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    Batteri mangia petrolio, spiegato il processo che aiuta i mari in caso di sversamenti

    La Natura a volte è crudele, altre ci dà una mano, soprattutto dove l’uomo combina disastri. Prendiamo, per esempio, l’incidente alla piattaforma Deepwater Horizon, nel Golfo del Messico, avvenuto nel 2010. L’equivalente di oltre tre milioni di barili di petrolio fu disperso in acqua, una catastrofe che sarebbe potuta essere ben peggiore se non ci fossero stati i miliardi di miliardi di microrganismi che hanno banchettato con gli idrocarburi fuoriusciti dal pozzo Macondo. Uno studio del 2018 ha calcolato che tra il 12 e il 25 per cento della fuoriuscita sia stato biodegradato dai batteri che si trovano naturalmente in mare. La biodegradazione è il principale meccanismo di rimozione dall’oceano del petrolio versato dalle attività antropiche. Tra le tecniche per rimediare alla catastrofe, non a caso, è stato utilizzato proprio questo approccio, facilitando con enzimi il proliferare della vita. La matematica e la fisica di tutto questo, le condizioni a cui è favorito il banchetto, erano però ancora nebulose. Un nuovo studio condotto da scienziati dell’Università di Torino e Genova, dell’Okinawa institute of science and technology e dell’Eth di Zurigo ha studiato come la turbolenza tra fluidi immiscibili favorisce la formazione di gocce sempre più piccole, accelerando il processo di biodegradazione.

    Scienza

    Trovati batteri che mangiano petrolio e diesel

    di Marco Tedesco

    22 Agosto 2021

     

    Acqua e petrolio

    Acqua e olio, si sa, non si mescolano. Se lasciati immobili, l’uno galleggia sopra l’altra (l’olio è più leggero dell’acqua) formando strati ben separati. Se invece li si agita, con un cucchiaino per esempio, si crea un’emulsione, una miscela temporanea in cui, più si crea turbolenza, più le gocce di olio disperse in acqua diventano piccole. Con il petrolio in mare accade la stessa cosa, anche acqua e petrolio sono fluidi immiscibili, la loro tensione superficiale impedisce la miscelazione a livello molecolare. Sgorgando dagli abissi, il petrolio deve risalire per chilometri ma siccome non si scioglie in acqua, si produce in forme, spire e volute penetrando il liquido più denso mentre si fa strada verso la superficie. Il processo con cui accade prende il nome di “instabilità di Rayleigh-Taylor” (lo stesso fenomeno che plasma le nuvole a fungo delle eruzioni vulcaniche e di un’esplosione nucleare): una turbolenza la cui dinamica è stata calcolata e spiegata nello studio pubblicato sulla rivista Proceedings of the National academy of sciences.

    Goccioline ‘fast food’

    È questa turbolenza a creare l’emulsione e a favorire migliori condizioni per i batteri che pasteggiano con le gocce di petrolio. I microrganismi aerobici, infatti, non riescono a penetrare all’interno della goccia, ma ne colonizzano la superficie: “La turbolenza aumenta l’interfaccia olio-acqua disponibile per la colonizzazione batterica – si legge nello studio – rompendo la massa di olio in goccioline, la distribuzione delle dimensioni delle goccioline ha un impatto importante sul tasso di incontro con i batteri e quindi, in ultima analisi, sul tasso di degradazione”.

    Il punto

    Petrolio e altri veleni in mare: i peggiori disastri causati dall’uomo

    di Giacomo Talignani

    03 Giugno 2021

    Un fenomeno che si manifesta anche molto più vicino al pelo dell’acqua, infatti “la turbolenza RT può determinare le dimensioni e la distribuzione delle chiazze di petrolio sulla superficie dell’oceano, poiché l’instabilità RT si verifica anche quando le onde rovesciano l’interfaccia olio-acqua. In entrambi i casi, una comprensione affidabile della dinamica dell’interfaccia olio-acqua è fondamentale per prevedere la biodegradazione del petrolio”, aggiungono gli scienziati nel paper.

    La matematica e gli esperimenti

    Fisici ed esperti di fluidodinamica hanno elaborato un modello matematico nel centro di Okinawa e lo hanno messo alla prova nelle simulazioni di laboratorio all’Eth, il Politecnico federale di Zurigo, osservando il processo della compenetrazione dei fluidi separando petrolio (sul fondo) e l’acqua in superficie, e poi rimuovendo la membrana. “Anche se la prima teoria fenomenologica che descrive questo processo di miscelamento è stata derivata molti anni fa, è rimasta sfuggente alla verifica numerica e sperimentale, ostacolando la nostra capacità di prevedere in modo preciso la dinamica in applicazioni come gli sversamenti in acque profonde – osserva Guido Boffetta del dipartimento di Fisica dell’Università di Torino – qui forniamo la prima verifica sperimentale e numerica della teoria della turbolenza immiscibile RT, svelando le proprietà dello stato turbolento che si origina all’interfaccia olio-acqua”.

    Oltre ad avere applicazioni future in molti campi della fisica e dell’ingegneria, i ricercatori hanno messo a punto uno strumento utile per valutare le condizioni in cui si troveranno ad agire colonie di batteri nel caso di futuri sversamenti: “Si dovrebbe prendere in considerazione l’intero processo di emulsionamento che si verifica negli sversamenti in acque profonde o indotto dal ribaltamento ondoso dell’interfaccia olio-acqua in una turbolenza superficiale di RT immiscibile, piuttosto che la sola fase di instabilità iniziale come è stato fatto finora. I tempi di biodegradazione stimati con il primo approccio rispetto al secondo possono portare a tempi di biodegradazione molto diversi e, di conseguenza, a risultati di valutazione dell’impatto ambientale” si legge nelle conclusioni. LEGGI TUTTO

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    Senza interventi di mitigazione il reddito medio si ridurrà del 15 per cento a causa della crisi del clima

    In Italia il reddito medio dei cittadini si ridurrà del 15%, entro il 2050, a causa della crisi del clima. Il riscaldamento globale impatta sulla vita delle persone non solo in termini di salute, ma anche economici: ha effetti rilevanti per la crescita, le rese agricole, il turismo, la produttività del lavoro e le infrastrutture. Con l’aumentare di questi impatti cresceranno anche i rischi generali per l’economia e, a livello mondiale, per via delle emissioni accumulate fino ad oggi e “dell’inerzia socio-economica”, la stessa economia è destinata a “a una riduzione media del reddito del 19% entro il 2050, equivalente a danni per 38.000 miliardi ogni anno. Ad affermarlo, con uno studio pubblicato oggi su Nature, sono alcuni ricercatori del Potsdam Institute for Climate impacts Research (PIK) che analizzando 40 anni di dati e utilizzando modelli innovativi hanno tracciato gli scenari futuri, scoprendo oltretutto e per paradosso che  “i danni economici superano già di sei volte i costi di mitigazione necessari per limitare il riscaldamento globale a 2°C in questo arco di tempo a breve termine”.

    Il vertice

    A Davos si impone la crisi climatica: “Una minaccia esistenziale”

    di Luca Fraioli

    17 Gennaio 2024

    L’analisi permette di osservare anche come il reddito dei singoli Paesi sarà influenzato da qui al 2050: quello italiano si ridurrà appunto del 15%, meno rispetto a Grecia (17%) e Spagna (18%) ma di più rispetto alla Francia (13%). Potremmo evitare questa riduzione? Per gli esperti del Potsdam Institute sì, ma a patto di una azione drastica e immediata, che sarà in grado di limitare le perdite ma forse solo nella seconda metà del secolo. Le variazioni esaminate non riguardano la perdita del PIL globale, ma solo la riduzione media del reddito dei cittadini nel mondo e sono state ottenute tramite un’analisi delle temperature combinate con altre variabili climatiche ed economiche.

    L’intervista

    Ineza Umuhoza: “Sul fondo Loss and damage siamo all’inizio. La banca mondiale agisca subito”

    di Fiammetta Cupellaro

    29 Dicembre 2023

    Secondo gli esperti, sulla base di dati empirici provenienti da oltre 1.600 regioni di tutto il mondo negli ultimi 40 anni, “si prevedono forti riduzioni del reddito per la maggior parte delle regioni, tra cui il Nord America e l’Europa. L’Asia meridionale e l’Africa saranno le più colpite. Le riduzioni sono causate dall’impatto del cambiamento climatico su vari aspetti rilevanti per la crescita economica, come le rese agricole, la produttività del lavoro o le infrastrutture” ha spiegato Maximilian Kotz, scienziato primo autore dello studio. A livello complessivo i danni annuali globali sono stimati in “38.000 miliardi di dollari, con una probabile forbice tra 19 e 59.000 miliardi di dollari nel 2050”. Danni che derivano principalmente dall’innalzamento delle temperature e dall’intensità (o scarsità) delle precipitazione e lo studio suggerisce che “altri fenomeni meteorologici estremi, come tempeste o incendi, potrebbero farli aumentare ulteriormente”.

    Per Leonie Wenz, scienziata del PIK che ha preso parte allo studio, “la nostra analisi mostra che il cambiamento climatico causerà ingenti danni economici entro i prossimi 25 anni in quasi tutti i Paesi del mondo, anche in quelli altamente sviluppati come Germania, Francia e Stati Uniti. Questi danni a breve termine sono il risultato delle nostre emissioni passate. Avremo bisogno di maggiori sforzi di adattamento se vogliamo evitare almeno alcuni di questi danni. E dobbiamo ridurre drasticamente e immediatamente le nostre emissioni: in caso contrario, le perdite economiche diventeranno ancora più ingenti nella seconda metà del secolo, fino a raggiungere il 60% in media globale entro il 2100. Questo dimostra chiaramente che proteggere il nostro clima è molto più conveniente che non farlo, e questo senza nemmeno considerare gli impatti non economici come la perdita di vite umane o di biodiversità”.

    Il bilancio

    Cop28, vertice storico ma non basta per fermare la corsa della crisi climatica

    di Luca Fraioli

    16 Dicembre 2023

    Se i Paesi più avanzati pagheranno un prezzo in termini di riduzione del reddito, quel prezzo sarà però ancora più alto per i Paesi oggi meno responsabili delle emissioni. Per il coautore dello studio Anders Levermann l’analisi evidenzia infatti “la notevole iniquità degli impatti climatici: troviamo danni quasi ovunque, ma i Paesi dei tropici saranno quelli che soffriranno di più perché sono già più caldi. Un ulteriore aumento della temperatura sarà quindi più dannoso in questi Paesi. Si prevede che i Paesi meno responsabili del cambiamento climatico subiranno una perdita di reddito del 60% superiore a quella dei Paesi a più alto reddito e del 40% superiore a quella dei Paesi a più alte emissioni. Sono anche quelli che hanno meno risorse per adattarsi ai suoi impatti. Spetta a noi decidere: un cambiamento strutturale verso un sistema di energia rinnovabile è necessario per la nostra sicurezza e ci farà risparmiare. Rimanere sulla strada che stiamo percorrendo porterà a conseguenze catastrofiche. La temperatura del Pianeta può essere stabilizzata solo se smettiamo di bruciare petrolio, gas e carbone”. LEGGI TUTTO

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    Come si formano i tornado nella Pianura Padana: la dinamica del “punto triplo”

    I tornado sul Nord Italia si formano spesso in corrispondenza di un “punto triplo”, cioè alla confluenza di tre masse d’aria provenienti da direzioni diverse e con caratteristiche differenti, come masse d’aria umida, secca e più fredda. È quanto ha messo in luce uno studio condotto dall’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac), in collaborazione con le Università di Bologna, Bari e Milano.

    (Cnr-Isac)  LEGGI TUTTO

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    Bonus per tende da sole, pergole e vetrate: la guida

    Ancora pochi mesi per approfittare dei bonus per le schermature solari e per le vetrate panoramiche per riparare la casa dal sole e rendere più vivibili gli spazi aperti. Scade infatti a fine anno la detrazione fiscale che agevola l’acquisto di tende, pergole e gazebo destinate a ridurre l’insolazione della casa e i consumi in bolletta.Per avere l’agevolazione  è sempre obbligatorio installare prodotti che rispettano i requisiti di legge su materiali e capacità di protezione dai raggi solari. La detrazione è pari al 50% della spesa, da recuperare a rate in dieci anni nell’ambito dell’ecobonus gestito dall’Enea. Agevolazione ad hoc per le vetrate.

    Fisco verde

    Bonus infissi 2024: come funziona e quanto si risparmia

    di Antonella Donati

    07 Febbraio 2024

    Le regole dell’Enea

    Lo scopo del bonus è quello di ridurre il calore interno dell’appartamento sfruttando strutture che riescono a filtrare la luce del sole. Rientrano quindi nel bonus:

    tende da sole a telo avvolgibile;
    tende a rullo;
    tende a lamelle orientabili (veneziane);
    tende frangisole a copertura di pergole agganciate all’abitazione.

    Per ottenere l’agevolazione fiscale non si deve trattare però delle tende che si possono acquistare e montare liberamente ma solo di prodotti certificati a questo scopo. Inoltre occorre seguire le regole appositamente dettate dall’Enea.

     

    Solo strutture tecniche

    Il bonus è ammesso solo per le installazioni a protezione di una superficie vetrata, mobili e “tecniche”, vale a dire diverse da semplici elementi di arredo, con la marcatura CE e l’indicazione della relativa regola tecnica di riferimento.  

    Il bonus è previsto anche per le diverse soluzioni che si possono installare per riparare i terrazzi dal sole e, in questo caso, creare un spazio vivibile in più. Rientrano infatti tra le strutture ammesse alla detrazione anche quelle realizzate come vere e proprie pergole, purché siano agganciate alla facciata, dal momento che la finalità di base di riparare le vetrate dal sole deve essere sempre garantita, e la copertura deve essere sempre regolabile. Inoltre nel caso di realizzazioni di pergole occorre rispettare le regole previste a livello comunale, relativamente alle dimensioni massime che possono avere per evitare qualunque contenzioso. 

    Fisco verde

    Fotovoltaico, come chiedere il bonus per i gruppi di autoconsumo

    di Antonella Donati

    03 Aprile 2024

    Chiusure oscuranti per tutte le stagioni

    Infine, sempre nell’ambito dell’ecobonus, c’è anche la possibilità di installare chiusure oscuranti a patto che rispettino i valori di trasmittanza termica richiesti dall’Enea. Le chiusure oscuranti comprendono scuri e persiane, ma anche veneziane e tapparelle. Possono essere godere dell’agevolazione fiscale anche la zanzariere, a patto che presentino i requisiti richiesti. Le chiusure oscuranti, infatti, debbono essere in grado di proteggere la casa dal sole, ma anche di evitare gli sbalzi di temperatura tra interno ed esterno durante l’intero arco dell’anno. 

    Asseverazioni e pagamenti

    Per avere il bonus per le tende solari occorre che i requisiti tecnici siano attestati dalla scheda del produttore e asseverati dall’installatore. Per la detrazione è necessario pagare con il bonifico dedicato all’ecobonus e caricare i dati di fattura, pagamenti e asseverazioni sul sito dell’Enea. 

    Economia

    Risparmio sulle bollette e bonus mirati, così si finanziano le “case green”

    di Luca Fraioli

    17 Aprile 2024

    Bonus anche per le vetrate panoramiche

    Infine per chi realizza una struttura ombreggiante, purché agganciata al muro, c’è anche la possibilità di ottenere il bonus per le vetrate panoramiche a chiusura della struttura in modo da renderla vivibile tutto l’anno. Rientrano in questa categoria le chiusure realizzare con vetrate che si chiudono a libretto, che possono essere installate anche a protezione dei balconi. In questo caso si tratta di un bonus ad hoc che può essere riconosciuto, però, solo se i vetri, oltre ad essere sempre amovibili, sono anche certificati come antisfondamento. LEGGI TUTTO

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    Risparmio sulle bollette e bonus mirati, così si finanziano le “case green”

    Chi tirerà fuori i soldi per le case green che “ci chiede l’Europa”? Il dibattito è aperto da quando venerdì scorso l’Ecofin ha approvato il provvedimento proposto dalla Commissione Ue. E anche da fronti che non ti aspetti arrivano critiche che suonano come un de profundis: il governo Meloni avrà gioco facile a disattendere le richieste europee in fatto di efficientamento energetico del patrimonio edilizio nazionale. Il ragionamento è questo: se il superbonus del 110% è costato allo Stato quasi 130 miliardi di euro e ha inciso su una piccolissima percentuale di abitazioni, come è possibile immaginare una operazione che coinvolga tutte le case italiane, quando i fondi europei sono pochi e l’Italia brilla per non saperli spendere, le casse dello Stato sono vuote, i singoli cittadini nella maggior parte dei casi non vorranno accollarsi l’onere economico dell’efficientamento energetico? Il provvedimento, passato con il voto favorevole di tutti i ministri economici europei, fatta eccezione per l’italiano Giorgetti e il suo collega ungherese, non obbliga i cittadini del vecchio continente a ristrutturare le loro abitazioni. Chiede piuttosto ai singoli governi di calcolare il consumo energetico medio dell’intero patrimonio immobiliare e di definire un piano da qui al 2050 per ridurre progressivamente tale consumo, fino ad avere emissioni zero, ma con una tappa intermedia al 2030 (-16%). E suggerisce possibili vie da intraprendere per raggiungere tale obiettivo. Tra l’altro il testo a cui venerdì scorso ha votato no Giorgetti era stato rivendicato come un successo italiano dal ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin, che era riuscito a fare escludere gli edifici storici.

    Resta comunque la domanda: chi ci metterà i soldi? “Gli stessi che altrimenti pagheranno, oltre a bollette energetiche vertiginose, anche sempre di più per riparare i danni delle catastrofi naturali legate a clima: i contribuenti”, risponde il presidente nazionale di Legambiente Stefano Ciafani. “Nell’ultimo anno due eventi, l’alluvione in Romagna e quello più recente in Toscana, costeranno alla collettività 12 miliardi di euro, la metà della legge di bilancio del 2023, vale a dire centinaia e centinaia di euro per ogni singolo contribuente italiano. E stiamo parlando solo di due episodi. Se non faremo nulla, la scienza ci dice che aumenteranno e che dovremo spendere sempre di più in termini di perdite e danni”.La conferma, a livello planetario, arriva oggi da un attesissimo studio pubblicato su Nature e realizzato dall’Istituto di Potsdam per le ricerche sugli impatti dei cambiamenti climatici, diretto da uno degli scienziati più celebri in questo campo, Johan Rockström.

    Economia

    Case green dal 2030, cosa prevede la direttiva Ue per l’efficienza energetica

    di redazione Green&Blue

    12 Marzo 2024

    Ma, anche senza dover evocare i costi degli eventi meteo estremi, c’è una convenienza per i contributi legata al risparmio per le bollette. “Se parliamo di costi energetici, negli ultimi due anni il governo ha dovuto sborsare 80 miliardi di aiuti per le famiglie e le imprese a causa della crisi del gas. Quanto avremmo potuto risparmiare se prima avessimo investito in efficienza energetica?”, si chiede Francesca Andreolli, ricercatrice senior di Ecco, il think tank italiano per il clima. “Una casa in fascia energetica A costa in termini di bollette 10 volte meno di una in fascia G, lo dice l’Enea. E sul mercato immobiliare ha un valore del 40% più alto. A ben guardare, non è l’Unione europea a chiederci di investire nell’ammodernamento del nostro patrimonio edilizio, quanto proprio il mercato”.

    Resta il problema dei soldi e lo spauracchio del superbonus. “Il 110% non è il modello migliore da cui partire”, spiega Andreolli, “visti i fenomeni speculativi che lo hanno caratterizzato”. Sulla stessa linea Ciafani: “Se usiamo le stesse regole del superbonus è chiaro che le case green non ce le possiamo permettere. Gli aiuti pubblici vanno differenziati in base al reddito. Per una volta sono d’accordo con il ministro Pichetto Fratin, che in una recente intervista, a commento del provvedimento sulle case green, ha detto cose che mi sento di sottoscrivere, per aiutare i privati mettendo in sicurezza i conti pubblici. Ha infatti parlato di ‘strumenti fiscali per contribuenti che hanno redditi elevati, quindi una detrazione con aliquota da definire’, mentre per chi ha redditi bassi si può pensare a un contributo diretto dello Stato. Per non ripetere gli errori del 110% vanno privilegiate le prime case e non le villette al mare in cui si vive un mese all’anno, e si deve investire in tecnologie che davvero contribuiscono all’efficientamento energetico e quindi alla decarbonizzazione. Insomma piccolissimi aiuti a chi la ristrutturazione se la può permettere anche da solo, e incentivi alle pompe di calore invece che alle caldaie a gas”. LEGGI TUTTO

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    La biodiversità fa stare meglio: così la salute mentale ne beneficia

    Immaginate di dover descrivere i luoghi che vi trovate ad attraversare. Ci sono dei parchi? Degli alberi? Sono tutti uguali questi alberi? C’è magari anche uno specchio d’acqua nelle vicinanze? E i fiori? Qualche stradina sterrata? Considerate poi come vi sentite in quel momento. E ripetete l’esercizio diverse volte al giorno. Avrete così realizzato il setting di un esperimento, quello che è servito ad alcuni ricercatori per capire che più abitiamo posti ricchi di biodiversità meglio ci sentiamo. Un nuovo sottocapitolo della ricerca che ormai da anni dimostra come abitare o frequentare la natura produca dei benefici sul benessere delle persone, appena pubblicato sulle pagine di Scientific Reports.

    Le idee

    Le città hanno bisogno di più alberi, ma con un piano per il clima

    di Cristina Nadotti

    17 Novembre 2023

    L’esercizio in questione è stato svolto su un totale di circa 2000 partecipanti che hanno preso parte a uno studio condotto dai ricercatori del King’s College London grazie all’aiuto di una app per smartphone (Urban Mind) messa a punto proprio nel college, in collaborazione con architetti ed esperti di arte. La app consente di mappare l’esperienza delle persone mentre si muovono in spazi diversi, chiedendo appunto (tre volte al giorno) di descriverli (come sopra) e di registrare anche i loro stati d’animo (quanto si sentissero tristi, soli, rilassati o felici per esempio), per un paio di settimane. Oltre questo ai partecipanti veniva chiesto anche di registrare audio o scattare foto dei posti in cui si trovavano, nell’intento di invogliarli a partecipare, raccontano gli scienziati.Anche se si trattava infatti di sole due settimane, non è scontata l’aderenza allo studio, tutt’altro: in effetti solo una piccola parte dei duemila partecipanti inclusi nelle analisi finali aveva completato buona parte delle valutazioni attese (duemila sono stati quelli che avevano completato almeno un quarto di quelle previste). “Per quanto ne sappiamo, il nostro è il primo studio a indagare l’impatto della diversità degli ambienti naturali sul benessere mentale delle persone durante le loro attività quotidiane”, si legge nel paper.

    Tutorial

    L’ecogiardino urbano cresce nel condominio: la guida

    di Gaetano Zoccali

    16 Settembre 2023

    Questa prima volta ha consentito agli autori di confermare in parte quanto già noto – l’associazione positiva tra ambienti naturali e benessere mentale – ma anche di aggiungere qualcosina in più. Parliamo sempre di correlazioni, ma a fare bene – almeno analizzando le risposte date dai partecipanti – era sì la natura, ma soprattutto quella più ricca, in termini di biodiversità. Questo benessere accompagnava le persone anche nelle ore a seguire, almeno otto, spiegano gli autori.Pur con tutti i limiti dello studio – il campione analizzato è giovane, generalmente con un elevato livello di istruzione e le misure di biodiversità non sono per così dire “scientifiche” ma approssimative – il messaggio che lancia la ricerca è chiaro, a detta degli autori, soprattutto in ottica di sviluppo urbanistico. “Il nostro studio – concludono gli autori – evidenzia l’importanza di considerare sia l’accessibilità degli ambienti naturali che la ricchezza di biodiversità al loro interno nel progettare spazi finalizzati al miglioramento della salute mentale”. Bilanciando, ovviamente, esigenze diverse: quelle di ambienti funzionali, confortevoli e sani, evitando cioè che hotspot di biodiversità cittadina diventino fonte di malattie, per esempio. LEGGI TUTTO

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    La fine di El Niño è arrivata. Ci darà un’estate meno calda? Se non succede abbiamo un problema

    El Niño sta finendo. Anzi, per l’ufficio meteorologico australiano è “già finito”, mentre per il Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration) statunitense “si sta indebolendo”. Come sappiamo dai dati appena pubblicati da Copernicus climaticamente parlando gli ultimi dieci mesi – i più caldi di sempre e consecutivi, in grado di battere tutti i record precedenti – sono stati un vero e proprio incubo per il Pianeta. Il motivo principale dell’innalzamento delle temperature, con conseguenze drammatiche a livello di fenomeni meteo intensi, è da ricercarsi nella combinazione fra la crisi climatica innescata dall’uomo e il fenomeno naturale di El Niño .

    Meteo, è stato il mese di marzo più caldo mai registrato: superato il record del 2016

    09 Aprile 2024

    Questo fenomeno, anche noto come ENSO, è periodico e provoca in generale un forte riscaldamento delle acque superficiali del Pacifico centro meridionale innescando un cambiamento della circolazione e una serie di condizioni, dalle ondate di calore alla siccità, dalle inondazioni sino all’aumento delle temperature, che impattano profondamente sulla vita della Terra. Dopo alcuni anni del suo fenomeno opposto, La Niña – che tende al raffreddamento (a seconda delle zone) – la scorsa estate gli scienziati avevano annunciato il ritorno di El Niño prevedendo la durata di circa un anno. Un anno in cui il fenomeno ha contribuito a pesantissime siccità (dall’America all’Africa passando per l’Europa) e record di calore superati uno dietro l’altro.

    L’intervista

    “L’Europa tra 50 anni sarà bollente e ancora più fragile, dobbiamo adattarci”

    di Matteo Marini

    08 Settembre 2023

    Ora però la maggior parte degli scienziati concorda su una netta fase di indebolimento, dopo il picco raggiunto a dicembre e gennaio, e nelle prossime settimane si entrerà in una fase neutra. Poi, a partire da agosto circa, dovrebbe subentrare La Niña e ci si attende un generale abbassamento dellle temperature, anche se non è affatto per scontato dato che negli anni precedenti a El Niño, quando c’era appunto il suo opposto, non c’è stato quel contenimento termico che ci si poteva aspettare.

     “Il fatto che stia finendo è noto – commenta Antonello Pasini, fisico del clima del Cnr – e da agosto dovrebbe, dopo una fase neutrale, iniziare La Niña, anche se per esempio gli australiani sono ancora dubbiosi e indicano un possibile perdurare della fase neutrale”. L’ufficio meteorologico dell’emisfero sud sostiene a suo dire che non ci siano certezze sulla formazione de La Niña entro fine anno o prima, come previsto invece per esempio dal Noaa.

    Crisi climatica

    El Niño, gli effetti che preoccupano gli scienziati: eventi meteorologici estremi e temperature record

    di Matteo Marini

    15 Giugno 2023

    Per l’Australia i segnali forniti dalla superficie del mare e altri indicatori oceanici mostrano che “ENSO resterà neutrale sino a luglio 2024” e non è chiaro quando subentrerà La Niña mentre per gli statunitensi c’è “una probabilità dell’85% che El Niño finisca e che il Pacifico tropicale passi a condizioni neutre entro il periodo aprile-giugno. C’è  poi una probabilità del 60% che La Niña si sviluppi entro giugno-agosto. Continuiamo ad aspettarci La Niña per l’autunno e l’inizio dell’inverno nell’emisfero settentrionale (circa l’85% di probabilità)” scrivono gli americani.

    L’alternarsi delle due fasi è estremamente importante per le vite, l’economia e l’agricoltura globale, sebbene in Europa gli effetti di questo passaggio siano meno diretti. Con El Niño, ricorda Pasini, “si verificano siccità, ondate di calore in Australia e precipitazioni intense per esempio in America meridionale. Con La Niña ci si aspetta maggiore umidità e alluvioni in Australia o in certe zone dell’Asia. In generale a livello globale il passaggio a La Niña dovrebbe portare a un abbassamento delle temperature nel mondo. Il dovrebbe è d’obbligo però perché negli ultimi anni, fra i più caldi di sempre, La Niña c’è stata (in precedenza per oltre due anni, ndr) ma le temperature sono risultate comunque elevate. Quello in arrivo sarà dunque un banco di prova, anche perché attualmente ci sono molte cose che non tornano e che dobbiamo capire”.

     Il riferimento è agli ultimi dieci mesi risultati estremamente bollenti a livello globale, con un trend del riscaldamento che sembra addirittura accelerato rispetto alle previsioni. “Quello che sappiamo di certo come scienziati è che il surriscaldamento globale di origine antropica e El Niño insieme hanno contribuito a questi nuovi record, ma ci sono anche altri aspetti ancora molto dibattuti nella comunità scientifica. Per esempio ci sono fattori come il surriscaldamento in Europa che potrebbe essere dovuto anche alla sottostima degli effetti di alcune leggi ambientali passate, come quelle che hanno portato a dire addio e a combattere le polveri raffreddanti, come i solfati e quei combustibili pieni di zolfo. Queste leggi attuate anni fa, che hanno tutelato in maniera importante la salute degli europei, potrebbero nel tempo aver favorito il brightening, cioè il fatto che la luce solare – senza più strati inquinanti – penetri più profondamente arrivando tutta sino al suolo che si riscalda di più riscaldando a sua volta l’atmosfera. Prima questo stato di inquinanti, nei bassi strati, in qualche modo la rifletteva all’indietro non permettendo che tutta arrivasse. Ora però le cose potrebbero essere cambiate”. Un altro fattore potrebbe essere legato all’eruzione dell’Hunga Tonga nel 2022: “Studi indicano la possibilità che il vulcano, avendo emesso molto vapore acqueo, che di fatto è un gas serra, possa aver influito”.

     Secondo Pasini, se uniamo tutti questi fattori, dagli impatti di El Niño alla crisi climatica in corso sino potenzialmente agli effetti del vulcano o delle leggi, allora “in parte è comprensibile l’eccezionalità del riscaldamento degli ultimi 10 mesi, anche se secondo me potrebbero esserci altri aspetti, sfuggiti, da capire. Sicuramente, con l’arrivo de La Niña, sarà importante osservare i cambiamenti: se le temperature non dovessero abbassarsi, sarebbe un bel problema” spiega.

    In attesa di comprendere come e se la formazione de La Niña potrà cambiare gli equilibri globali, il ricercatore del Cnr spiega che negli ultimi mesi un aspetto preoccupante è il fatto che “i mari si siano riscaldati molto, in particolare l’oceano Atlantico a livello tropicale. Gli oceani hanno una capacità termica alta, fanno fatica a riscaldarsi velocemente, e allora perché si è verificato tutto questo riscaldamento marino? Abbiamo innescato qualche feedback finora non considerato? Credo sia molto importante indagare: se il surriscaldamento assurdo degli ultimi dieci mesi dovesse in qualche modo stopparsi un po’ con l’addio a El Niño, allora molto probabilmente le cause sono da ricercarsi proprio in quel fenomeno iniziato un anno fa. Ma se non dovessero iniziare ad abbassarsi le temperature allora dovremmo davvero preoccuparci. Personalmente, credo e spero di non essere arrivati a un tipping point, una sorta di soglia in cui il surriscaldamento accelera a tal punto da essere estremamente complesso poter tornare indietro. Altrimenti sarebbero guai”. LEGGI TUTTO

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    Nucleare, italiani favorevoli ma solo a quello di ultima generazione. Ma i problemi tecnici ed economici sono ancora tanti

    “Oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole all’implementazione delle nuove tecnologie nucleari in Italia”. E’ questo il punto cruciale del sondaggio Swg e presentato a Pavia nel corso della giornata, organizzata da iWeek, dedicata a “Il nucleare italiano nella sfida al cambiamento climatico”. I fautori di un ritorno all’uso dell’energia atomica nel nostro Paese stanno in effetti tagliando il primo, fondamentale, traguardo: riaccendere il dibattito, trasformare il nucleare da tabù a possibilità concreta, fino ha creare un consenso diffuso nell’opinione pubblica. I sondaggi degli ultimi mesi, come conferma quello di ieri, dimostrano che il lavoro della lobby atomica e dei partiti dell’attuale maggioranza di governo (in Parlamento è passata mesi fa una mozione che sollecitava l’esecutivo in tal senso e che dava al ministro Pichetto Fratin il via libera per riaprire un tavolo tecnico) sta in effetti dando i suoi frutti: cresce la percentuale di intervistati che si dice favorevole al nucleare.

    L’incontro

    Meloni incontra Grossi (Iaea) per i piani del governo su energia e fusione nucleare

    di Luca Fraioli

    18 Ottobre 2023

    In particolare, secondo Swg-iWeeK, il 57% sarebbe favorevole già all’implementazione di reattori dell’attuale generazione (3+), il 61% a quelli di quarta generazione, il 61% ai piccoli reattori modulari, il 60% ai microreattori. Non è però del tutto debellata la sindrome NIMBY, non nel mio giardino. Resiste nella forma: nel mio giardino, ma solo se è un nucleare piccolo piccolo. Le grandi centrali atomiche tradizionali le accetterebbero in un raggio di 20 chilometri da casa solo il 36% degli intervistati, mentre il 59% darebbe il suo ok se fossero costruite ad almeno 500 chilometri di distanza. I microreattori, invece, andrebbero bene anche a 20 chilometri per il 44% degli italiani e per il 64% se fossero ad almeno 500 chilometri. Sono comunque buone notizie per i tecnici e le imprese italiane che lavorano nel settore. Che sanno però di dover lavorare ancora molto prima di conquistare il sì definitivo dell’opinione pubblica.

    Sul banco degli imputati, come spesso accade, l’informazione, colpevole di aver demonizzato in Italia il nucleare a uso civile, condannando, questa è la tesi, il nostro Paese a una arretratezza tecnologico-energetica che ora rischiamo di pagare cara, tra crisi del gas e crisi climatica. Naturalmente la comunicazione gioca un ruolo cruciale nella  formazione dell’opinione pubblica, ma la situazione è ben più complessa di così. E lo si è visto proprio nella giornata di ieri. C’è infatti il rischio di passare da una informazione pregiudizialmente contraria al nucleare a una iperottimistica, dove tutto è fattibile. Anche il sondaggio presentato tradisce questo rischio di disinformazione al contrario. Il 64% degli intervistati ritiene già disponibili i grandi reattori di terza e quarta generazione: ma di quarta generazione ce n’è in attività solo uno in Cina. Il 68% ritiene già disponibili gli small modular reactors: in realtà esistono una ottantina di progetti diversi e alcuni prototipi sono in fase di costruzione. Il 56% ritiene già disponibili i microreattori: ma il primo prototipo è in costruzione e dovrebbe essere acceso nel 2028. D’altra parte sono gli stessi cittadini ad ammettere di saperne poco: solo 1 su 3 si ritiene informato sul nucleare e 3 su 4 chiedono un surplus di informazioni.

    Energia

    In Usa si studiano gli scenari possibili se si spegnessero tutte le centrali nucleari

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    19 Aprile 2023

    Che il nucleare sia una opzione per la decarbonizzazione da qui al 2050 lo sostengono in tanti, dall’Agenzia internazionale per l’energia, a Greta Thunberg, al gruppo di Paesi, guidati dagli Usa, che alla Cop28 di Dubai hanno auspicato la triplicazione della produzione di energia atomica. Giusto dunque che la ricerca continui, anche in Italia, comunicando con trasparenza i progressi fatti (e ce ne sono tanti), ma anche gli ostacoli e i tempi realistici per l’implementazione delle nuove tecnologie. Nel panel dedicato agli aspetti tecnici, il vicepresidente esecutivo di Edison Lorenzo Mottura ha per esempio indicato il decennio 2030-2040 come finestra in cui realizzare in Italia le prime centrali alimentate da small modular reactors. Ma un nuclearista convinto come Massimo Morichi, molti anni nel colosso francese Areva e oggi senior scientific advisor di Transmutex, ha fatto notare che se davvero ci fosse la “triplicazione” auspicata a Dubai non ci sarebbe abbastanza uranio per tutti e il prezzo del combustibile fissile sarebbe destinato inevitabilmente ad andare alle stelle.

    “E’ un problema”, ha ammesso Riccardo De Salvo, direttore tecnico della Ultra Safe Nuclear Corporation Italia: “A regime, noi contiamo di produrre un micoreattore al giorno. Vuol dire che ogni giorno avremo bisogno di una tonnellata di uranio”. Ed ecco allora che ci si ingegna per trovare soluzioni alternative: la stessa Transmutex, che progetta di utilizzare un acceleratore di particelle per innescare la fissione nucleare, propone di usare il torio come combustibile. La Ultra Safe Nuclear Corporation spiega che i suoi microreattori potranno essere alimentati anche con il mox: una miscela di uranio impoverito, prodotto di scarto dei processi di arricchimento dell’uranio, e di plutonio, che si può estrarre dal riprocessamento del combustibile nucleare esaurito dai reattori convenzionali. Solo per dare un’idea della complessità dei temi sui quali si confrontano i massimi esperti di energia nucleare. Per venirne a capo servono ricerca, grandi investimenti e tempo.

    E’ bene che l’opinione pubblica lo sappia. Dovrebbe già saperlo, invece, chi ricopre ruoli di responsabilità di governo. Ieri, all’incontro di Pavia, il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini ha ribadito il sì al ritorno del nucleare in Italia, si è spinto a proporre una raccolta di firme per un referendum in tal senso, ed ha auspicato l’accensione della prima centrale nel 2032. A che tipo di centrale si riferiva? Difficile che parlasse di SMR o di microreattori, visto che per la loro industrializzazione pochi anni potrebbero non bastare. Dunque grandi centrali tradizionali come quelle francesi? Ma il suo collega di governo, il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Pichetto Fratin lo aveva escluso categoricamente a dicembre scorso, nel pieno di Cop28. “Dichiarazioni da campagna elettorale”, si dirà. Ma non è così che si aiuta l’opinione pubblica a capire davvero. LEGGI TUTTO