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    Per bonificare il mare di Bagnoli arrivano i super batteri dal Nord Europa

    Ancora una volta l’uomo potrebbe chiedere alla natura un aiuto diretto per rimediare ai danni che egli stesso ha causato all’ambiente. Trovando nei microrganismi alleati invisibili per una missione sin qui impossibile: il risanamento e la bonifica della baia di Bagnoli, nell’area settentrionale di Napoli, pesantemente compromessa dalle attività dell’acciaieria Ilva/Italsider e dismessa – al termine di un processo di deindustrializzazione – solo sul finire degli anni ’80.

    L’ultima, intrigante idea intenderebbe dunque scongiurare l’ipotesi della rimozione diretta degli strati sottomarini del fondale, un intervento dai costi esorbitanti e dalla complessa sostenibilità (dove finirebbero i rifiuti speciali e con quali costi?) a favore di un’opzione alternativa di biorisanamento in situ che già convince l’Unione Europea. Una soluzione che prevede l’utilizzo di batteri allevati nel Nord Europa (la loro specie è top secret), pronti – per così dire – a ridimensionare le sostanze inquinanti, aiutati da una tecnologia complementare, che prevede la trasmissione di corrente elettrica per accelerare la degradazione e la fissazione dei contaminanti presenti. LEGGI TUTTO

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    La legge Salvamare non può più attendere, subito i decreti attuativi

    “Senza un’azione drastica, la plastica potrebbe superare in peso tutti i pesci nell’oceano entro il 2050, ha avvertito António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, all’apertura dell’ultima Conferenza dell’Onu sugli Oceani a Lisbona (giugno 2022). Questa previsione è già realtà”, afferma con decisione Marevivo in occasione della Giornata mondiale degli oceani..

    “Le immagini che vediamo urlano la drammatica situazione in cui si trova il mare e ci parlano dei due principali problemi che lo colpiscono: l’eccesso di plastica e la diminuzione drastica dei pesci dovuta all’overfishing. I pescatori di tutto il mondo recuperano ogni giorno nelle loro reti più plastica che pesci. E non è tutto.

    I micro frammenti che vediamo a occhio nudo sono dispersi nelle acque o già ingeriti dagli stessi animali che poi portiamo sulle nostre tavole. La ricerca scientifica dimostra che la plastica, sotto forma di microplastiche, è entrata nella catena alimentare ed è presente nell’aria che respiriamo e nei cibi che assumiamo. Cos’altro stiamo aspettando per intervenire?”, chiede l’associazione ambientalista.

    “Oggi ricorre l’Ocean Day, Giornata Mondiale degli Oceani, data che celebra il mare, liquido amniotico del Pianeta, che ci consente di vivere, nutrirci, riprodurci, ma che deve anche rappresentare un momento di presa di coscienza della necessità di agire con la massima urgenza per tutelare la sua salute e, di conseguenza, la nostra stessa sopravvivenza!”

    Marevivo, Alleanza delle Cooperative Italiane – Settore Pesca, Associazione Mediterranea Acquacoltori, Associazione La Grande Onda, AssoSub, CNR, Compagnia della Vela di Venezia, Fondazione Dohrn, Lega Italiana Vela, Lega Navale Italiana, Legacoop Agroalimentare, Mitilicoltori Basso Lazio, O.P. Mytilus Campaniae, O.P. Produzione Molluschi Regione Campania, Pescaturismo Regione Campania, Ricercatori Università Politecnica delle Marche e Sea Shepherd chiedono al Governo un intervento immediato.

    “È trascorso già un anno dall’approvazione della Legge Salvamare che abbiamo faticosamente ottenuto dopo ben 4 anni di battaglie, ma non è ancora operativa perché mancano i decreti attuativi. Il problema non è risolto, nonostante la buona volontà del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali che, di concerto con il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, ha deliberato uno dei decreti attuativi che premia i pescatori che riportano a terra i rifiuti trovati nei loro attrezzi da pesca. È necessario considerare l’intera filiera che prevede nei porti il punto di sbarco, con il conseguente smaltimento dell’enorme quantità di materiale che dal mare viene riportato in banchina. Questa Legge, quindi, che consente ai pescatori di depositare nei porti la plastica recuperata con le reti, invece di ributtarla in mare, e di poter installare sistemi di raccolta di rifiuti alle foci dei fiumi, non è ancora attuabile”, scrivono a nome delle associazioni.

    “[Questo provvedimento] è come l’“Incompiuta di Schubert”, con la differenza che, anche se incompiuta, la sinfonia di Schubert poteva essere suonata, mentre i pescatori così non potrebbero comunque portare i rifiuti a terra” sono le parole di Giampaolo Buonfiglio, Presidente AGCI Agrital.

    La plastica rappresenta l’80% dei rifiuti presenti negli oceani, dalle acque superficiali fino ai fondali marini. Nel Mar Mediterraneo finiscono più di 200.000 tonnellate di plastica all’anno, cioè il contenuto di oltre 500 container al giorno. È incalcolabile quanta plastica in questi cinque anni sia finita in acqua o non abbiamo potuto recuperare a causa della mancanza di questi decreti attuativi.

    “Sappiamo – dichiara Rosalba Giugni, Presidente Marevivo – che l’attuazione della legge non risolverà tutti i problemi dell’inquinamento da plastica, ma rappresenta uno strumento concreto per ridurne la presenza in mare. Purtroppo le microplastiche sono ovunque: nella pioggia, nel sale e ne ingeriamo anche in grandi quantità. Le ultime scoperte scientifiche dimostrano che sono presenti anche nel nostro corpo, sono entrate nei tessuti della placenta delle donne, luogo sacro dove ha origine la vita, nel latte materno e persino nel liquido seminale. Non sappiamo ancora quali siano gli effetti sul corpo umano ma conosciamo quelli sugli animali. I biologi marini nei loro studi hanno rilevato anche una trasformazione del loro ciclo vitale, il cambio di sesso e l’infertilità. Altra conseguenza terribile è il ritrovamento di nanoplastiche negli occhi dei pesci, che è causa di cecità. E se succedesse anche agli uomini? Cosa dobbiamo ancora scoprire per capire che è giunto il tempo di cambiare rotta e di pensare che la salute del mare dipende dalla nostra e viceversa?” LEGGI TUTTO

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    Loss and damage, ai Paesi poveri dovrebbero andare duecento trilioni entro il 2050

    Quanto dovrebbero pagare – per via delle emissioni climalteranti che hanno creato – i Paesi ricchi per risarcire quelli più poveri che emettono poco? La cifra è persino difficile da leggere: 200.000.000.000.000.000.000 di dollari, ovvero duecento trilioni. Ad affermarlo è una ricerca congiunta delle università di Leeds e di Barcellona, in cui i ricercatori hanno provato a calcolare quanto le nazioni che emettono di più, e che dunque sono i maggiori responsabili dell’impatto del cambiamento climatico, dovrebbero dare ai Paesi in via di sviluppo per aiutarli nel necessario processo di decarbonizzazione, in grado di frenare l’avanzata del surriscaldamento globale.

    Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Sustainability, per la precisione delinea la necessità – entro il 2050 – di un fondo totale da 192 trilioni di dollari, circa 7 trilioni all’anno. Il sistema di compensazione si basa sull’idea, in generale, che l’atmosfera è un bene comune: è un risorsa di tutti, ma che non è stata “utilizzata” in modo equo.

    L’analisi parte infatti dal calcolo della “quota equa” del bilancio globale di carbonio e analizza le emissioni di ciascun Paese su circa 168 esaminati in base alla popolazione. Alcuni stati erano ben al di sopra di quella che è stata definita la “quota equa”, altri decisamente al di sotto. In generale viene evidenziata una sorta di divisione nord-sud: secondo i ricercatori solo il Nord – Stati Uniti, Europa, Canada, Australia, Regno Unito, Russia, Giappone e altri – dovrebbe risarcire i Paesi più poveri, collocati per lo più a sud, di circa 170 trilioni di dollari (6 trilioni l’anno). Gli altri 22 trilioni sono invece legati alle emissioni elevate di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. In particolare, secondo lo studio, i fondi  da destinare ai Paesi meno abbienti dovrebbero essere impiegati per le politiche di decarbonizzazione e di adattamento e mitigazione ai cambiamenti climatici. Dal rapporto emerge una enorme disparità rispetto alla quota di emissioni: per esempio gli Stati Uniti emettono quattro volte di più rispetto a quella che viene considerata la quota equa e in tal senso dovrebbero pagare 80 trilioni di dollari alle nazioni più in difficoltà per aiutarle ad avviare politiche climatiche tali per affrontare in meno di trent’anni il collasso del clima a cui loro hanno contribuito in parte minima. Dato che il calcolo è basato in parte sulle emissioni pro capite, l’India risulta al contrario uno degli stati che avrebbe il diritto di ricevere una delle cifre più alte: 57 trilioni di dollari.

    “Si tratta di una questione di giustizia climatica: se chiediamo alle nazioni di decarbonizzare rapidamente le loro economie, anche se non hanno alcuna responsabilità per le emissioni in eccesso che stanno destabilizzando il clima, allora dovrebbero essere risarcite per questo onere ingiusto” ha ricordato uno degli autori dello studio,  Andrew Fanning del Sustainability Research Institute dell’Università di Leeds.

    Inoltre si stima che quasi il 90% delle emissioni in eccesso sia dovuto dai Paesi ricchi del nord, mentre il resto è legato ad alcuni del sud ma soprattutto ai “petrol-stati”, come Arabia Saudita ed Emirati. Basandosi su un calcolo legato alla popolazione, curiosamente nonostante sia oggi il più grande emettitore al mondo, anche la Cina avrebbe diritto ad essere risarcita.

    Il tema dei finanziamenti e del “loss and damage”, quei fondi per “perdite e danni” concordati anche alla Cop27 come forma di risarcimento legata ai danni delle emissioni dei Paesi più industrializzati, sta diventando sempre più centrale nella questione della giustizia climatica. Come conclude Jason Hickel, professore dell’università di Barcellona e coautore del report, “il cambiamento climatico riflette chiari modelli di colonizzazione atmosferica: la responsabilità per le emissioni in eccesso è in gran parte detenuta dalle classi ricche delle nazioni più abbienti, quelle che hanno consumi molto elevati e che esercitano un potere sproporzionato sulla produzione e sulla politica nazionale. Sono loro che devono sostenere i costi del risarcimento”. LEGGI TUTTO

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    La plastica biodegradabile ha bisogno di un anno in più per decomporsi di quella compostabile

    Se una plastica di uso estremamente comune, etichettata come “biodegradabile”, resiste inalterata per 14 mesi negli ecosistemi marini, forse è il caso di ammettere che c’è qualche problema con l’uso e il significato dell’aggettivo. A evidenziarlo uno studio appena pubblicato sulla rivista PLOS ONE da parte di un gruppo di scienziati dello Scripp Institution of Oceanography alla University of California, San Diego.

    Gli autori del lavoro, in particolare, hanno cercato di disambiguare il senso dei termini “biodegradabile” e “compostabile”, distinguendo tra i materiali che possono essere degradati solo in ambienti industriali controllati (i cosiddetti Pla) e quelli che invece si distruggono nell’ambiente naturale. E mostrando, per l’appunto, che spesso quello che chiamiamo biodegradabile non lo è per davvero.

    Il fatto che l’inquinamento da plastiche, microplastiche e nanoplastiche costituisca una seria minaccia per gli ecosistemi marini e per la salute dell’intero pianeta ormai non è più un mistero da tempo. Uno dei problemi principali connesso alla questione sta nel fatto che, per l’appunto, la plastica è molto resistente alla degradazione, e i suoi frammenti persistono per molto tempo negli ecosistemi: per questo, negli ultimi anni gli scienziati hanno sviluppato diversi sostituti della plastica “tradizionale”, quella sintetizzata a partire dal petrolio, con il duplice obiettivo di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e di rendere i prodotti di scarto più rispettosi dell’ambiente.

    Uno di questi sostituti sono i Pla, polimeri dell’acido lattico derivati dalla fermentazione di zuccheri e amidi, in grado di decomporsi alle alte temperature che si raggiungono nei siti di compostaggio; e gli autori del lavoro appena pubblicato hanno cercato di capire qual è il loro destino quando invece si trovano nell’ambiente naturale.

    Per farlo, hanno inserito diversi campioni di Pla, di materiali a base di petrolio, di materiali a base di cellulosa e di materiali a base di petrolio e cellulosa in alcune gabbie sommerse al largo della costa di La Jolla, in California, monitorandoli ogni settimana per comprenderne la degradazione: in questo modo, hanno scoperto che i materiali a base di cellulosa effettivamente si decompongono abbastanza rapidamente, nel giro di un mese; nessuno degli altri, invece, ha mostrato segni di degradazione durante tutti i 14 mesi dell’esperimento.

    “I nostri risultati”, ha spiegato Sarah-Jeanne Roye, una degli autori dell’articolo, “indicano che il termine ‘compostabile’ comunemente associato ai Pla non implica un effettivo degrado nell’ambiente naturale. Dunque, affermare che le plastiche compostabili siano biodegradabili è fuorviante, in quanto può trasmettere l’idea che il materiale si degradi nell’ambiente. Le plastiche a base di Pla, invece, si degradano solo in strutture industriali. Il nostro lavoro è uno dei pochi studi che si occupa della comparazione di biodegradabilità di diversi materiali (da quelli completamente sintetici a quelli completamente biologici) in condizioni controllate: alla luce dei nostri risultati, riteniamo sia necessario definire dei test standardizzati per etichettare un materiale come effettivamente ‘biodegradabile’, così che i consumatori siano adeguatamente informati su quello che usano e comprano”. LEGGI TUTTO

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    Borghi abbandonati o a rischio: contributi fino a 75.000 euro per le imprese

    Al via dall’8 giugno 2023 il bando “Imprese Borghi”. L’iniziativa è rivolta a piccole e medie imprese per i progetti finalizzati a favorire il recupero del tessuto economico-produttivo dei borghi a rischio abbandono o abbandonati, puntando su interventi ad alto valore aggiunto dal punto di vista della tutela ambientale. Saranno favoriti i progetti che privilegiano […] LEGGI TUTTO

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    Le termiti ci insegnano a costruire edifici che “respirano”

    Le temperature globali continuano a lievitare, e in alcuni Paesi, incluso il nostro, le estati si fanno via via sempre più torride. L’aria condizionata a volte diventa una necessità, ma sappiamo anche che non può essere considerata come la soluzione definitiva: certo, è efficace per raffreddare la nostra casa o gli ambienti in cui lavoriamo, al prezzo però di continuare a riscaldare l’ambiente esterno, alimentando il pericoloso circolo vizioso che conosciamo ormai fin troppo bene. Secondo uno studio condotto da due esperti di architettura e tecnologie sostenibili, pubblicato su Frontiers in Materials, le termiti potrebbero venirci in aiuto: questi insetti sono infatti capaci di costruire dei veri e propri edifici in grado di “respirare”. Ispirandoci al loro ingegno, frutto di conoscenze accumulate in milioni di anni di selezione naturale, potremmo riuscire a ideare abitazioni e strutture che non necessitino di essere raffreddate con l’aria condizionata, e che risultino quindi maggiormente sostenibili per il Pianeta.

    Edilizia sostenibile

    I nuovi ingredienti per edifici efficienti: cocco e limone, un prototipo di legno trasparente

    di Matteo Grittani

    05 Giugno 2023

    I due ricercatori hanno studiato una specie di termiti che si trova in Namibia (Africa Sud-occidentale), le Macrotermes michaelseni, focalizzandosi in particolare sulla parte dei termitai identificata col nome di “complesso di uscita”. Quest’ultimo è costituito da una fitta rete di tunnel, per la maggior parte larghi dai tre ai cinque millimetri, che ha la funzione di assicurare un’appropriata ventilazione dell’intero complesso, consentendo tra l’altro di eliminare l’eccesso di umidità. Per capire meglio come funziona, i due autori hanno raccolto e analizzato tramite tomografia computerizzata un frammento di termitaio: il complesso di uscita è risultato avere un volume totale pari a circa un litro e mezzo, di cui il 16% si è rivelato essere costituito dai tunnel.

    Edilizia

    Una pellicola a base di cellulosa che sfrutta i colori per raffreddare gli edifici

    di Dario D’Elia

    22 Aprile 2023

    I ricercatori hanno poi creato una copia dell’originale grazie a una stampante 3D, l’hanno sottoposta a flussi di aria con intensità variabili e hanno misurato il trasferimento della massa d’aria al suo interno attraverso appositi sensori. L’ipotesi degli autori, testata anche attraverso l’utilizzo di modelli e geometrie diversi rispetto a quelli originali, era che la rete di tunnel costruita dalle termiti fosse in grado di creare delle specie di turbolenze all’interno del complesso, amplificando così l’effetto del flusso d’aria in ingresso. E, in effetti, questo è anche ciò che hanno concluso a seguito delle loro analisi.

    Secondo David Andréen, primo autore dell’articolo e docente senior presso il gruppo di ricerca sulla materia biodigitale dell’Università di Lund (Svezia), l’esempio delle termiti potrebbe quindi essere applicato all’architettura umana per promuovere la ventilazione degli edifici e tenere sotto controllo i livelli di calore e di umidità: “immaginiamo che in futuro le pareti degli edifici, realizzate con tecnologie emergenti come le stampanti a letto di polvere, conterranno reti simili al complesso di uscita. Queste permetteranno di muovere l’aria attraverso sensori e attuatori incorporati, che richiedono solo piccole quantità di energia”.

    Economia circolare

    La prima casa al mondo costruita con i pannolini usati

    di Paola Arosio

    01 Giugno 2023

    Anche a detta di Rupert Soar, secondo autore della pubblicazione e professore associato presso la School of Architecture, Design and the Built Environment dell’Università di Nottingham Trent (Regno Unito), le strutture implementate dalle termiti nel complesso di uscita potrebbero aiutarci a risolvere diversi problemi contemporaneamente: “mantenere il comfort all’interno delle nostre case, regolando al contempo il flusso di aria e umidità attraverso l’involucro dell’edificio”. Non ci resta che iniziare a progettare. LEGGI TUTTO

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    I nuovi ingredienti per edifici efficienti: cocco e limone, un prototipo di legno trasparente

    Cocco e limone, quanto di più naturale esista: sembrerebbero gli ingredienti per un drink rinfrescante o per una bella macedonia, ma i ricercatori del KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma hanno trovato il modo di utilizzarli come materiali da costruzione sostenibili. Si tratta di un nuovo biocompòsito che impiega il legno come componente strutturale e offrirebbe ottime capacità di stoccaggio del calore, eccellenti prestazioni meccaniche e trasmittanze. Il gruppo ha prodotto un primo pannello spesso un centimetro e lo ha presentato sulle pagine della rivista scientifica Small.”È possibile produrne spessi di qualsiasi misura tramite laminazione – spiega Céline Montanari, coordinatrice del team e prima autrice – e impiegare il nostro materiale in maniera scalabile, per le più svariate applicazioni in edilizia”. 

    L’efficienza energetica parte dall’innovazione tecnologica

    Patiamo dai numeri: secondo International Energy Agency (Iea), la climatizzazione degli edifici contribuisce ogni anno al 27% delle emissioni di gas serra per il settore energetico, il più importante. Un’impronta carbonica enorme, che impone a scienziati e ingegneri di trovare nuove per tagliare drasticamente consumi ed emissioni. La ricerca in questo campo è in rapida espansione, con materiali isolanti 100% riciclabili e naturali con eccellenti proprietà, facciate fotovoltaiche e finestre elettrocromiche e termocromiche, ovvero capaci di regolare l’ingresso di luce e calore nelle stanze al bisogno.Un nuovo filone, che sta rapidamente prendendo quota, sfrutta un concetto tanto semplice quanto innovativo: il cambiamento di fase dei materiali. Obiettivo? Rendere le pareti dell’edificio dei “componenti attivi” capaci di rinfrescare e riscaldare le zone interne. In altre parole, si tratterebbe di trasformare la nostra casa in una vera e propria batteria termica sostenibile. Per farlo, servono materiali in grado di cambiare di fase mentre assorbono o cedono energia (in questo caso sotto forma di calore).”Il nostro prototipo sfrutta le capacità dei cosiddetti Phase change materials, funzionali per l’accumulo di calore latente”, scrivono i ricercatori presentando il nuovo lavoro sulle pagine di Small.

    Economia circolare

    Pannolini usati al posto della sabbia: la prima casa al mondo costruita con il cemento green

    di Paola Arosio

    01 Giugno 2023

    Ripreso il progetto del “legno trasparente”

    L’idea è di Céline Montanari, ricercatrice al Department of Fibre and Polymer Technology del Wallenberg Wood Science Center, un hub di innovazione che concentra le sue ricerche sull’efficienza energetica negli edifici, affiliato con le principali università svedesi. Il gruppo di Montanari lavora da alcuni anni sullo sviluppo di un legno ingegnerizzato in modo tale da essere impiegato nelle più diverse condizioni climatiche. Il concetto non è nuovo: si parte dai cosiddetti transparent wood composites, compositi di legno trasparenti, un insieme di materiali ecologici, economici, modulari e con ottime proprietà ottiche, il cui primo progetto è addirittura datato 1992.Il modello è stato più volte ripreso da esperti di università americane e svedesi, con l’obiettivo di migliorarne le proprietà per renderlo in grado anche di assorbire e rilasciare calore, prendendo spunto dalle attuali tecnologie di accumulo termico. Originariamente, tuttavia, si impiegavano anche polimeri di origine fossile come il glicole polietilenico; la nuova tendenza è di sostituirli con componenti completamente naturali ed ecosostenibili. 

    Olio di cocco, bucce di agrumi e matrice di legno

    Con l’ultimo lavoro, gli ingegneri del KTH hanno iniziato estraendo chimicamente la lignina dal legno raccolto da alberi di betulla. Ciò crea dei minuscoli pori nella struttura che, privata della lignina diventa bianca. Pori successivamente riempiti con olio di cocco ed estratti derivati da bucce di limone scartate dall’industria dei succhi di frutta e delle bevande zuccherate. Ed è così che il materiale si trasforma in una sorta di “batteria strutturale”: una volta scaldato, converte il limonene acrilato (la molecola originata dagli agrumi) in un polimero che permette al legno di riacquistare resistenza meccanica necessaria per l’impiego in edilizia e lo rende trasparente. Non solo: l’altra componente, l’1-dodecanolo ricavato dal cocco, invece, può cambiare fase da solida a liquida, assorbendo e cedendo energia nel processo. Sembra complicato, ma è esattamente ciò che accade alla solidificazione dell’acqua in ghiaccio, e viceversa.”Nel nostro legno trasparente – osserva la ricercatrice – questa transizione non avviene a 0°C, ma a 24°C. Questo permette di riscaldare o raffrescare gli ambienti circostanti a seconda delle necessità”. Ma quanto potrebbe far risparmiare un edificio progettato con questa nuova componente? Le stime del KTH di Stoccolma parlano di circa 2,5 kWh di energia al giorno non consumati in riscaldamento e raffrescamento dell’edificio per 100 kg di materiale impiegato per costituire le pareti perimetrali.”Il legno raccolto in maniera sostenibile è un materiale straordinariamente leggero e resistente, ecologico ed economico – conclude Montanari – . Ciò rende il nostro prototipo una soluzione conveniente e 100% sostenibile per applicazioni di alta fascia quali edifici residenziali e terziario”. LEGGI TUTTO

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    Slow Fiber: una filiera per la moda più durevole, pulita e giusta

    Dopo Slow Food, associazione internazionale nata nel 1986 da un’idea vincente di Carlo Petrini per promuovere un cibo “buono, pulito e giusto”, è arrivato il momento di Slow Fiber, una rete d’imprese che vuole dimostrare che il tessile può essere durevole e sano, fondata da Dario Casalini.

    Longform

    L’industria della moda può diventare sostenibile?

    di Vittorio Emanuele Orlando

    10 Marzo 2023

    Alcune delle problematiche della fast fashion sono sempre più evidenti: ogni anno nell’Unione Europea vengono scartati 5,8 milioni di tonnellate di prodotti tessili e solo l’1% dei capi in tutto il mondo viene riciclato in nuovi indumenti. Nei primi mesi del 2023, la Commissione Europea ha lanciato la campagna ReSet The trend per promuovere una moda più circolare e sostenibile.Contrapporsi agli sprechi di questo settore è anche l’obiettivo di Slow Fiber. “L’idea- racconta Dario Casalini – è quella di creare un modo di produrre e di consumare differente dalla fast fashion in termini di durata dei beni che produciamo e di contenuto valoriale che la filiera riflette sia in termini ambientali sia sociali. Quel modello è fondato sulla quantità, velocità, standardizzazione e anche sfruttamento, il nostro, invece, sulla lentezza e qualità che dura nel tempo. Capi che sono sani per chi li indossa, puliti a livello ambientale e giusti in quanto chi li ha prodotti è stato correttamente remunerato.”

    Moda green

    Michela Chereches, la sarta delle materie prime naturali

    di Agostina Delli Compagni

    03 Dicembre 2022

    Criteri della rete Slow Fiber

    “Ogni parolina chiave – sostiene il fondatore – l’abbiamo declinata in una serie di requisiti che sono in tutto un’ottantina. Alcuni sono obbligatori mentre per altri ci impegniamo tutti insieme a migliorare nel tempo. Se, per esempio, un’impresa autoproduce una certa parte di energia rinnovabile promette in futuro di fare di più. Ma è importante che si rifletta sull’intera filiera.”

    I KPI sono declinati per parola chiave, all’aggettivo “buono”, per esempio, corrispondono: la garanzia di tracciabilità e trasparenza della filiera, il legame e radicamento nel territorio di origine e una mission aziendale che includa esplicitamente la sostenibilità (redazione di rendiconti e report periodici, compreso il bilancio).

    Aziende

    Bambù, plastica e cashmere riciclati per il tessile che rispetta l’ambiente

    di Maria Rita Corda

    02 Gennaio 2023

    Per “sano”, invece, s’intende la conformità al Regolamento UE “REACH” o al protocollo “ZDHC” e audit chimici periodici anche sui propri fornitori. Alcuni dei criteri relativi al “pulito” sono: redazione di una politica ambientale in cui si specificano gli impegni, gli obiettivi e le azioni, ma anche conformità alle normative sulla disciplina e gestione degli scarichi idrici, delle emissioni atmosferiche e dei rifiuti. L’uso di energia da fonti rinnovabili, l’implementazione di criteri di eco-design e di progetti di economia circolare, upcycling, etc. e l’utilizzo di fibre di origine naturale certificate (es. FSC) o di fibre sintetiche derivanti da riciclo sono altri aspetti che la rete vuole mettere in risalto.L’aggettivo “giusto”, invece, deve essere caratterizzato per esempio da: l’osservanza del CCNL applicabile, sostegno dei diritti ad una retribuzione dignitosa e al bilanciamento vita-lavoro; rispetto degli standard di sicurezza e salubrità del luogo di lavoro; mappatura della filiera e identificazione dei fornitori a rischio, per impedire qualsiasi forma di sfruttamento del lavoro minorile o infantile.

    Finanza e sostenibilità

    Moda, rating e certificazioni non garantiscono più contro il greenwashing

    di Fiammetta Cupellaro

    05 Novembre 2022

    Quali sono, invece, i criteri relativi al termine “durevole” per Slow Fiber? Si mette in risalto la presenza di un sistema di gestione della qualità; la misurazione LCA o PEF sui propri prodotti, l’attivazione di servizi post-vendita per limitare l’impatto dei capi a fine vita o prolungarne l’utilizzo; e attività di formazione e divulgazione di pratiche per la corretta manutenzione.

    “In Oscalito- racconta il fondatore- per esempio, utilizziamo solo materie prime di origine naturale e ci alimentiamo solo con energia verde, le catene di forniture sono filiere vicine (italiane ed europee) e il nostro rapporto con i partner è di lungo corso con condizioni eque che fanno crescere entrambi. Le imprese che sono nel gruppo sono certificate ZDHC, uno standard molto alto, e si impegnano ad un consumo di acqua sempre minore. Molte aziende che fanno parte della rete sono certificate GOTS o Ecotex. Noi ci poniamo, rispetto alla normativa italiana, degli standard volontari ancora maggiori ma progressivi.” 

    Le aziende e gli obiettivi per una moda più sostenibile 

    Le imprese che fanno parte di Slow Fiber rappresentano un po’ tutta la filiera: a partire dalla fibra fino al prodotto finito. Attualmente sono queste le aziende della rete: Pettinatura di Verrone, Lanecardate, Italfil, Olcese Ferrari, Tintoria Felli, Finissaggio2000, Maglificio Maggia, Vitale Barberis Canonico, Oscalito, Remmert, Pattern e Holding Moda (raggruppano aziende che nascono come familiari e fanno produzioni virtuose e di nicchia e lavorano per i grandi gruppi del lusso), Quagliotti, L’Opificio e Dinole.

    Economia e sostenibilità

    Da Venezia l’appello per un’industria della moda sostenibile

    di Fiammetta Cupellaro

    02 Novembre 2022

    Casalini sostiene che “lavoriamo su due percorsi paralleli: da un lato vorremmo che tutte le aziende come noi aderissero al progetto così da proteggere, promuovere la filiera tessile italiana e proseguire nel cammino della sostenibilità. Dall’altra puntiamo sulla comunicazione ed educazione del consumatore per modificare le sue abitudini di acquisto in modo da comprare meglio, meno e guardando i valori di filiera che quel capo riveste.

    Moda sostenibile

    La riscoperta dell’usato per l’ambiente e il risparmio: il fenomeno Vinted

    di Fiammetta Cupellaro

    08 Aprile 2023

    Sappiamo molto del food ma poco del tessile. La sostenibilità per noi è un cammino, un percorso da fare, non si può esserlo al 100% perché tutto quello che facciamo ha un impatto. Ogni giorno, però, bisogna impegnarsi per fare un pezzettino in più.” LEGGI TUTTO