consigliato per te

  • in

    Erica Pozzi e le erbe selvatiche: “Raccogliamole in modo consapevole”

    Erica Pozzi, 35 anni, vive a Val Seriana (in provincia di Bergamo), ama il mondo delle erbe selvatiche nelle loro molteplici proprietà e tutela il loro habitat: nella sua pagina Instagram Gli Orsini, racconta uno spaccato di natura alpina e prealpina poco conosciuto. “Sono nata in una zona urbana in provincia di Milano. – racconta Pozzi – Dopo la laurea in Scienze dell’educazione, con una tesi in educazione ambientale, ho deciso di trasferirmi nel centro Italia, dove ho vissuto alcuni anni in campagna. Una volta tornata al Nord, ho scelto di vivere tra le montagne e la città. Ho iniziato a raccogliere qualche specie di pianta selvatica in Umbria, circa dieci anni fa, ma al mio rientro in provincia di Bergamo è nata la passione vera e propria. In quel periodo ho avuto la fortuna di poter trascorrere da sola molto tempo nei boschi e nei prati e si è risvegliata la mia curiosità”.

    Nella sua attività lavorativa, Erica Pozzi si occupa della raccolta conservativa di piante selvatiche ed è coinvolta in diversi progetti di educazione e divulgazione ambientale. “Collaboro – spiega Pozzi – con l’orto botanico di Bergamo, alcuni parchi naturali, una fattoria didattica e sono una guida ambientale escursionistica: organizzo corsi ed escursioni alla scoperta delle piante selvatiche di collina e montagna. Seguo anche la parte di trasformazione culinaria ed erboristica a livello didattico: organizzo corsi di cucina selvatica, infusi e tisane”..Il suo lavoro varia molto in base al meteo e alla stagione. “In primavera  – prosegue – se non ho attività o corsi, sono in raccolta a seconda di cosa cresce nei boschi e nei prati. A casa cerco di approfondire le trasformazioni, confrontandomi anche con colleghe e colleghi. Il periodo da febbraio a ottobre è quello più intenso, poi d’inverno mi riposo e penso ai progetti dell’anno successivo”. LEGGI TUTTO

  • in

    Stefano Accorsi: “Il teatro per ‘sentire’ il cambiamento climatico, con l’intelligenza artificiale”

    Si può imparare, ragionare e comprendere come apportare il proprio contributo nella lotta al cambiamento climatico anche a teatro. Soprattutto a teatro, ne è convinto Stefano Accorsi, da cui è nata l’idea (insieme a Filippo Gentili) di Planetaria – Discorsi con la Terra, concept innovativo che mette insieme arte e scienza sul palcoscenico del Teatro della Pergola di Firenze, dal 7 al 9 giugno. Tre giorni, in cui Accorsi, in qualità di direttore artistico, guiderà il pubblico in un format tra spettacoli teatrali, workshop esperenziali per bambini, dialogo tra spettatori, l’intelligenza artificiale Sibilla e scienziati di fama internazionale, tra cui Claudia Pasquero, docente di Oceanografia e Fisica dell’Atmosfera all’Università di Milano Bicocca, nonché direttrice scientifica di Planetaria. 

    Accorsi, due anni fa ha annunciato che avrebbe fatto qualcosa di tangibile per l’ambiente, la sua parte, parlando di cambiamento climatico nei teatri. Ed eccoci qua, quando ha preso coscienza di dover fare qualcosa?”Parecchio tempo fa. Io amo la montagna, vado spesso sul Monte Bianco e sulle Alpi e vedere in modo così dirompente che ogni anno il ghiacciaio si riduce, così come assistere agli sconvolgimenti del nostro clima, piogge torrenziale, inondazioni, mi tocca da molto tempo. Per queste ragioni c’era voglia di fare qualcosa che non fosse solo prendere una posizione personale, visto che il mio lavoro è comunicare il più possibile. Insieme al resto del team di Planetaria ci siamo resi conto che il mezzo migliore per comunicare il cambiamento climatico non fosse tanto la carta stampata, che può risultare fredda e può generare l’effetto opposto a quello desiderato, magari portando ad un allontanamento da queste tematiche”.E secondo lei, perché il teatro è lo strumento migliore per divulgare e coinvolgere le persone?”Il teatro è il luogo dell’empatia, dove riusciamo a sentire l’altro da noi. Ci sembrava idoneo, forse perché c’è bisogno di un formato diverso dove poter coinvolgere le famiglie. A partire dal 7 giugno, la sera ci sarà uno spettacolo con scienziati, attori e intelligenza artificiale, la mattina workshop con bambini ed il pomeriggio incontri istituzionali, proprio perché l’idea è di coinvolgere tutti”. 

    Ed infatti avete coinvolto anche i bambini? “Si, anche i più piccoli hanno bisogno di affrontare questi temi, non è giusto che sia tutto sulle spalle dei genitori, anche perché si dice spesso “facciamolo per i nostri figli”, invece noi diciamo, facciamolo anche per noi perché è oggi che dobbiamo agire, per questo ci saranno gli scienziati che saliranno sul palco per raccontarci delle alternative”. 

    Lei è il direttore artistico, sarà anche sul palco?”Sarò sul palco il 7 e 8 giugno, insieme a due attrici, Vittoria Puccini e Valentina Bellè e due scienziati con cui faremo una messa in scena, una sorta di lettura a tre, e ci sarà l’intelligenza artificiale, Sibilla, creata da Engineering, che interagirà da uno schermo di sette metri per due, che risponderà con una serie di dati scientifici inconfutabili, riconosciuti a livello mondiale, mentre io interagirò con il pubblico, portando le loro domande alla Sibilla”. 

    Perché il ricorso dell’intelligenza artificiale anche a teatro, forse non bastiamo noi umani a porre domande e cercare risposte?”L’intelligenza artificiale già fa parte della nostra vita e ci sembrava una grande risorsa, può diventare uno strumento importantissimo per le aziende, per chi fa le leggi, veramente può diventare un grandissimo compendio. E potrà esserlo anche per avere delle risposte in futuro, delle alternative, quindi sì, l’umano è importante, ma anche l’intelligenza artificiale. È evidente che vanno fatte delle leggi per gestirla, per bloccare quei casi in cui può rubare l’identità delle persone, ma così come molte invenzioni importanti che hanno migliorato la nostra resistenza, io sono convinto che anche questo può farlo”.Quando c’è bisogno di cambiare ci si rivolge sempre ai giovani, perché noi adulti abbiamo già commesso i nostri errori. Quali sono stati i suoi nei confronti dell’ambiente?”Errori tanti, ma erano dettati dall’ignoranza. Chi lo sapeva che bruciare certe cose potesse inquinare? Quando ero piccolo, non c’era la raccolta differenziata, ma avevo una famiglia sensibile al tema, perché a mia madre faceva impressione che buttassimo la plastica nella natura. Oggi c’è una consapevolezza diversa ed è vero che lo dobbiamo fare per i nostri figli, ma come quando uno comincia a lavorare su se stesso con la psicologia, possiamo cominciare il cambiamento e farlo per noi. Anche perché questi poveri figli vengono sempre caricati di una responsabilità che non hanno, quindi pensiamo a salvare la nostra di pelle, non solo quella dei nostri figli”. 

    Tre gesti quotidiani che compie Stefano Accorsi per aiutare la Terra?”Sono un professionista della raccolta differenziata, quando mi faccio la doccia sto molto attento allo spreco d’acqua e mi piace andare in giro con la moto che sicuramente è uno dei mezzi termici meno inquinanti in assoluto e spesso ci vado in due, caricandola al massimo”. 

    Da padre, parla di queste tematiche con i suoi figli?”Sì, ma ai bambini non puoi solo dire di non sprecare l’acqua, va creata una piccola storia. Allora racconto che shampoo e sapone finiscono in mare, dove vivono i pesci, e quando ho toccato il tema dei pesci, ho visto un cambiamento di attenzione. A teatro, infatti, ci sono dei workshop fisici, con piccoli esperimenti a sfondo ambientale che faranno i bambini, dove recepiranno delle informazioni, ma all’interno di una storia che lascia un ricordo”. 

    Planetaria partirà da Firenze, ma si estenderà ad altre città?”È la nostra prima edizione e vogliamo ripetere ogni anno questa esperienza, ma stiamo riflettendo ad una versione più leggera da portare in giro per l’Italia, di cui abbiamo già parlato con un distributore teatrale, quindi si tratterà di trovare i modi e i tempi, però siamo ottimisti, perché il teatro è il nostro pane quotidiano”. LEGGI TUTTO

  • in

    La moda sostenibile secondo Nicoletta Fasani: “Nella Scartoria non si butta via niente”

    Il bello e la conseguenza del giusto. Così recita un proverbio giapponese che spiega come l’armonia della forma sia il risultato di una regola giusta. Queste parole hanno tracciato la via della sostenibilità per Nicoletta Fasani, eco-fashion designer che ha ideato i laboratori chiamati Scartoria, dove insegna ad adulti e bambini a recuperare gli avanzi […] LEGGI TUTTO

  • in

    Paolo Paci e la montagna che ancora dobbiamo scalare: “Impariamo a non lasciare tracce”

    Paolo Paci, scrittore e giornalista, ama le vette in ogni loro sfumatura e nel suo ultimo libro, La montagna delle illusioni (edizioni Piemme), racconta un paesaggio aspro e difficile con la sensibilità e la cura di chi concepisce le alture un posto indispensabile e dal fascino senza tempo. I paesaggi nei ricordi d’infanzia. “Non sono le Alpi, ma le Apuane, il gruppo appenninico più aspro e verticale. Andavamo in vacanza in Versilia e spesso ci spingevamo fino al rifugio Forte dei Marmi, sotto il torrione del Procinto che negli anni Sessanta stava diventando una famosa palestra di roccia. Posso dire che il mio primo calcare l’ho toccato lì, e sapeva di mare e macchia mediterranea. Poi sono venute le Grigne, le Dolomiti del Sella, le rocce di Campo dei Fiori… per un adolescente le pareti, la dimensione del vuoto, possono trasformarsi in fretta in una passione travolgente”.

    La montagna è un po’ il filo conduttore della sua vita? “Sono stato a lungo giornalista di viaggi, ho diretto testate di gastronomia e di lifestyle e solo ora, dopo più di quarant’anni di professione, posso dedicarmi interamente alla scrittura di montagna. Ma mi rendo conto che l’alpinismo ha formato ogni piccola parte della mia vita, ha accompagnato le mie relazioni sentimentali, l’educazione dei miei figli, ogni minuto del mio tempo libero e professionale. La montagna modella il carattere di chi la vive pienamente, insegna la pazienza e la resilienza, il rispetto per gli altri e per la natura: non solo gli animali, ma anche le piante, i licheni, le pietre. E questo è qualcosa che si può trasmettere”. 

    Lei è un grande conoscitore della montagna. Cosa ama di più?”Un tempo avrei detto le grandi scalate sul granito, le cascate di ghiaccio, le creste affilate. Oggi sono più propenso a vedere la montagna non più nel solo gesto sportivo ma nei suoi aspetti esistenziali. Il silenzio, la solitudine, la contemplazione. Un grande paesaggio (ma anche un bosco, una prateria d’alta quota) induce chi lo sa vedere in uno stato contemplativo. Si svuota la mente, si placa l’ansia. Un grande alpinista del passato, Reinhardt Karl, lo definiva tempo per respirare.Come nasce l’idea del suo ultimo libro?”L’idea nasce da un’esperienza che, come me, tanti altri cittadini hanno vissuto. I condomini vuoti delle stazioni sciistiche. Tecnicamente si chiamano letti freddi, quelli che vengono occupati solo per poche settimane l’anno. Ecco, quando si va nel proprio appartamentino di montagna in bassa stagione, essere immersi in questa atmosfera da ghost town (impianti chiusi, negozi vuoti, corridoi e deserti) è un’esperienza straniante. Io volevo ricrearla attraverso gli occhi di chi vive in quegli strani condomini tutto l’anno: i custodi. E per questo il protagonista del romanzo è proprio il figlio di un custode, nato e vissuto per vent’anni nella piccola metropoli d’alta quota. Antonio Soressi, così si chiama, scappa dal suo paese, diventa un artista di fama internazionale e torna nella valle solo alla morte del padre. Per raccoglierne l’eredità e fare i conti con il passato”.  LEGGI TUTTO

  • in

    Enzo Suma: “Così è nato il museo della plastica ripescata in mare”

    Nel “suo” museo le opere sono di fattura umana ma il vero capolavoro sta nel recupero. Enzo Suma, guida naturalistica ad Ostuni, in provincia di Brindisi, ha creato Archeoplastica, un museo online in cui si possono vedere i rifiuti pescati in mare, nonché fondatore di Millenari di Puglia, una realtà dell’alto Salento impegnata nella valorizzazione del territorio e nell’educazione ambientale. Per questo è una delle voci più importanti della seconda edizione del Festival dell’Acqua di Staranzano, dal 16 al 19 maggio in provincia di Gorizia.

    Sin dall’infanzia sono sempre stato attratto dal mondo degli insetti e in primavera ogni occasione era buona per fermarmi ad osservarli. Davanti all’asilo c’era un piccolo giardino e quando oggi sento il profumo dell’erba mi vengono in mente spesso quei ricordi. Mi succede anche con il profumo del mare, vivendo a due passi dalla costa sin da piccolo passavo lì tutta l’estate. Ricordo le prime immersioni maschera e pinne e le prime esplorazioni sott’acqua. Alle elementari i miei libri preferiti erano quelli che parlavano di animali e nel tempo ho sempre coltivato questo interesse. Oltre al mare ho sempre vissuto anche la campagna e imparato da subito a conoscere la bellezza della natura che si risveglia in primavera o l’odore della terra.

    Enzo Suma ha studiato Scienze ambientali all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Al rientro in Puglia inizia la sua gavetta nelle aree protette pugliesi specializzandosi nell’educazione ambientale diventando una guida naturalistica professionale. “Dopo l’Università – continua Suma – sono riuscito subito a inserirmi nel mondo della aree naturali protette e dell’educazione ambientale, ma nel frattempo era cresciuta anche una grande passione per l’ulivo monumentale e per le esplorazioni nel mio territorio. Vivo ad Ostuni, nel cuore della piana degli ulivi monumentali, ed esplorando le campagne allora avevo conosciuto ulivi enormi ma nessuno ne era al corrente. E così è nato un progetto che ha lo scopo di valorizzare il patrimonio degli ulivi monumentali pugliesi. In questi anni ho fatto conoscere tanti esemplari straordinari che si trovano sperduti nelle campagne pugliesi e che senza una guida la gente non avrebbe avuto modo di conoscere”.Dal 2013 Suma è impegnato nella  tutela del fratino, un piccolo uccello considerato a rischio. “Negli anni – aggiunge Suma – mi sono sempre occupato di tutela dell’ambiente e di conservazione della natura, specialmente delle specie a rischio come la tartaruga marina e il fratino. Stiamo parlando di un piccolo uccellino che nidifica a terra, generalmente sulla sabbia. Da noi in Puglia questo uccello si è adattato molto bene alla bassa scogliera rocciosa e ci sono fortunatamente ancora molte coppie nidificanti. Ma la tendenza è negativa e così per anni ho protetto i nidi più a rischio, creando dei veri e propri presidi con i volontari che mi seguono per far sì che la gente rispetti il limite di sicurezza creato a tutela dei nidi per non creare disturbo durante la cova e tutelando i piccoli nati da eventuali cani lasciati liberi senza guinzaglio. Insieme ad un esperto dell’Ispra siamo riusciti inoltre ad inanellare alcune coppie per poter ricavare informazioni preziose, utili alla tutela di questa specie”.

    Con oltre 200 reperti raccolti, nasce il progetto Archeoplastica.

    L’idea nasce a fine 2018 con il ritrovamente del primo reperto di cinquant’anni fa. Da allora ho sempre fatto molta attenzione a tutte le plastiche che si trovano in spiaggia, scoprendo che non è affatto raro trovarne spiaggiate di oltre cinquant’anni fa. Così, dopo aver messo da parte un bel po’ di reperti, ho strutturato il progetto che è stato poi ufficializzato nel 2021 riscuotendo da subito un grande interesse da parte di tutti i media nazionali, e non solo. Subito dopo è nata la positiva esperienza con i social media che oggi ci consentono di parlare ad oltre mezzo milione di follower.

    Al Festival dell’Acqua di Staranzano, dedicato alla risorsa più importante della Terra, Enzo Suma racconterà – insieme a tanti altri eroi dell’ambiente – quel che si può fare nel nostro piccolo.

    Io cerco di adottare dei piccoli accorgimenti che mi consentono di non utilizzare plastica monouso. Non si può essere perfetti e ognuno può fare ciò che è nei limiti delle proprie possibilità. Solo per fare un esempio ogni anno risparmio decine di bottiglie d’acqua perché da anni bevo acqua del rubinetto. LEGGI TUTTO

  • in

    “L’Antartide ti cambia prospettiva: per uscire dalla crisi serve un salto evolutivo”

    Quante cose può insegnarci l’Antartide. Dal continente dimenticato, quello  di ghiacci e resistenza, di vita estrema e basi di ricerca,  di esplorazioni e cambiamenti, può nascere una grande “consapevolezza” nell’affrontare il futuro. Ne è convinta Chiara Montanari, ingegnere e prima italiana ad aver guidato una spedizione in Antartide. In cinque diverse spedizioni, dal 2003 al 2016, Montanari è stata protagonista nella gestione delle missioni polari nelle più importanti basi di ricerca internazionali. Lì ha imparato come dall’incertezza si può “risvegliare la vitalità”, ha osservato da vicino le sfide del riscaldamento globale e compreso come per uscire dalla crisi in cui stiamo vivendo sia necessario “un salto evolutivo”. Tutte conoscenze che il  14 maggio, in occasione della nuova edizione di “Scintille” realizzata dall’Incubatore I3P del Politecnico di Torino, Montanari racconterà davanti a una platea di studenti e appassionati. Temi che oggi affronta insieme alle aziende, nei TEDx e nelle altre occasioni di incontri in cui a guidarla è sempre “l’Antarctic Mindset, la capacità di prosperare nell’incertezza”, di cui oggi ci racconta i segreti. Che cos’è l’Antarctic Mindset?”Potremmo definirlo un approccio di formazione che porto alle aziende e altrove: è la capacità di prosperare nell’incertezza. C’è molta similitudine tra l’ambiente che stiamo vivendo, ricco di incertezze e di imprevisti, e l’Antartide dove ci occupiamo di missioni di gruppo e di imprese complesse con tante difficoltà. Condivido la mia esperienza in Antartide di tanti anni proprio  per comunicare come possiamo e dobbiamo essere abili a imparare a prosperare nell’incertezza. Non solo sopravvivere, ma anche raggiungere risultati”. 

    Quante spedizioni ha fatto finora e qual è stata la più complessa e la più carica di incertezze?”Finora cinque spedizioni, l’ultima nel 2016. Fu un’esperienza molto forte perché ero a capo di una base belga che è stata sabotata e saccheggiata quando siamo arrivati, forse un primo e unico caso del genere. Fu un ulteriore imprevisto. Ma forse è stato ancor più complesso nella penultima missione. Allora ero a capo della base Concordia, quella che sta in cima al plateau antartico, a 4000 metri di altitudine, a -50 gradi d’estate e – 80 d’inverno, un luogo di condizioni proibitive. Quell’anno avevamo dato la nostra riserva di carburante a un grosso progetto di ricerca: avevamo fatto i calcoli che avremmo avuto ulteriori scorte e così l’abbiamo concessa. Ma ci fu un problema enorme lungo la costa, dove si staccò un gigantesco pezzo di banchisa che bloccò le navi che avrebbero dovuto rifornirci di carburante per tutta la stagione. Un imprevisto enorme: ci siamo completamente dovuti riorganizzare in corsa. Da questo ho imparato come l’incertezza ti fa inventare nuovi modi di organizzarti, per esempio trovando soluzioni energeticamente più convenienti. Devi fare in modo che la tua squadra diventi flessibile e creativa durante il cambiamenti. Questo vale anche nelle sfide della vita”. 

    Per esempio davanti alla sfida del riscaldamento globale?”Certo. Dobbiamo prendere consapevolezza che il clima sta cambiando e trasformarci. Il tema vero però è che per riuscire ad affrontarlo non possiamo usare la stessa mentalità che ci ha portato sin qua, sino a questa crisi. In Antartide ho capito che non uscirai mai dall’emergenza se continui a concepirla nello stesso modo. La chiave è imparare a concepire la complessità e, navigandola, trovare soluzioni innovative”. 

    Con la crisi del clima come ha visto cambiare, negli anni, l’Antartide?”C’è stato un cambiamento dal punto di vista percettivo e cambiamenti nel ghiaccio. Nel 2003, per raggiungere le basi si atterrava sul ghiaccio marino che si forma in inverno e di solito a inizio novembre, quando là è estate, potevamo atterrare tranquillamente, anche fino a metà dicembre. Nelle ultime missioni invece,  a causa delle temperature eccessive, era impensabile poterlo fare. Ma la cosa che mi ha impressionato di più è un’altra, vedere i dati della carota di Concordia, il ghiaccio che è stato perforato. Parliamo di 4000 metri di ghiaccio perforati che risalgono a 800mila anni fa: una sorta di analisi della storia della Terra e dell’atmosfera terrestre. Se osservi i grafici ottenuti dalla carota è evidente come in 800mila anni i parametri oscillano tutto sommato poco, ma negli ultimi 150 anni questi schizzano fuori range. Fa molta impressione: quei dati, quegli studi e quei grafici, confermano l’ipotesi di come l’essere umano con le sue emissioni abbia inciso sul clima”.

    Qualcosa di innegabile anche per chi è scettico sulla crisi climatica innescata dall’uomo?”Direi di sì. Purtroppo c’è tanto negazionismo. L’essere umano nega quando le cose non gli piacciono. Ma è un peccato: con la pandemia lo abbiamo visto, se tutti reagiamo in un certo modo si può ottenere un effetto forte. Ecco, dello stesso effetto avrebbe bisogno il clima. In questo, nell’affrontare il cambiamento tutti insieme, l’Antartide può essere una metafora ottima”.

    In che senso?”Oggi il tema del cambiamento, in generale,  è molto sentito ma viene vissuto con fatica. Ma l’Antartide, luogo dove è difficile vivere, ti insegna che se lo cogli, se cogli la natura del  cambiamento, se concepisci la complessità, allora ti rendi conto che il controllo è solo una illusione e rimuovi la fatica. Di conseguenza diventi più creativo nel trovare soluzioni”. 

    E lei che soluzione ha individuato per uscire dalle crisi che il Pianeta sta vivendo?”Siamo di fronte a una grande crisi planetaria. L’unica soluzione che io vedo è un salto evolutivo. Per quello, anche con i giovani, parlo di consapevolezza: non ne usciamo se non usciamo da un empasse troppo materialistico, troppo legato al profitto. Noi come esseri umani ora siamo molto legati ad individualismo, realismo e profitto. Siamo tutti presi da questa trappola. Ma l’essere umano non è fatto solo di questo. Dalla crisi climatica, per esempio, usciremo solo fuggendo da questa logica di sfruttamento: la Terra non è da sfruttare, è un posto in cui relazionarci”.

    Tornerà in Antartide?”Vediamo se mi richiamerà. Mi piacerebbe una missione particolare, avventurosa. Per ora mi tengo gli insegnamenti che l’Antartide mi ha dato: è la metafora di un mondo piccolo e lì si riescono a vedere le dinamiche della complessità. Noi facciamo fatica a concepire la complessità: non ci entra in testa il fatto che in natura tutto è connesso e che noi siamo dentro a questa connessione. Per riuscire a comprenderlo dobbiamo uscire dai nostri schemi automatici e riscoprire di essere vivi: in questo, un luogo così duro come l’Antartide, può aiutarti e l’Antarctic Mindset diventa un modo per essere consapevoli degli errori percettivi che facciamo. Ecco perché è importante ascoltare quel che l’Antartide ha da dirci”. LEGGI TUTTO

  • in

    Annalisa Metta: “Basta retorica del verde: il paesaggio urbano ha bisogno di natura, non di greenwashing”

    Annalisa Metta è architetta, dottoressa di ricerca in Progettazione dei Parchi, Giardini e Assetto del Territorio, professoressa ordinaria in Architettura del Paesaggio presso il Dipartimento di Architettura dell’Università Roma Tre. La sua ricerca, da anni, si rivolge ad approfondimenti teorico-critici ed esperienze applicate, tutti inerenti il progetto paesaggistico, a diverse scale spaziali e temporali, con particolare attenzione allo spazio pubblico. Dal 2018 membro del Consiglio Direttivo di IASLA – Società Scientifica Italiana di Architettura del Paesaggio, Annalisa Metta nel 2022 ha pubblicato per DeriveApprodi Il paesaggio è un mostro. Città selvatiche e nature ibride.

    Selvatico, per lei, è il modo con cui il paesaggio può essere ancora mitico, misterioso, seducente. Porta con sé scoperta, occasione, possibilità, turbamento: “Mi riferisco – spiega – a tutte le forme di vita, umane e non umane, che si svolgono al di fuori della domesticazione e che per questo manifestano comportamenti indipendenti e imprevedibili, in un mondo, quello che abitiamo, in gran parte governato da protocolli che escludono le difformità, le anomalie, gli imprevisti”. L’ossessione umana per la prevedibilità implica spesso la semplificazione dei paesaggi, che invece per Metta sono simili a dei “mostri”.

    Imprendibili, sfuggenti e talvolta ambigui: così sono i nostri paesaggi – sottolinea – e così siamo noi. I paesaggi sono la manifestazione della nostra presenza nel mondo e per questo ci assomigliano: grandezze e fragilità, desideri e inadeguatezze, valori nobili e meschinità, potere, disuguaglianze, amore e violenza. Sono magnifici e allo stesso tempo terribili: doppi, ambivalenti, contraddittori. E poi i mostri sono creature umane e non umane: sirene, sfingi, centauri, angeli, l’uomo-ragno o cat-woman. E cosa sono i paesaggi se non la combinazione di elementi umani e non umani?

    Questa lettura critica riguarda anche la retorica ecologista: “specialmente se sostenuta dal marketing, l’impostazione aritmetica quantitativa riduce il paesaggio urbano al dominio della pura prestazione ecologica e, per quanto possa apparire paradossale, lo allontana dalla natura, che si rimpiange e ci si inganna di venerare. Siamo ossessionati dalla quantità di alberi da piantare nelle nostre città per i benefici che possono portarci. Ma alberi, insetti, rapaci, anfibi, ecc. dovrebbero avere posto in città non perché ci servono, ma perché hanno diritto di vivere, di vivere con noi, non di vivere per noi”. 

    Come sfuggire a questa retorica?

    Cominciando, ad esempio, a smettere di usare la generica parola verde, che è appunto solo uno standard quantitativo, per indicare gli spazi aperti della città.

    Uno dei capitoli del libro Il paesaggio è un mostro si intitola “Il verde è il nuovo beige”, proprio in riferimento a una sorta di beigewashing, in cui si spiega il verde è diventato un colore di sfondo, un “grande classico” che rassicura e concilia: “una salsa, speziata quanto basta, da spalmare in ogni dove. Il rischio è di oggettivare la natura, nella fattispecie la vegetazione, considerandola un talismano per curare le nostre nevrosi, di fatto trascurandone gli aspetti forse meno piacevoli, gli appassimenti, ad esempio, e ignorando che la natura ha molti colori, compreso il marrone, che è il colore delle foglie secche e della terra nuda. Credo che un modo per sfuggire al greenwashing, cioè alla reificazione consensuale della vegetazione, sia ammettere che essa è viva e imperfetta, proprio come noi. Che è verde, ma anche marrone”.

    Presidente di Giuria al concorso “Avventure Creative” dell’edizione 2024 del Festival del Verde e del Paesaggio lo scorso aprile all’Auditorium Parco della Musica di Roma, dedicato al verde in città e al paesaggio urbano, Annalisa Metta ha premiato il progetto vincitore, Garden-in, di Federica Pedone e Maria Minnucci. Il progetto ha come obiettivo la creazione di un’area dedicata alla natura visibilmente fruibile dal finestrino della propria vettura: “L’idea creativa – spiega Metta – non solo ha posto questioni ambientali importanti, immaginando di costruire un paesaggio che nel tempo possa essere abitato da molte forme di vita diverse, ma ha considerato il punto di vista dall’automobile, definendo perciò un paesaggio in movimento, non solo per le trasformazioni cui andrà incontro, ma anche perché potrà interagire con il movimento di chi lo osserva. È così che i nostri paesaggi ci parlano di nuovi desideri e di nuove visioni, di futuro”. LEGGI TUTTO

  • in

    Franco Di Manno, lo psichiatra che cura la terra con i frutti dimenticati

    Le pere ad uncino, le mele bianche, le sorbe, l’arancio biondo della conca d’oro, i corbezzoli rossi, i pomodori lampadina. Franco Di Manno è una sorta di archeologo dei frutti dimenticati. Da molti anni viaggia tra le campagne tra Fondi e Latina con una missione: ritrovare le varietà di frutta e verdura date per estinte per piantarle nel suo campo, il Parco dei frutti dimenticati.Medico psichiatra all’ospedale di Pontecorvo dove si occupa soprattutto di disagio giovanile e adolescenziale, vive a Querce di Cesare, una frazione sotto costa vicino Fondi, un territorio di campagna dove in lontananza si vede il mare di Sabaudia. Solo filologia la sua? “Niente affatto. Io i miei frutti li coltivo, li produco e li condivido con amici e vicini. La mia ricerca fa parte di una scelta di vita: tutelare l’ambiente e la biodiversità. Ed è anche una scelta di salute. Perché nessuno può stare bene se questa bella famiglia di erbe e animali la distruggiamo continuando a produrre inquinamento e avvelenamento di cibi che consumiamo”. Guai però a dare al Parco dei frutti dimenticati un valore terapeutico e per spiegare il motivo ricorre a Karl Marx: “Ho sempre creduto alla teoria che la vita intellettuale deve andare insieme all’azione al movimento, alla fisicità che deve trovare sempre un’espressione. Perché siamo prima di tutto azione”. 

    Alcune specie di frutta e verdura salvate dall’estinzione   LEGGI TUTTO