettuare manutenzione e pulizia di notte. Infine, una buona idea per utenti e operai della metro è quella di indossare mascherine chirurgiche, dispositivi in grado di diminuire in modo significativo l’esposizione alle particelle metalliche in sospensione, che numerosi studi scientifici hanno associato a malattie oncologiche, cardiovascolari, respiratorie. LEGGI TUTTO

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    Rimuovere i nidi di rondini è un reato, ma c’è il modo per evitare i danni

    I loro voli in picchiata e i loro garriti sono sempre più rari da vedere e ascoltare, sia in campagna sia in ambienti urbani. Le rondini in Italia e in Europa sono sempre meno: come riportano anche i dati dell’Atlante della migrazione degli uccelli in Italia di Ispra, dal ’70 al 90 del secolo scorso le popolazioni europee di rondini “hanno subito un declino demografico generalizzato del 20-60% in molti Paesi, con tendenza recente alla stabilità”. Cifre più aggiornate in possesso della Lipu, elaborate con Rete rurale nazionale, confermano che dal 2000 al 2023 la popolazione in Italia è scesa del 50%. Ed è un dramma, perché, precisa Federica Luoni, responsabile agricoltura per la Lipu, “le rondini sono il simbolo di tutte le problematiche legate al cambio climatico e al modello di agricoltura intensiva”.

    Di fronte a questa emergenza, ci sono comuni come Belluno che possono fregiarsi dell’appellativo di “città delle rondini”, perché la comunità si mobilita per proteggere i nidi, e altre, come Prato, dove il Comune deve ricorrere alle vie legali contro un condominio per far rimuovere reti e dissuasori installati per impedire la nidificazione. Perché se il volo delle rondini è bello da vedere, i loro nidi non sono sempre bene accetti per la quantità di guano che finisce sulle pareti degli edifici e per terra. Le rondini, infatti, se prima costruivano il nido all’entrata di caverne, scogliere marine o sotto i rami degli alberi, oggi nidificano quasi esclusivamente in luoghi creati o modificati dall’uomo, principalmente sotto i tetti. LEGGI TUTTO

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    I giovani i più in ansia per la crisi climatica: “Ma la piazza non basta, agiscano i governi”

    Per gli italiani di ogni età tutela dell’ambiente e qualità della vita sono sempre più legate e la generazione Z, i nati tra il 1996 e il 2010, sono i più preoccupati per la crisi climatica. La ricerca commissionata a Swg da Green&Blue (il content hub di Repubblica dedicato a transizione ecologica e ambiente) in occasione della Giornata mondiale della Terra conferma l’ecoansia dei più giovani e la difficoltà dei ceti più fragili a vedere opportunità nella green economy e nella politiche per la tutela ambientale. Dimostrano questa tendenza le risposte a una domanda sulla recente direttiva sulle Case Green approvata dall’Ue, per rendere le abitazioni in Europa a emissioni zero entro il 2050: sebbene la maggioranza la consideri una misura giusta, il 65% sarebbe in difficoltà nell’applicarla e 1 su 3 è del tutto contrario, con marcate differenze per appartenenza politica. Eppure, soprattutto tra i Millennials, le donne, gli elettori di centro-sinistra e i più istruiti, un intervistato su due apre a future politiche ambientaliste più severe.

    LEGGI IL DOSSIER SULLA GIORNATA DELLA TERRA

    Ci sono molte conferme e qualche sorpresa in questa ricerca, che convalida l’impressione che dove si fa fatica per arrivare a fine mese occuparsi dell’ambiente e fare scelte buone per sé e per il Pianeta è più difficile, se non impossibile. C’è anche, rispetto agli anni precedenti, un senso di sfiducia, di una battaglia che, anche chi combatte con fervore, teme sempre più di perdere (lo pensano sei su dieci) perché si sente poco sostenuto dalla politica nelle sue scelte individuali. Eppure, la convinzione che tra tutela dell’ambiente e qualità della vita ci sia una connessione strettissima accomuna tutte le generazioni, con i boomers su tutti. I giovani, come detto, sono i più preoccupati per la crisi climatica, un timore secondo soltanto a quello delle sorti del sistema sanitario. Sono i nati tra il 1965 e il 1980, la cosiddetta Gen X, a dichiararsi meno in ansia per l’ambiente (il 28%, contro il 40% dei giovanissimi e il 37% degli anziani). LEGGI TUTTO

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    Drype, la startup che ripensa i cocktail in chiave sostenibile

    Vi ricordate Dragon Ball, la serie manga (poi adattata anche in una celeberrima serie anime) creata dal compianto Akira Toriyama? Il padre di una delle protagoniste, Bulma, è a capo della Capsule Corporation, una società che realizza piccole capsule in grado di contenere oggetti delle più disparate dimensioni: motociclette, astronavi e perfino case intere. Proprio al concetto di miniaturizzazione si sono ispirati i tre giovani fondatori di Drype – Lucia Marrocco, Thomas Bottalico, Massimo Pierdomenico –  con lo scopo di rivoluzionare il settore della mixology e renderlo più sostenibile. Come? Semplicemente riducendo tutto ciò che serve per preparare un cocktail in una piccola boccetta di vetro, così da ridurre i pesi e i volumi da trasportare. E, di conseguenza, anche le emissioni di CO2. Come certificato da FourGreen, un cocktail di Drype contribuisce a ridurre fino all’82% delle emissioni equivalenti di CO2 legate al trasporto e alla logistica. LEGGI TUTTO

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    Peter Wohlleben svela la vita segreta degli alberi

    Peter Wohlleben, classe 1964, scrittore e guardia forestale belga, vive da sempre immerso nella natura e nel suo ultimo libro, La vita segreta degli alberi (edizioni Electa Mondadori), best seller appena uscito e tradotto in oltre quaranta lingue, svela l’habitat delle foreste nella sua accezione più intima, fatta di interazioni, difesa e movimento tra i suoi protagonisti: gli alberi. Le sue precedenti opere sono: La saggezza del bosco (2018), La saggezza degli animali (2019), La rete invisibile della natura (2020) e Ascolta la voce degli alberi (2022). 

    Quando nasce la sua passione per la natura?”La mia passione per la natura è iniziata nella mia primissima infanzia, non so dire perché. Ero una specie di pecora verde della famiglia e ho sempre amato stare all’aria aperta nella natura”.Quali sono i suoi studi? “Ho studiato selvicoltura e collaboro da molto tempo con scienziati per esplorare i segreti degli alberi”.È considerato la guardia forestale più famosa al mondo. Da quanti anni esercita questo lavoro e cosa la appassiona di più di questo mestiere?”Lavoro come guardia forestale da oltre 30 anni e amo stare nella foresta ogni giorno. Trovo entusiasmante che ci sia ancora molto da esplorare. Ad esempio, si stima che non conosciamo l’80% di tutte le specie che vivono nelle foreste europee”.Dopo la sua lunga osservazione sul campo, cosa la affascina di più degli alberi?”Gli alberi sono molto più sociali di quanto generalmente si creda: in una grande foresta  possono abbassare la temperatura locale di oltre 10° C in estate e persino produrre nuvole di pioggia. Sono i nostri migliori alleati in tempi di cambiamento climatico”.Afferma che anche gli alberi, come gli altri esseri viventi, sono dotati di memoria, parlano tra loro, provano emozioni e possono perfino essere soggetti a scottature solari e rughe. In che modo possiamo percepire tutto ciò? “Vediamo ad esempio che gli alberi cambiano comportamento quando ci sono estati calde e secche. Quindi modificano il consumo di acqua per il resto della loro vita. Questo effetto è intensificato dalla presenza di alcuni batteri. È stato dimostrato che alcuni tipi di batteri possono attivare e disattivare i geni negli alberi. Si potrebbe anche dire che aiutano gli alberi a ricordare le strategie ereditate”.Lei racconta i modi in cui gli alberi interagiscono, si muovono e si difendono. Può raccontarci qualche sua esperienza diretta?”Un’interazione tipica che chiunque può osservare è quella dei ceppi di alberi antichi e viventi. Dovrebbero effettivamente morire perché non possono più fotosintetizzare senza foglie. Ma a volte sopravvivono per secoli. Ciò è possibile solo perché gli alberi vicini forniscono a questi ceppi la soluzione zuccherina attraverso i legami tra le radici”.Attualmente gestisce un bosco di tremila acri nei pressi di Hummel, nella regione di Eifel al confine con il Belgio. Com’è la sua giornata tipo?”Ora lavoro meno nel settore forestale e più nell’accademia forestale, che appartiene a mio figlio Tobias. Lì insegno come gestire le foreste in modo più ecologico. Continuo anche a scrivere libri, a tenere conferenze e a impegnarmi nella politica ambientale. Questo rende ogni giorno diverso ed emozionante. La sera torno nella vecchia casetta del guardaboschi nella foresta”.

    E il futuro?”Il mio piano è condurre una vita felice. Non sono un megalomane, quindi non credo di poter cambiare il mondo. Ma se riuscissi a far capire ad alcune persone quanto siano importanti le foreste per la nostra vita, allora mi sentirei davvero felice”. LEGGI TUTTO

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    Le consegne in cargo bike per un delivery etico e sostenibile

    Le emissioni di CO2 prodotte dalle consegne dell’ultimo miglio potranno raggiungere 24 milioni di tonnellate nel 2030 (+30% rispetto al 2020). È possibile contribuire a un’inversione di tendenza attraverso scelte responsabili, come quella di consegnare con cargo bike e e-cargo bike che in città possono effettuare consegne fino al 60% più veloci rispetto ai furgoni, producendo il 90% in meno di anidride carbonica rispetto ai furgoni diesel e il 33% in meno rispetto ai furgoni elettrici. È la sfida raccolta da So.De, startup milanese, il cui acronimo So.De sta per Social Delivery, ovvero consegna sociale, solidale e sostenibile: sostenibile perché è a zero impatto, consegnando solo con biciclette e cargo bike. Solidale perché supporta commercianti e attività locali e contribuisce alla consegna di spese alimentari e pasti a famiglie in difficoltà. Sociale perché rivoluziona la figura dei ciclofattorino, una professione che è diventata paradigmatica del mondo del lavoro precario e senza tutele. Oltre alle consegne di prodotti per le aziende che scelgono So.De, il social delivery sviluppa anche progetti ad alto valore sociale in sinergia con le realtà con cui collabora.”Ad esempio, ci impegniamo in filiere solidali di recupero e redistribuzione del cibo ritirando prodotti invenduti presso la GDO e consegnando pacchi alimentari a famiglie in condizioni di fragilità del territorio locale. Coprogettiamo con realtà istituzionali e del terzo settore servizi in cui la consegna a domicilio per le persone più vulnerabili diventa occasione di supporto, solidarietà, inclusione”. L’aspetto che rende So.De diverso dagli altri esperimenti di delivery locale è la sua vocazione a mettere al centro le persone: dei 13 dipendenti, il 30% fa parte di categorie che hanno storie di fragilità e che vengono così accompagnati attraverso percorsi di inclusione.

    La storia di So.De

    Fondata da tre donne innovatrici: Lucia Borso, Teresa De Martin e Naima Comotti, l’idea del Social Delivery matura nel 2020 durante il primo lockdown nel quartiere Dergano di Milano e, a dire il vero, non ci mette molto a diffondersi nelle altre zone della città. La vera scommessa tuttavia inizia nel 2021, anno di lancio della campagna di crowdfunding di So.De e del primo test. Test che ha successo e che dà il via alla seconda fase della startup, nel gennaio 2022, con la costituzione di Magma srl Impresa Sociale che gestisce il progetto So.De. 

    Ma facciamo un passo indietro. Inizialmente So.De si sviluppa attorno a Rob De Matt, un’associazione che tra le altre cose gestisce un ristorante bistrò per promuovere l’inclusione lavorativa attraverso la ristorazione. Durante il primo lockdown Rob De Matt attivò più di 80 volontari nella raccolta di generi alimentari e nella consegna di pasti caldi a famiglie in difficoltà. Sulla spinta di questa iniziativa maturò l’idea di creare un delivery sociale di quartiere, inizialmente su scala ridotta, in ottica della “città dei 15 minuti”. Nacque così un progetto che fu selezionato per il bando Crowdfunding Civico promosso dal Comune di Milano sulla piattaforma Produzioni dal Basso. Il crowdfunding ottenne l’appoggio di 550 donatori, superando di gran lunga il traguardo prefissato e attraendo un grande interesse sia locale che nazionale.Oggi la startup milanese ha all’attivo:13 dipendenti, 12 cargo bike per le consegne, 150 pacchi al giorno consegnati nel mese di gennaio 2024 (nello stesso mese del 2023 erano circa 60), oltre 120 chilometri percorsi in bici al giorno, più di 30 tra clienti e partner, tra cui Ikea Italia, Bosch eBike Systems Italia, Artemest, Repower, Ares Market Milano srl, associata a Commercianti Indipendenti Associati, cooperativa componente del Consorzio Nazionale Conad, ma anche piccole botteghe di quartiere e artigianato locale. Non solo, dei 13 dipendenti il 30% fa parte di categorie che hanno storie di fragilità e che vengono così accompagnati attraverso percorsi di inclusione.

    Startup

    Bibo, il delivery del bere bene punta sulle consegne green

    29 Dicembre 2021

    La formazione dei ciclofattorini (e non solo)

    So.De ha deciso di battersi innanzitutto per dare le giuste tutele ai suoi ciclofattorini, con contratti subordinati a tutti gli effetti e corsi e aggiornamenti qualificanti, e con ben chiaro lo scopo di dare nuovo valore a questa professione. I ciclisti di So.De ricevono infatti una formazione a tutto tondo che tocca sicurezza, codice della strada, manutenzione della bicicletta, ma anche gestione di rapporti interpersonali e comunicazione efficace, nell’ottica di farne operatori e operatrici di comunità, delle vere e proprie antenne sul territorio. “Forniamo ai nostri corrieri programmi formativi dedicati allo sviluppo delle competenze necessarie per svolgere il proprio lavoro in modo sicuro ed efficace. Offriamo corsi di ciclomeccanica, educazione stradale, soft skills, italiano L2, informatica, logistica e altri ancora, in base alle esigenze dei nostri e delle nostre dipendenti”. Oltre ai percorsi formativi obbligatori, la startup offre piani personalizzati di formazione in base alle specifiche esigenze dei corrieri.Nel progetto So.De le persone sono sempre al centro. Tutti i corrieri di So.De sono assunti. “Crediamo nell’importanza di garantire un lavoro dignitoso per i nostri e le nostre dipendenti, creando un ambiente di lavoro rispettoso e inclusivo”. So.De – Social Delivery, sta realizzando inoltre consegne solidali per famiglie in condizioni di marginalità, consegna della spesa per categorie fragili, servizi di trasporto e piccoli traslochi per gli abitanti e le abitanti, corsi per scoprire le potenzialità del muoversi sulla bici, oltre ad altre attività che mirano a dare risposte ad alcuni bisogni del territorio. Questa startup vuole rendere le nostre città un luoghi più vivibili, accoglienti e sostenibili. Come? Favorendo un circuito di consumo consapevole e il commercio di prossimità attraverso la valorizzazione di botteghe locali e promuovendo una mobilità a basso impatto ambientale. LEGGI TUTTO

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    “Solo proteggendo l’ambiente daremo sicurezza agli sfollati per il clima”

    La sua passione per le questioni ambientali e la gestione degli impatti del cambio climatico è nata con il primo lavoro nel settore della silvicoltura, in Australia. Molto presto però Andrew Harper, oggi consulente speciale per l’azione sul clima dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, si concentra su come affrontare l’emergenza climatica e insieme come assistere al meglio le persone sfollate a causa dei disastri naturali. Abbiamo incontrato Harper a Roma, dove per l’Unhcr ha siglato un accordo con il Cgiar (un insieme di organizzazioni internazionali impegnate nella ricerca sulla sicurezza alimentare) per studi e raccolta di dati utili a costruire e organizzare strutture di accoglienza resistenti al clima, migliorare l’accesso ai servizi di base e rafforzare le capacità di adattamento delle persone costrette alla fuga e delle comunità che le ospitano.

    Una delle emergenze peggiori che ha dovuto affrontare in passato è stata l’organizzazione dei campi profughi in Giordania. Come si fa a mettere in sicurezza le persone nel deserto?

    “”Ogni notte arrivavano dal confine siriano tra le 4 e le 5mila persone e il nostro compito immediato era di provvedere ai loro bisogni primari: coperte, materassini, assistenza sanitaria. Ma bisogna tenere conto che ai rifugiati non viene mai assegnato un territorio ottimale, perché quei terreni sono già presi, o coltivati, quindi si prende quello che c’è, e dobbiamo organizzare la loro vita in un luogo dove le risorse naturali non ci sono. Il campo di Zaatari ospitava oltre centoventimila persone che erano fuggite dai combattimenti e piene di ansia per quello che il futuro avrebbe riservato loro. Verso queste persone avevamo l’obbligo di non garantire soltanto la sopravvivenza, ma di dare loro un senso del futuro. In quel caso abbiamo lavorato con la fondazione Ikea e costruito un impianto solare da 12,9 megawatt che ha portato elettricità pulita ai residenti del campo e ai villaggi vicini. L’elettricità significa consentire ai bambini di avere più ore per fare i compiti, di conservare meglio gli alimenti e migliorare l’illuminazione stradale per mantenere la sicurezza. Non solo, distribuendo l’elettricità oltre il campo abbiamo avviato un processo di integrazione e fornito energia pulita al posto di quella generata da una vecchia centrale a carbone. È un esempio di quel che dovremmo fare sempre di più”.

    In questo caso, il dover accogliere molte persone metteva anche a rischio l’ambiente?”Dove c’è un campo rifugiati c’è sempre uno sfruttamento maggiore delle risorse che crea problemi a tutti. Proprio per questo, se non troviamo soluzioni che salvaguardino l’ambiente, non possiamo aspettarci che le comunità locali proteggano i rifugiati. La protezione dell’ambiente è sempre uno dei fattori chiave dell’aiuto alle persone rifugiate e sfollate. Questo è molto evidente in Chad, uno dei paesi considerati più vulnerabili al mondo dal punto di vista ambientale, dove stanno arrivando centinaia di migliaia di rifugiati dal Sudan. Non possiamo pretendere che questi Paesi accolgano i rifugiati se non ci prendiamo cura del loro ambiente e delle loro risorse: per noi è fondamentale non contare soltanto sul sostegno finanziario, ma trovare partner come agenzie e istituzioni che possano investire in progetti di adattamento climatico”.

    L’intervista

    Discriminazione, razzismo e povertà: l’altra faccia della crisi climatica

    di Cristina Nadotti

    30 Ottobre 2023

    Quanto è complicato trovare investitori?”Incontriamo i maggiori portatori di interesse nei progetti ambientali e nel contrasto al cambio climatico, ma la difficoltà sta nel far cogliere loro l’importanza della protezione delle persone costrette alla fuga nei loro obiettivi, perché fondazioni e banche sono interessate a vedere subito dei risultati. Cerchiamo di usare a nostro favore il fatto che, come UNHCR, siamo presenti in aree dove abbiamo la massima competenza per capire i bisogni dei rifugiati e delle autorità locali e, insieme al Comitato Internazionale della Croce Rossa e a grandi ONG, spingiamo i finanziatori ad interessarsi più alle persone che ai profitti. Non ha senso che le banche per lo sviluppo finanzino operazioni per piantare alberi in Europa o in Canada, i veri bisogni sono altrove, in Kenya, in Somalia, in Mozambico, in Bangladesh”.

    La guerra alle porte dell’Europa, quanto sta accadendo in Ucraina e in Israele, ha rallentato i vostri progetti di adattamento climatico?”Naturalmente la guerra in Ucraina catalizza le attenzioni, ma questo non significa che la vita di qualcuno in Africa debba interessarci di meno, è semplicemente una questione di umanità. C’è chi sta morendo di fame in Africa e di recente il Programma Alimentare Mondiale ha dovuto tagliare le razioni di cibo del 50% in alcune aree, cosa che aumenta le migrazioni. Non possiamo concentrarci così tanto sulle COP e cercare consenso, abbiamo bisogno di azioni immediate”.

    L’intervista

    Angelica De Vito: “Prepariamoci, anche noi potremmo diventare migranti climatici”

    di Giacomo Talignani

    30 Novembre 2023

    Non crede nell’utilità delle Cop?”Siamo già alla COP29, che si terrà a Baku, in Azerbaijan. Il punto è che abbiamo bisogno di concentrarci sui Paesi che subiscono le conseguenze maggiori del cambiamento climatico. I nostri sforzi devono mirare a dare più spazio possibile a chi già vive la crisi climatica, fare in modo che siano protagoniste delle decisioni che vengono prese. Ci sono oltre 114 milioni di persone in fuga nel mondo che, così come le comunità indigene, dovrebbero avere l’opportunità di parlare in prima persona. Questo significa anche ripensare il modo in cui vengono prese le decisioni politiche: non possono avere rappresentanza soltanto gli stati membri, ma anche le comunità. Negli ultimi anni si sono fatti progressi nel dare voce alle popolazioni indigene, ma bisogna impegnarsi perché le persone in fuga possano prendere la parola non solo alle COP, ma in altri vertici”.

    Perché è importante fare differenza tra i rifugiati politici e climatici?

    “Se le persone abbandonano il loro Paese per una guerra, o perché sono perseguitate, significa che sono state oggetto di un attacco e i loro governi non sono stati capaci di proteggerle. Nel caso dei cambiamenti climatici, spesso i governi hanno provato a proteggere le proprie popolazioni, ma si tratta di eventi che vanno oltre i governi e la capacità di adattamento delle comunità. C’è un’enorme differenza in termini di bisogno di protezione internazionale e anche i termini usati per definirli sono importanti. Inoltre, ed è quello che cerchiamo di fare con l’accordo appena siglato con il CGIAR, studi e dati ci aiutano a individuare le aree più vulnerabili per attivarci e cercare strategie di adattamento”.

     

    Come riassumerebbe in questo momento l’azione dell’UNHCR riguardo la crisi climatica?

     “Come accennato, ci impegniamo per limitare gli effetti dei cambiamenti climatici su popolazioni che sono state già sfollate e poi cerchiamo di anticipare quanto può accadere nelle aree vulnerabili, per avviare partnership e azioni per investire nell’adattamento e nella mitigazione. Non possiamo più essere un organismo di risposta alle crisi, dobbiamo fare prevenzione. Mi preoccupa vedere che rispetto alla crisi climatica molti non abbiano ancora colto la gravità della situazione. Non è costruendo muri che fermeremo le persone costrette a migrare per gli effetti del riscaldamento globale e queste persone non sono una minaccia per noi: siamo noi che le stiamo mettendo in pericolo con le nostre politiche non sostenibili. Una trasformazione è indispensabile, perché il riscaldamento globale è irreversibile, le decisioni che prenderemo devono essere globali, è una questione di cittadinanza globale: tutti subiremo le conseguenze, ma dobbiamo occuparci subito di chi sta già perdendo tutto”. LEGGI TUTTO