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    “Solo proteggendo l’ambiente daremo sicurezza agli sfollati per il clima”

    La sua passione per le questioni ambientali e la gestione degli impatti del cambio climatico è nata con il primo lavoro nel settore della silvicoltura, in Australia. Molto presto però Andrew Harper, oggi consulente speciale per l’azione sul clima dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, si concentra su come affrontare l’emergenza climatica e insieme come assistere al meglio le persone sfollate a causa dei disastri naturali. Abbiamo incontrato Harper a Roma, dove per l’Unhcr ha siglato un accordo con il Cgiar (un insieme di organizzazioni internazionali impegnate nella ricerca sulla sicurezza alimentare) per studi e raccolta di dati utili a costruire e organizzare strutture di accoglienza resistenti al clima, migliorare l’accesso ai servizi di base e rafforzare le capacità di adattamento delle persone costrette alla fuga e delle comunità che le ospitano.

    Una delle emergenze peggiori che ha dovuto affrontare in passato è stata l’organizzazione dei campi profughi in Giordania. Come si fa a mettere in sicurezza le persone nel deserto?

    “”Ogni notte arrivavano dal confine siriano tra le 4 e le 5mila persone e il nostro compito immediato era di provvedere ai loro bisogni primari: coperte, materassini, assistenza sanitaria. Ma bisogna tenere conto che ai rifugiati non viene mai assegnato un territorio ottimale, perché quei terreni sono già presi, o coltivati, quindi si prende quello che c’è, e dobbiamo organizzare la loro vita in un luogo dove le risorse naturali non ci sono. Il campo di Zaatari ospitava oltre centoventimila persone che erano fuggite dai combattimenti e piene di ansia per quello che il futuro avrebbe riservato loro. Verso queste persone avevamo l’obbligo di non garantire soltanto la sopravvivenza, ma di dare loro un senso del futuro. In quel caso abbiamo lavorato con la fondazione Ikea e costruito un impianto solare da 12,9 megawatt che ha portato elettricità pulita ai residenti del campo e ai villaggi vicini. L’elettricità significa consentire ai bambini di avere più ore per fare i compiti, di conservare meglio gli alimenti e migliorare l’illuminazione stradale per mantenere la sicurezza. Non solo, distribuendo l’elettricità oltre il campo abbiamo avviato un processo di integrazione e fornito energia pulita al posto di quella generata da una vecchia centrale a carbone. È un esempio di quel che dovremmo fare sempre di più”.

    In questo caso, il dover accogliere molte persone metteva anche a rischio l’ambiente?”Dove c’è un campo rifugiati c’è sempre uno sfruttamento maggiore delle risorse che crea problemi a tutti. Proprio per questo, se non troviamo soluzioni che salvaguardino l’ambiente, non possiamo aspettarci che le comunità locali proteggano i rifugiati. La protezione dell’ambiente è sempre uno dei fattori chiave dell’aiuto alle persone rifugiate e sfollate. Questo è molto evidente in Chad, uno dei paesi considerati più vulnerabili al mondo dal punto di vista ambientale, dove stanno arrivando centinaia di migliaia di rifugiati dal Sudan. Non possiamo pretendere che questi Paesi accolgano i rifugiati se non ci prendiamo cura del loro ambiente e delle loro risorse: per noi è fondamentale non contare soltanto sul sostegno finanziario, ma trovare partner come agenzie e istituzioni che possano investire in progetti di adattamento climatico”.

    L’intervista

    Discriminazione, razzismo e povertà: l’altra faccia della crisi climatica

    di Cristina Nadotti

    30 Ottobre 2023

    Quanto è complicato trovare investitori?”Incontriamo i maggiori portatori di interesse nei progetti ambientali e nel contrasto al cambio climatico, ma la difficoltà sta nel far cogliere loro l’importanza della protezione delle persone costrette alla fuga nei loro obiettivi, perché fondazioni e banche sono interessate a vedere subito dei risultati. Cerchiamo di usare a nostro favore il fatto che, come UNHCR, siamo presenti in aree dove abbiamo la massima competenza per capire i bisogni dei rifugiati e delle autorità locali e, insieme al Comitato Internazionale della Croce Rossa e a grandi ONG, spingiamo i finanziatori ad interessarsi più alle persone che ai profitti. Non ha senso che le banche per lo sviluppo finanzino operazioni per piantare alberi in Europa o in Canada, i veri bisogni sono altrove, in Kenya, in Somalia, in Mozambico, in Bangladesh”.

    La guerra alle porte dell’Europa, quanto sta accadendo in Ucraina e in Israele, ha rallentato i vostri progetti di adattamento climatico?”Naturalmente la guerra in Ucraina catalizza le attenzioni, ma questo non significa che la vita di qualcuno in Africa debba interessarci di meno, è semplicemente una questione di umanità. C’è chi sta morendo di fame in Africa e di recente il Programma Alimentare Mondiale ha dovuto tagliare le razioni di cibo del 50% in alcune aree, cosa che aumenta le migrazioni. Non possiamo concentrarci così tanto sulle COP e cercare consenso, abbiamo bisogno di azioni immediate”.

    L’intervista

    Angelica De Vito: “Prepariamoci, anche noi potremmo diventare migranti climatici”

    di Giacomo Talignani

    30 Novembre 2023

    Non crede nell’utilità delle Cop?”Siamo già alla COP29, che si terrà a Baku, in Azerbaijan. Il punto è che abbiamo bisogno di concentrarci sui Paesi che subiscono le conseguenze maggiori del cambiamento climatico. I nostri sforzi devono mirare a dare più spazio possibile a chi già vive la crisi climatica, fare in modo che siano protagoniste delle decisioni che vengono prese. Ci sono oltre 114 milioni di persone in fuga nel mondo che, così come le comunità indigene, dovrebbero avere l’opportunità di parlare in prima persona. Questo significa anche ripensare il modo in cui vengono prese le decisioni politiche: non possono avere rappresentanza soltanto gli stati membri, ma anche le comunità. Negli ultimi anni si sono fatti progressi nel dare voce alle popolazioni indigene, ma bisogna impegnarsi perché le persone in fuga possano prendere la parola non solo alle COP, ma in altri vertici”.

    Perché è importante fare differenza tra i rifugiati politici e climatici?

    “Se le persone abbandonano il loro Paese per una guerra, o perché sono perseguitate, significa che sono state oggetto di un attacco e i loro governi non sono stati capaci di proteggerle. Nel caso dei cambiamenti climatici, spesso i governi hanno provato a proteggere le proprie popolazioni, ma si tratta di eventi che vanno oltre i governi e la capacità di adattamento delle comunità. C’è un’enorme differenza in termini di bisogno di protezione internazionale e anche i termini usati per definirli sono importanti. Inoltre, ed è quello che cerchiamo di fare con l’accordo appena siglato con il CGIAR, studi e dati ci aiutano a individuare le aree più vulnerabili per attivarci e cercare strategie di adattamento”.

     

    Come riassumerebbe in questo momento l’azione dell’UNHCR riguardo la crisi climatica?

     “Come accennato, ci impegniamo per limitare gli effetti dei cambiamenti climatici su popolazioni che sono state già sfollate e poi cerchiamo di anticipare quanto può accadere nelle aree vulnerabili, per avviare partnership e azioni per investire nell’adattamento e nella mitigazione. Non possiamo più essere un organismo di risposta alle crisi, dobbiamo fare prevenzione. Mi preoccupa vedere che rispetto alla crisi climatica molti non abbiano ancora colto la gravità della situazione. Non è costruendo muri che fermeremo le persone costrette a migrare per gli effetti del riscaldamento globale e queste persone non sono una minaccia per noi: siamo noi che le stiamo mettendo in pericolo con le nostre politiche non sostenibili. Una trasformazione è indispensabile, perché il riscaldamento globale è irreversibile, le decisioni che prenderemo devono essere globali, è una questione di cittadinanza globale: tutti subiremo le conseguenze, ma dobbiamo occuparci subito di chi sta già perdendo tutto”. LEGGI TUTTO

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    Sciopero globale del clima, i Fridays for Future nelle piazze di tutta Italia: “Riprendiamoci il futuro”

    Torna oggi lo sciopero globale per il clima. In Italia come in tutto il mondo si preparano nuovamente le piazze ecologiste per “protestare contro gli interessi che ostacolano la giustizia climatica e sociale inasprendo o generando instabilità e conflitti”. Quest’anno Fridays For Future scenderà in piazza insieme ai movimenti palestinesi per chiedere anche un cessate il fuoco immediato e permanente nella Striscia di Gaza. “Gli interessi delle lobby fossili continuano a finanziare gli Stati responsabili di guerre, colonialismo e genocidi”, spiega Martina Comparelli, attivista di Fridays For Future Milano. Gli attivisti e le attiviste chiedono quindi “un intervento pubblico massiccio per realizzare la transizione ecologica, creare lavori per il clima e cambiare l’economia, anche in vista prossimo G7 in Puglia, a giugno”.Contemporaneamente, è stato annunciato uno sciopero promosso dal sindacato Sisa (Sindacato indipendente Scuola e Ambiente), per tutto il personale docente, dirigente e ATA, sia di ruolo che precario, sia in Italia che all’estero, per sottolineare, nel settore dell’istruzione, l’urgenza di affrontare le sfide attuali legate alla giustizia climatica e sociale anche nel contesto educativo.Da Torino a Catania, da Brescia a Napoli il movimento climatico chiama così a raccolta tutte le realtà che lottano “per la costruzione di un futuro condiviso e più equo per tutti”. “Abbiamo bisogno di riprenderci il futuro. Di agire per il benessere collettivo, fermando i progetti fossili confermati con il Piano Mattei come il raddoppio del gasdotto Tap, realizzando qui come altrove una transizione a pianificazione democratica” aggiunge Comparelli. 

    Di transizione e Piano Mattei si parlerà anche al prossimo G7 in Puglia, a giugno, ma secondo gli attivisti ambientalisti “gli già insufficienti impegni presi nell’edizione precedente non vedono ancora un riscontro nelle politiche italiane”, come spiega Michele Ghidini, di Fridays For Future Brescia: “Serve una spinta decisa verso l’uscita dal fossile: se vogliamo davvero rimanere i +1.5°C dobbiamo seguire le indicazioni che la scienza ci ha dato già da tempo. L’ultimo rapporto dell’IPCC è chiaro: la transizione deve essere accelerata accompagnandola con misure di riduzione delle disuguaglianze come la cancellazione del debito.”

    Le date di mobilitazione sono annunciate in collaborazione con altre realtà sociali, sindacali e transfemministe, tra le quali il collettivo di fabbrica GKN e Giovani Palestinesi Milano. Come dice Alessandra Pierantoni, attivista di FFF Forlì: “Vogliamo mostrare che un’alternativa è non solo possibile, ma desiderabile. Abbiamo bisogno di un intervento pubblico ora che operi ora e massicciamente per assicurare una transizione equa partendo dai bisogni di base, che coinvolga anche il mondo del lavoro, in modo da creare nuovi posti in tutti i settori necessari e adottare politiche di inclusione economica e sociale. Nessuno/a deve essere lasciato indietro.”

    Roma

    Al grido di “Free free Palestine” e con l’accensione di un fumogeno rosso è partito da piazzale Aldo Moro, davanti all’ingresso della Sapienza, il corteo dei collettivi – liceali e universitari – e delle organizzazioni studentesche che arriverà a piazza della Repubblica per unirsi alla manifestazione di Fridays for Future. “End Fossil End war. Free Palestine”, è scritto sullo striscione in testa. I ragazzi, circa 300, sventolano bandiere della Palestina e dei collettivi. Gi studenti hanno deciso di partire dall’ingresso della città universitaria “dopo i fatti dei giorni scorsi e per mostrare l’unità e la convergenza delle lotte studentesche e cittadine, per la Palestina, la giustizia sociale e quella climatica”, sottolinea Gaia. Intanto, davanti al rettorato dell’ateneo, Francesca e Leonardo di Cambiare Rotta sono ancora incatenati e in sciopero della fame.

    Roma (ansa) LEGGI TUTTO

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    Derby di Milano, vale lo scudetto e sfida il cambiamento climatico

    Lunedì sera a San Siro i giocatori dell’Inter non entreranno in campo solo per vincere il derby e quindi matematicamente lo scudetto, ma anche per lanciare un messaggio importante: la partita del contrasto al cambiamento climatico è fondamentale, dobbiamo giocarla tutti e il calcio deve fare la sua parte. D’intesa con il WWF, che ha promosso la campagna “Il panda siamo noi”, i numeri di ciascun giocatore saranno associati ad una fascetta cucita sulla manica che collega quei numeri all’emergenza che stiamo vivendo: gli Extinction Numbers. Esempio: 1, Sommer: “Abbiamo 1 solo pianeta a disposizione”; 9,  Thuram, “gli ettari di foreste che vengono distrutti ogni minuto”;  10, Lautaro, “il calo medio percentuale della biodiversità negli ultimi 14 anni”; 23, Barella, i miliardi di dollari del commercio illegale di fauna; 20, Çalhano?lu, i decessi in Europa per caldo estremo nel 2022. 

    Dice Alessandra Prampolini, direttore generale del WWF: “La scienza ci dice come rischia di cambiare la nostra vita nei prossimi anni con numeri che descrivono in modo inequivocabile che stiamo compromettendo i nostri sistemi naturali. Siamo felici che l’Inter abbia scelto di mettere a disposizione i numeri delle proprie maglie per comunicare con noi in modo semplice e diretto”. Chiosa Javier Zanetti, storica bandiera nerazzurra e attuale vice presidente del club: “Siamo molto orgogliosi di questa collaborazione che ci permette di fare da cassa di risonanza su un tema molto importante. Il linguaggio dello sport, i suoi valori universali, riescono a favorire il cambiamento ed a raggiungere i cuori di milioni di appassionati. Siamo certi che questo appello non rimarrà inascoltato”.  LEGGI TUTTO

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    Consumo di foreste, energia e acqua: l’impatto ambientale nascosto della carta igienica. Le alternative? Bambù e paglia

    Era il 1850 quando Joseph Gayetty brevettò la prima carta igienica, presentata dai giornali come una “scoperta grandiosa e ineguagliabile”. Da allora molti e molti rotoli sono stati consumati. Secondo la piattaforma Statista, gli Stati Uniti sono oggi al primo posto nel mondo per consumo, con una quota individuale media di 141 rotoli all’anno, pari a 12,7 chili. Al secondo posto si attesta la Germania, con una media di 134 rotoli a testa, equivalenti a 12,1 chili. Segue il Regno Unito, con 127 rotoli, ovvero 11,4 chili. Un prodotto che pare, insomma, andare a ruba, con un fatturato globale che nel 2023 ammontava a 107,4 miliardi di dollari, con una crescita annuale prevista del 5,92%.

    Le fasi della produzione

    La storia di un rotolo inizia nel bel mezzo di una foresta. “Nella produzione viene impiegata una combinazione di legno duro (70%) e legno tenero (30%)”, dice Greg Grishchenko, ingegnere statunitense che ha lavorato per oltre quarant’anni nel settore. Gli addetti scortecciano gli alberi per rimuovere lo strato esterno (corteccia) e riducono i tronchi rimanenti in piccoli pezzi, i trucioli, mescolandoli poi con vari prodotti chimici. Pongono la miscela ottenuta in un fermentatore, una sorta di enorme pentola a pressione, e la lasciano cuocere per circa tre ore: durante la cottura, gran parte dell’umidità del legno evapora, dando origine a un impasto di cellulosa, lignina e altre sostanze. Da questo gli operatori ottengono una fibra malleabile, chiamata polpa o pasta. La sottopongono a un lavaggio multistadio, finalizzato a rimuovere il fluido di scarto, il cosiddetto liquore nero. Inviano poi il prodotto all’impianto di sbiancamento dove, utilizzando ozono, perossido, ossigeno, idrossido di sodio, viene rimosso il colore originario per ottenere una tonalità il più candida possibile. A questo punto, miscelano la polpa (0,5%) con una grande quantità di acqua (99,5%) per ottenere la carta. Quest’ultima viene, quindi, pressata, essicata (fino a un’umidità finale di circa il 5%), raschiata con lame metalliche e avvolta su apposite bobine. “Al termine del processo, la carta può essere testata tenendo conto di vari parametri di qualità, tra cui elasticità, opacità, umidità, levigatezza, colore”, precisa Grishchenko. Se tutto è conforme, gli addetti la tagliano in rotoli, la confezionano in pacchi e la spediscono agli esercizi commerciali.

    WWF

    Giornata delle foreste, in 30 anni persi 178 milioni di ettari di boschi: tre volte la superficie della Francia

    di redazione Green&Blue

    21 Marzo 2024

    Disboscamento e altri problemi

    Un procedimento lungo, quello di produzione della carta igienica, che ha un impatto tutt’altro che zero. Per realizzare un singolo rotolo sono, infatti, necessari circa 680 grammi di legno, proveniente soprattutto dalle piantagioni di eucalipto brasiliane e dalla foresta boreale canadese. Secondo un report realizzato da AidEnvironment, nel 2020 i maggiori esportatori di pasta di legno al mondo sono stati, nell’ordine, Brasile, Canada, Stati Uniti, Indonesia, Cile. Il solo Brasile ha esportato ben 15,6 milioni di tonnellate di pasta: quasi il 48% è finito in Cina, circa il 25% in Europa, circa il 15% negli Stati Uniti e il resto in altri Paesi. A incidere sull’impatto produttivo non è, però, solo la deforestazione, ma anche l’impiego di elettricità, le considerevoli emissioni di acqua, la generazione di rifiuti solidi, l’inquinamento dell’aria.

    Pure la fase di utilizzazione e smaltimento del prodotto non è scevra da conseguenze negative. Uno studio pubblicato nel 2023 dall’American Chemical Society sostiene che la toilet paper è una fonte di sostanze perfluoro alchiliche (Perfluorinated alkylated substances, Pfas) destinate a entrare negli impianti di trattamento delle acque reflue, con molteplici effetti nocivi sulla salute. Altri studiosi sottolineano che tale tipo di carta è uno dei principali inquinanti insolubili rilasciati nei sistemi di trattamento.

    Le alternative green

    A fronte di queste criticità, gli esperti stanno cercando di sviluppare alternative più ecologiche. Tra queste, la principale è la carta riciclata, prodotta a partire da carta bianca o colorata, priva di punti metallici. Quest’ultima viene posta in un dispositivo chiamato pulper, dove viene combinata con acqua. Qui, attraverso pale in rotazione, viene trasformata in un impasto fibroso, sottoposto poi a vagli e risciacqui per rimuovere i rivestimenti e gli inchiostri. Infine, viene igienizzata e leggermente sbiancata.Una ricerca, comparsa nel 2013 sulle pagine di The International Journal of Life Cycle Assessment, ha evidenziato che le emissioni di gas serra derivanti dalla pasta di legno sono più elevate di circa il 30% rispetto a quelle generate dalla carta riciclata. In pratica, per ogni chilo di prodotto finale, la prima emette 568 chili di anidride carbonica in più rispetto alla seconda. Inoltre, secondo l’Environmental Paper Network, la carta igienica ricavata direttamente dagli alberi ha un impatto sul clima tre volte superiore rispetto a quello della carta riciclata.In quest’ottica, anche la toilet paper realizzata a partire dal bambù, dalla canna da zucchero, dalla paglia sta ottenendo riscontri positivi. Per esempio, l’azienda svedese Essity, uno dei maggiori produttori di carta velina al mondo, ha inaugurato nel 2021, presso lo stabilimento di Mannheim, in Germania, un impianto per generare pasta di paglia. Una tecnologia innovativa che, secondo l’impresa, utilizza meno acqua e meno energia nella produzione, con un impatto ambientale inferiore del 20% rispetto a quello della carta realizzata con la tradizionale pasta di legno. LEGGI TUTTO

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    Domani i Fridays For Future tornano in piazza, primo sciopero per il clima del 2024

    I giovani del clima tornano in piazza per chiedere “resistenza”. Quella all'”aumento degli eventi estremi”, ma anche “all’ipocrisia del governo” e soprattutto “alla lobby dei combustibili fossili”. Una sola mobilitazione per una due giorni di sciopero per il clima organizzato da Fridays For Future in decine di piazze italiane il 19 aprile, con eventi previsti anche il 20. “Sono necessarie nuove lotte partigiane per fare una transizione a pianificazione partecipata e combattere gli interessi in campo.  Vogliamo ripartire dalle scuole con comunità energetiche ed efficientamento termico!” scrivono i ragazzi che in questo nuovo sciopero scenderanno in piazza anche “per la Palestina”.

    Scopo della manifestazione è ancora una volta “riprenderci il futuro”, puntualizzano da Fridays For Future, movimento che si batte per la giustizia climatica e contro la discriminazione e le ingiustizie sociali. “Torniamo in piazza – scrivono da FFF – contro gli interessi che ostacolano giustizia climatica e sociale inasprendo o generando instabilità e un conflitto mondiale a pezzi. Inoltre, chiederemo un immediato cessate il fuoco per la Palestina”. Dito puntato anche contro le scelte del governo Meloni. Come ha detto Martina Comparelli, attivista di Fridays For Future Milano, “gli interessi delle lobby fossili continuano a finanziare gli Stati responsabili di guerre, colonialismo e genocidi, come per esempio accade nel caso del Piano Mattei di ENI voluto dal governo Meloni”.In contemporanea, sempre il 19 aprile, ci sarà uno sciopero indetto dal sindacato SISA anche di tutto il personale docente, dirigente e ATA, sia di ruolo che precario, sia in Italia che all’estero. “Questo sciopero rappresenta un’importante mobilitazione nel settore dell’istruzione, sottolineando l’urgenza di affrontare le sfide attuali legate alla giustizia climatica e sociale anche nel contesto educativo” fanno sapere i docenti.

    Longform

    I nuovi ambientalisti

    di Benedetta Barone, Luca Cirese, Giacomo Talignani

    03 Marzo 2023

    Al centro dello sciopero climatico, infine, ci sarà ovviamente anche il tema della transizione ecologica. Per Michele Ghidini, attivista di Fridays For Future Brescia, “serve una spinta decisa verso l’uscita dal fossile: se vogliamo davvero rimanere i +1.5°C dobbiamo seguire le indicazioni che la scienza ci ha dato già da tempo. L’ultimo rapporto dell’Ipcc è chiaro: la transizione deve essere accelerata accompagnandola con misure di riduzione delle disuguaglianze come la cancellazione del debito”. Quello del 19 aprile è il primo sciopero per il clima del 2024 e si svolgerà in tutte le principali piazze italiane (qui l’elenco consultabile).

    Tanti e diversi gli approcci scelti dall'”onda verde” a seconda delle città. A Bari, nella Puglia che ospiterà il G7, una iniziativa dal titolo “Riprendiamoci il futuro!”. A Bergamo una merenda sociale per parlare di ecologia, a Cagliari un “corteo satirico organizzato insieme a Ultima Generazione”. Poi ovviamente i grandi cortei di Roma, Torino e Milano, mentre a Firenze è previsto un presidio sotto il consiglio della Regione Toscana. A Massa lo sciopero prenderà di mira la “cementificazione del parco degli Ulivi”, mentre a Pavia si terrà il 21 aprile un “corteo in bicicletta”, oltre che il consueto sciopero del venerdì. 

    19 e 20 aprile, cortei e iniziative:

    Bari: evento “Riprendiamoci il futuro!” @ Giardino Mimmo Bucci (tutto il giorno 9:30-21:30)
    Bergamo: 19 merenda sociale a tema ecologia con studentx (13.30 parco Suardi)
    Bologna: corteo il 19 alle 16 da parco don Bosco a piazza maggiore
    Brescia: corteo il 19 aprile, Piazzale Arnaldo ore 9
    Cagliari: corteo satirico organizzato insiema a Ultima Generazione Sardinnia il 19 aprile con concentramento in via Roma (Palazzo del Consiglio Regionale) dalle h 16.30
    Camagna Monferrato: ore 12 Belvedere Pio La Torre
    Catania: corteo il 19 Aprile da Piazza Roma ore 9:30
    Chieri: ore 8 davanti al Monti
    Cuneo, piazza Europa ore 10
    Firenze: ore 9:30 presidio sotto il consiglio della regione Toscana via Cavour 2, ore 17:30 critical mass da piazza della santissima Annunziata
    Genova: Piazza De Ferrari ore 10 corteo fino al parco giochi del Porto Antico  
    Gorizia: Piazza della Borsa ore 9
    Imperia: (GL Ventimiglia), manifestazione il 19 aprile, Largo Ghiglia ore 16
    Massa: ore 17, Parco degli Ulivi – sciopero globale e protesta contro cementificazione del parco
    Milano, corteo da Cairoli alle 09.30 il 19 Aprile. 20 Aprile corteo nazionale, ore 15 Palestro M1
    Modena – presidio in Piazza Matteotti 17:00
    Napoli: piazza Garibaldi ore 9:30
    Padova: ore 16:30 critical mass da parco Prandina, ore 18 corteo da palazzo Moroni
    Palermo: Politeama ore 9
    Pavia: corteo in bicicletta domenica 21 aprile alle 15.30 da Piazza della Vittoria verso le elezioni comunali. Il 19 aprile eventi nelle scuole
    Pesaro: corteo con i rappresentanti d’istituto di due scuole ora e luogo da definire
    Pisa: Piazza vittorio emanuele 14.30
    Roma: corteo da piazza della Repubblica ore 9:30
    Torino: corteo da Porta Nuova ore 9.30Trieste, corteo da Piazza della Borsa alle 9
    Trieste: corteo da Piazza della Borsa alle 9
    Venezia: 20 aprile
    Vercelli: ore 10 parco J.F. Kennedy (presidio)
    Vicenza, duomo di Schio, ore 17:30 LEGGI TUTTO

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    Batteri mangia petrolio, spiegato il processo che aiuta i mari in caso di sversamenti

    La Natura a volte è crudele, altre ci dà una mano, soprattutto dove l’uomo combina disastri. Prendiamo, per esempio, l’incidente alla piattaforma Deepwater Horizon, nel Golfo del Messico, avvenuto nel 2010. L’equivalente di oltre tre milioni di barili di petrolio fu disperso in acqua, una catastrofe che sarebbe potuta essere ben peggiore se non ci fossero stati i miliardi di miliardi di microrganismi che hanno banchettato con gli idrocarburi fuoriusciti dal pozzo Macondo. Uno studio del 2018 ha calcolato che tra il 12 e il 25 per cento della fuoriuscita sia stato biodegradato dai batteri che si trovano naturalmente in mare. La biodegradazione è il principale meccanismo di rimozione dall’oceano del petrolio versato dalle attività antropiche. Tra le tecniche per rimediare alla catastrofe, non a caso, è stato utilizzato proprio questo approccio, facilitando con enzimi il proliferare della vita. La matematica e la fisica di tutto questo, le condizioni a cui è favorito il banchetto, erano però ancora nebulose. Un nuovo studio condotto da scienziati dell’Università di Torino e Genova, dell’Okinawa institute of science and technology e dell’Eth di Zurigo ha studiato come la turbolenza tra fluidi immiscibili favorisce la formazione di gocce sempre più piccole, accelerando il processo di biodegradazione.

    Scienza

    Trovati batteri che mangiano petrolio e diesel

    di Marco Tedesco

    22 Agosto 2021

     

    Acqua e petrolio

    Acqua e olio, si sa, non si mescolano. Se lasciati immobili, l’uno galleggia sopra l’altra (l’olio è più leggero dell’acqua) formando strati ben separati. Se invece li si agita, con un cucchiaino per esempio, si crea un’emulsione, una miscela temporanea in cui, più si crea turbolenza, più le gocce di olio disperse in acqua diventano piccole. Con il petrolio in mare accade la stessa cosa, anche acqua e petrolio sono fluidi immiscibili, la loro tensione superficiale impedisce la miscelazione a livello molecolare. Sgorgando dagli abissi, il petrolio deve risalire per chilometri ma siccome non si scioglie in acqua, si produce in forme, spire e volute penetrando il liquido più denso mentre si fa strada verso la superficie. Il processo con cui accade prende il nome di “instabilità di Rayleigh-Taylor” (lo stesso fenomeno che plasma le nuvole a fungo delle eruzioni vulcaniche e di un’esplosione nucleare): una turbolenza la cui dinamica è stata calcolata e spiegata nello studio pubblicato sulla rivista Proceedings of the National academy of sciences.

    Goccioline ‘fast food’

    È questa turbolenza a creare l’emulsione e a favorire migliori condizioni per i batteri che pasteggiano con le gocce di petrolio. I microrganismi aerobici, infatti, non riescono a penetrare all’interno della goccia, ma ne colonizzano la superficie: “La turbolenza aumenta l’interfaccia olio-acqua disponibile per la colonizzazione batterica – si legge nello studio – rompendo la massa di olio in goccioline, la distribuzione delle dimensioni delle goccioline ha un impatto importante sul tasso di incontro con i batteri e quindi, in ultima analisi, sul tasso di degradazione”.

    Il punto

    Petrolio e altri veleni in mare: i peggiori disastri causati dall’uomo

    di Giacomo Talignani

    03 Giugno 2021

    Un fenomeno che si manifesta anche molto più vicino al pelo dell’acqua, infatti “la turbolenza RT può determinare le dimensioni e la distribuzione delle chiazze di petrolio sulla superficie dell’oceano, poiché l’instabilità RT si verifica anche quando le onde rovesciano l’interfaccia olio-acqua. In entrambi i casi, una comprensione affidabile della dinamica dell’interfaccia olio-acqua è fondamentale per prevedere la biodegradazione del petrolio”, aggiungono gli scienziati nel paper.

    La matematica e gli esperimenti

    Fisici ed esperti di fluidodinamica hanno elaborato un modello matematico nel centro di Okinawa e lo hanno messo alla prova nelle simulazioni di laboratorio all’Eth, il Politecnico federale di Zurigo, osservando il processo della compenetrazione dei fluidi separando petrolio (sul fondo) e l’acqua in superficie, e poi rimuovendo la membrana. “Anche se la prima teoria fenomenologica che descrive questo processo di miscelamento è stata derivata molti anni fa, è rimasta sfuggente alla verifica numerica e sperimentale, ostacolando la nostra capacità di prevedere in modo preciso la dinamica in applicazioni come gli sversamenti in acque profonde – osserva Guido Boffetta del dipartimento di Fisica dell’Università di Torino – qui forniamo la prima verifica sperimentale e numerica della teoria della turbolenza immiscibile RT, svelando le proprietà dello stato turbolento che si origina all’interfaccia olio-acqua”.

    Oltre ad avere applicazioni future in molti campi della fisica e dell’ingegneria, i ricercatori hanno messo a punto uno strumento utile per valutare le condizioni in cui si troveranno ad agire colonie di batteri nel caso di futuri sversamenti: “Si dovrebbe prendere in considerazione l’intero processo di emulsionamento che si verifica negli sversamenti in acque profonde o indotto dal ribaltamento ondoso dell’interfaccia olio-acqua in una turbolenza superficiale di RT immiscibile, piuttosto che la sola fase di instabilità iniziale come è stato fatto finora. I tempi di biodegradazione stimati con il primo approccio rispetto al secondo possono portare a tempi di biodegradazione molto diversi e, di conseguenza, a risultati di valutazione dell’impatto ambientale” si legge nelle conclusioni. LEGGI TUTTO

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    Senza interventi di mitigazione il reddito medio si ridurrà del 15 per cento a causa della crisi del clima

    In Italia il reddito medio dei cittadini si ridurrà del 15%, entro il 2050, a causa della crisi del clima. Il riscaldamento globale impatta sulla vita delle persone non solo in termini di salute, ma anche economici: ha effetti rilevanti per la crescita, le rese agricole, il turismo, la produttività del lavoro e le infrastrutture. Con l’aumentare di questi impatti cresceranno anche i rischi generali per l’economia e, a livello mondiale, per via delle emissioni accumulate fino ad oggi e “dell’inerzia socio-economica”, la stessa economia è destinata a “a una riduzione media del reddito del 19% entro il 2050, equivalente a danni per 38.000 miliardi ogni anno. Ad affermarlo, con uno studio pubblicato oggi su Nature, sono alcuni ricercatori del Potsdam Institute for Climate impacts Research (PIK) che analizzando 40 anni di dati e utilizzando modelli innovativi hanno tracciato gli scenari futuri, scoprendo oltretutto e per paradosso che  “i danni economici superano già di sei volte i costi di mitigazione necessari per limitare il riscaldamento globale a 2°C in questo arco di tempo a breve termine”.

    Il vertice

    A Davos si impone la crisi climatica: “Una minaccia esistenziale”

    di Luca Fraioli

    17 Gennaio 2024

    L’analisi permette di osservare anche come il reddito dei singoli Paesi sarà influenzato da qui al 2050: quello italiano si ridurrà appunto del 15%, meno rispetto a Grecia (17%) e Spagna (18%) ma di più rispetto alla Francia (13%). Potremmo evitare questa riduzione? Per gli esperti del Potsdam Institute sì, ma a patto di una azione drastica e immediata, che sarà in grado di limitare le perdite ma forse solo nella seconda metà del secolo. Le variazioni esaminate non riguardano la perdita del PIL globale, ma solo la riduzione media del reddito dei cittadini nel mondo e sono state ottenute tramite un’analisi delle temperature combinate con altre variabili climatiche ed economiche.

    L’intervista

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    Secondo gli esperti, sulla base di dati empirici provenienti da oltre 1.600 regioni di tutto il mondo negli ultimi 40 anni, “si prevedono forti riduzioni del reddito per la maggior parte delle regioni, tra cui il Nord America e l’Europa. L’Asia meridionale e l’Africa saranno le più colpite. Le riduzioni sono causate dall’impatto del cambiamento climatico su vari aspetti rilevanti per la crescita economica, come le rese agricole, la produttività del lavoro o le infrastrutture” ha spiegato Maximilian Kotz, scienziato primo autore dello studio. A livello complessivo i danni annuali globali sono stimati in “38.000 miliardi di dollari, con una probabile forbice tra 19 e 59.000 miliardi di dollari nel 2050”. Danni che derivano principalmente dall’innalzamento delle temperature e dall’intensità (o scarsità) delle precipitazione e lo studio suggerisce che “altri fenomeni meteorologici estremi, come tempeste o incendi, potrebbero farli aumentare ulteriormente”.

    Per Leonie Wenz, scienziata del PIK che ha preso parte allo studio, “la nostra analisi mostra che il cambiamento climatico causerà ingenti danni economici entro i prossimi 25 anni in quasi tutti i Paesi del mondo, anche in quelli altamente sviluppati come Germania, Francia e Stati Uniti. Questi danni a breve termine sono il risultato delle nostre emissioni passate. Avremo bisogno di maggiori sforzi di adattamento se vogliamo evitare almeno alcuni di questi danni. E dobbiamo ridurre drasticamente e immediatamente le nostre emissioni: in caso contrario, le perdite economiche diventeranno ancora più ingenti nella seconda metà del secolo, fino a raggiungere il 60% in media globale entro il 2100. Questo dimostra chiaramente che proteggere il nostro clima è molto più conveniente che non farlo, e questo senza nemmeno considerare gli impatti non economici come la perdita di vite umane o di biodiversità”.

    Il bilancio

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    Se i Paesi più avanzati pagheranno un prezzo in termini di riduzione del reddito, quel prezzo sarà però ancora più alto per i Paesi oggi meno responsabili delle emissioni. Per il coautore dello studio Anders Levermann l’analisi evidenzia infatti “la notevole iniquità degli impatti climatici: troviamo danni quasi ovunque, ma i Paesi dei tropici saranno quelli che soffriranno di più perché sono già più caldi. Un ulteriore aumento della temperatura sarà quindi più dannoso in questi Paesi. Si prevede che i Paesi meno responsabili del cambiamento climatico subiranno una perdita di reddito del 60% superiore a quella dei Paesi a più alto reddito e del 40% superiore a quella dei Paesi a più alte emissioni. Sono anche quelli che hanno meno risorse per adattarsi ai suoi impatti. Spetta a noi decidere: un cambiamento strutturale verso un sistema di energia rinnovabile è necessario per la nostra sicurezza e ci farà risparmiare. Rimanere sulla strada che stiamo percorrendo porterà a conseguenze catastrofiche. La temperatura del Pianeta può essere stabilizzata solo se smettiamo di bruciare petrolio, gas e carbone”. LEGGI TUTTO