16 Aprile 2024

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    La fine di El Niño è arrivata. Ci darà un’estate meno calda? Se non succede abbiamo un problema

    El Niño sta finendo. Anzi, per l’ufficio meteorologico australiano è “già finito”, mentre per il Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration) statunitense “si sta indebolendo”. Come sappiamo dai dati appena pubblicati da Copernicus climaticamente parlando gli ultimi dieci mesi – i più caldi di sempre e consecutivi, in grado di battere tutti i record precedenti – sono stati un vero e proprio incubo per il Pianeta. Il motivo principale dell’innalzamento delle temperature, con conseguenze drammatiche a livello di fenomeni meteo intensi, è da ricercarsi nella combinazione fra la crisi climatica innescata dall’uomo e il fenomeno naturale di El Niño .

    Meteo, è stato il mese di marzo più caldo mai registrato: superato il record del 2016

    09 Aprile 2024

    Questo fenomeno, anche noto come ENSO, è periodico e provoca in generale un forte riscaldamento delle acque superficiali del Pacifico centro meridionale innescando un cambiamento della circolazione e una serie di condizioni, dalle ondate di calore alla siccità, dalle inondazioni sino all’aumento delle temperature, che impattano profondamente sulla vita della Terra. Dopo alcuni anni del suo fenomeno opposto, La Niña – che tende al raffreddamento (a seconda delle zone) – la scorsa estate gli scienziati avevano annunciato il ritorno di El Niño prevedendo la durata di circa un anno. Un anno in cui il fenomeno ha contribuito a pesantissime siccità (dall’America all’Africa passando per l’Europa) e record di calore superati uno dietro l’altro.

    L’intervista

    “L’Europa tra 50 anni sarà bollente e ancora più fragile, dobbiamo adattarci”

    di Matteo Marini

    08 Settembre 2023

    Ora però la maggior parte degli scienziati concorda su una netta fase di indebolimento, dopo il picco raggiunto a dicembre e gennaio, e nelle prossime settimane si entrerà in una fase neutra. Poi, a partire da agosto circa, dovrebbe subentrare La Niña e ci si attende un generale abbassamento dellle temperature, anche se non è affatto per scontato dato che negli anni precedenti a El Niño, quando c’era appunto il suo opposto, non c’è stato quel contenimento termico che ci si poteva aspettare.

     “Il fatto che stia finendo è noto – commenta Antonello Pasini, fisico del clima del Cnr – e da agosto dovrebbe, dopo una fase neutrale, iniziare La Niña, anche se per esempio gli australiani sono ancora dubbiosi e indicano un possibile perdurare della fase neutrale”. L’ufficio meteorologico dell’emisfero sud sostiene a suo dire che non ci siano certezze sulla formazione de La Niña entro fine anno o prima, come previsto invece per esempio dal Noaa.

    Crisi climatica

    El Niño, gli effetti che preoccupano gli scienziati: eventi meteorologici estremi e temperature record

    di Matteo Marini

    15 Giugno 2023

    Per l’Australia i segnali forniti dalla superficie del mare e altri indicatori oceanici mostrano che “ENSO resterà neutrale sino a luglio 2024” e non è chiaro quando subentrerà La Niña mentre per gli statunitensi c’è “una probabilità dell’85% che El Niño finisca e che il Pacifico tropicale passi a condizioni neutre entro il periodo aprile-giugno. C’è  poi una probabilità del 60% che La Niña si sviluppi entro giugno-agosto. Continuiamo ad aspettarci La Niña per l’autunno e l’inizio dell’inverno nell’emisfero settentrionale (circa l’85% di probabilità)” scrivono gli americani.

    L’alternarsi delle due fasi è estremamente importante per le vite, l’economia e l’agricoltura globale, sebbene in Europa gli effetti di questo passaggio siano meno diretti. Con El Niño, ricorda Pasini, “si verificano siccità, ondate di calore in Australia e precipitazioni intense per esempio in America meridionale. Con La Niña ci si aspetta maggiore umidità e alluvioni in Australia o in certe zone dell’Asia. In generale a livello globale il passaggio a La Niña dovrebbe portare a un abbassamento delle temperature nel mondo. Il dovrebbe è d’obbligo però perché negli ultimi anni, fra i più caldi di sempre, La Niña c’è stata (in precedenza per oltre due anni, ndr) ma le temperature sono risultate comunque elevate. Quello in arrivo sarà dunque un banco di prova, anche perché attualmente ci sono molte cose che non tornano e che dobbiamo capire”.

     Il riferimento è agli ultimi dieci mesi risultati estremamente bollenti a livello globale, con un trend del riscaldamento che sembra addirittura accelerato rispetto alle previsioni. “Quello che sappiamo di certo come scienziati è che il surriscaldamento globale di origine antropica e El Niño insieme hanno contribuito a questi nuovi record, ma ci sono anche altri aspetti ancora molto dibattuti nella comunità scientifica. Per esempio ci sono fattori come il surriscaldamento in Europa che potrebbe essere dovuto anche alla sottostima degli effetti di alcune leggi ambientali passate, come quelle che hanno portato a dire addio e a combattere le polveri raffreddanti, come i solfati e quei combustibili pieni di zolfo. Queste leggi attuate anni fa, che hanno tutelato in maniera importante la salute degli europei, potrebbero nel tempo aver favorito il brightening, cioè il fatto che la luce solare – senza più strati inquinanti – penetri più profondamente arrivando tutta sino al suolo che si riscalda di più riscaldando a sua volta l’atmosfera. Prima questo stato di inquinanti, nei bassi strati, in qualche modo la rifletteva all’indietro non permettendo che tutta arrivasse. Ora però le cose potrebbero essere cambiate”. Un altro fattore potrebbe essere legato all’eruzione dell’Hunga Tonga nel 2022: “Studi indicano la possibilità che il vulcano, avendo emesso molto vapore acqueo, che di fatto è un gas serra, possa aver influito”.

     Secondo Pasini, se uniamo tutti questi fattori, dagli impatti di El Niño alla crisi climatica in corso sino potenzialmente agli effetti del vulcano o delle leggi, allora “in parte è comprensibile l’eccezionalità del riscaldamento degli ultimi 10 mesi, anche se secondo me potrebbero esserci altri aspetti, sfuggiti, da capire. Sicuramente, con l’arrivo de La Niña, sarà importante osservare i cambiamenti: se le temperature non dovessero abbassarsi, sarebbe un bel problema” spiega.

    In attesa di comprendere come e se la formazione de La Niña potrà cambiare gli equilibri globali, il ricercatore del Cnr spiega che negli ultimi mesi un aspetto preoccupante è il fatto che “i mari si siano riscaldati molto, in particolare l’oceano Atlantico a livello tropicale. Gli oceani hanno una capacità termica alta, fanno fatica a riscaldarsi velocemente, e allora perché si è verificato tutto questo riscaldamento marino? Abbiamo innescato qualche feedback finora non considerato? Credo sia molto importante indagare: se il surriscaldamento assurdo degli ultimi dieci mesi dovesse in qualche modo stopparsi un po’ con l’addio a El Niño, allora molto probabilmente le cause sono da ricercarsi proprio in quel fenomeno iniziato un anno fa. Ma se non dovessero iniziare ad abbassarsi le temperature allora dovremmo davvero preoccuparci. Personalmente, credo e spero di non essere arrivati a un tipping point, una sorta di soglia in cui il surriscaldamento accelera a tal punto da essere estremamente complesso poter tornare indietro. Altrimenti sarebbero guai”. LEGGI TUTTO

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    Nucleare, italiani favorevoli ma solo a quello di ultima generazione. Ma i problemi tecnici ed economici sono ancora tanti

    “Oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole all’implementazione delle nuove tecnologie nucleari in Italia”. E’ questo il punto cruciale del sondaggio Swg e presentato a Pavia nel corso della giornata, organizzata da iWeek, dedicata a “Il nucleare italiano nella sfida al cambiamento climatico”. I fautori di un ritorno all’uso dell’energia atomica nel nostro Paese stanno in effetti tagliando il primo, fondamentale, traguardo: riaccendere il dibattito, trasformare il nucleare da tabù a possibilità concreta, fino ha creare un consenso diffuso nell’opinione pubblica. I sondaggi degli ultimi mesi, come conferma quello di ieri, dimostrano che il lavoro della lobby atomica e dei partiti dell’attuale maggioranza di governo (in Parlamento è passata mesi fa una mozione che sollecitava l’esecutivo in tal senso e che dava al ministro Pichetto Fratin il via libera per riaprire un tavolo tecnico) sta in effetti dando i suoi frutti: cresce la percentuale di intervistati che si dice favorevole al nucleare.

    L’incontro

    Meloni incontra Grossi (Iaea) per i piani del governo su energia e fusione nucleare

    di Luca Fraioli

    18 Ottobre 2023

    In particolare, secondo Swg-iWeeK, il 57% sarebbe favorevole già all’implementazione di reattori dell’attuale generazione (3+), il 61% a quelli di quarta generazione, il 61% ai piccoli reattori modulari, il 60% ai microreattori. Non è però del tutto debellata la sindrome NIMBY, non nel mio giardino. Resiste nella forma: nel mio giardino, ma solo se è un nucleare piccolo piccolo. Le grandi centrali atomiche tradizionali le accetterebbero in un raggio di 20 chilometri da casa solo il 36% degli intervistati, mentre il 59% darebbe il suo ok se fossero costruite ad almeno 500 chilometri di distanza. I microreattori, invece, andrebbero bene anche a 20 chilometri per il 44% degli italiani e per il 64% se fossero ad almeno 500 chilometri. Sono comunque buone notizie per i tecnici e le imprese italiane che lavorano nel settore. Che sanno però di dover lavorare ancora molto prima di conquistare il sì definitivo dell’opinione pubblica.

    Sul banco degli imputati, come spesso accade, l’informazione, colpevole di aver demonizzato in Italia il nucleare a uso civile, condannando, questa è la tesi, il nostro Paese a una arretratezza tecnologico-energetica che ora rischiamo di pagare cara, tra crisi del gas e crisi climatica. Naturalmente la comunicazione gioca un ruolo cruciale nella  formazione dell’opinione pubblica, ma la situazione è ben più complessa di così. E lo si è visto proprio nella giornata di ieri. C’è infatti il rischio di passare da una informazione pregiudizialmente contraria al nucleare a una iperottimistica, dove tutto è fattibile. Anche il sondaggio presentato tradisce questo rischio di disinformazione al contrario. Il 64% degli intervistati ritiene già disponibili i grandi reattori di terza e quarta generazione: ma di quarta generazione ce n’è in attività solo uno in Cina. Il 68% ritiene già disponibili gli small modular reactors: in realtà esistono una ottantina di progetti diversi e alcuni prototipi sono in fase di costruzione. Il 56% ritiene già disponibili i microreattori: ma il primo prototipo è in costruzione e dovrebbe essere acceso nel 2028. D’altra parte sono gli stessi cittadini ad ammettere di saperne poco: solo 1 su 3 si ritiene informato sul nucleare e 3 su 4 chiedono un surplus di informazioni.

    Energia

    In Usa si studiano gli scenari possibili se si spegnessero tutte le centrali nucleari

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    19 Aprile 2023

    Che il nucleare sia una opzione per la decarbonizzazione da qui al 2050 lo sostengono in tanti, dall’Agenzia internazionale per l’energia, a Greta Thunberg, al gruppo di Paesi, guidati dagli Usa, che alla Cop28 di Dubai hanno auspicato la triplicazione della produzione di energia atomica. Giusto dunque che la ricerca continui, anche in Italia, comunicando con trasparenza i progressi fatti (e ce ne sono tanti), ma anche gli ostacoli e i tempi realistici per l’implementazione delle nuove tecnologie. Nel panel dedicato agli aspetti tecnici, il vicepresidente esecutivo di Edison Lorenzo Mottura ha per esempio indicato il decennio 2030-2040 come finestra in cui realizzare in Italia le prime centrali alimentate da small modular reactors. Ma un nuclearista convinto come Massimo Morichi, molti anni nel colosso francese Areva e oggi senior scientific advisor di Transmutex, ha fatto notare che se davvero ci fosse la “triplicazione” auspicata a Dubai non ci sarebbe abbastanza uranio per tutti e il prezzo del combustibile fissile sarebbe destinato inevitabilmente ad andare alle stelle.

    “E’ un problema”, ha ammesso Riccardo De Salvo, direttore tecnico della Ultra Safe Nuclear Corporation Italia: “A regime, noi contiamo di produrre un micoreattore al giorno. Vuol dire che ogni giorno avremo bisogno di una tonnellata di uranio”. Ed ecco allora che ci si ingegna per trovare soluzioni alternative: la stessa Transmutex, che progetta di utilizzare un acceleratore di particelle per innescare la fissione nucleare, propone di usare il torio come combustibile. La Ultra Safe Nuclear Corporation spiega che i suoi microreattori potranno essere alimentati anche con il mox: una miscela di uranio impoverito, prodotto di scarto dei processi di arricchimento dell’uranio, e di plutonio, che si può estrarre dal riprocessamento del combustibile nucleare esaurito dai reattori convenzionali. Solo per dare un’idea della complessità dei temi sui quali si confrontano i massimi esperti di energia nucleare. Per venirne a capo servono ricerca, grandi investimenti e tempo.

    E’ bene che l’opinione pubblica lo sappia. Dovrebbe già saperlo, invece, chi ricopre ruoli di responsabilità di governo. Ieri, all’incontro di Pavia, il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini ha ribadito il sì al ritorno del nucleare in Italia, si è spinto a proporre una raccolta di firme per un referendum in tal senso, ed ha auspicato l’accensione della prima centrale nel 2032. A che tipo di centrale si riferiva? Difficile che parlasse di SMR o di microreattori, visto che per la loro industrializzazione pochi anni potrebbero non bastare. Dunque grandi centrali tradizionali come quelle francesi? Ma il suo collega di governo, il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Pichetto Fratin lo aveva escluso categoricamente a dicembre scorso, nel pieno di Cop28. “Dichiarazioni da campagna elettorale”, si dirà. Ma non è così che si aiuta l’opinione pubblica a capire davvero. LEGGI TUTTO

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    In Kenya la startup che recupera la plastica in spiaggia per trasformarla in congelatori a energia solare

    “Il rifiuto di una persona è il tesoro di un’altra”, dice un proverbio africano. C’è una startup keniota che sembra averne colto pienamente il senso. Si chiama Kuza Freezer ed è una startup con sede a Mombasa, la seconda città più grande del Kenya, che trasforma i rifiuti di plastica in piccoli congelatori portatili alimentati da pannelli solari.

    Nata da un’idea dell’imprenditrice Purity Gakuo, l’impresa innovativa è composta da giovani donne che ogni mattina si recano sulla spiaggia di Mombasa per raccoglie i rifiuti di plastica che serviranno poi per costruire i congelatori ecosostenibili, dotati di una batteria ricaricabile tramite pannello solare che fornisce fino a sette ore di funzionamento con una ricarica di due ore. 

    In un paese dove la pesca artigianale riveste un ruolo economico di primaria importanza, l’obiettivo di Kuza Freezer è triplice: salvare la filiera della catena del valore del pesce, creare posti di lavoro e opportunità di crescita per l’economia locale (fondata principalmente sul turismo e sulla pesca), contribuire al benessere e alla salvaguardia dell’ambiente, continuamente minacciato dal fenomeno dell’inquinamento da materiali plastici, disseminati sulle spiagge di Nairobi, a pochi passi dalle acque dell’Oceano Indiano. In tre anni l’azienda ha venduto oltre 350 congelatori a commercianti di pesce, venditori di latte e di ghiaccio, di pollame e baristi ambulanti. 

    I pescatori locali e la soluzione dei freezer green

    Secondo la Food&Agriculture Organization, nell’Africa subsahariana ci sono oltre 12,3 milioni di pescatori artigianali. Il 52% di questi pescatori rimane fuori dalla rete, e circa il 45% del loro raccolto di pesce risulta sprecato ogni giorno a causa della mancanza di accesso a servizi di conservazione frigorifera convenienti e affidabili. La maggior parte di questi pescatori dipende anche dal ghiaccio, necessario per conservare il pescato fresco. Non solo, alcuni pescatori locali sono costretti a essiccare il pesce per evitare che marcisca, e il pesce essiccato vale la metà del pesce fresco che può essere venduto al mercato. Pertanto, la refrigerazione rappresenta un elemento cruciale per il sostentamento dei pescatori nel mantenimento della catena del freddo per la vendita del pesce fresco. In questo contesto per fare fronte a un problema oggettivo e diffuso è nata Kuza Freezer, la startup che realizza appunto frigoriferi portatili alimentati da pannelli solari.

    Anche sulle spiagge di Nairobi vengono raccolti i rifiuti abbandonati poi rivenduti a Kuza Freezer per essere triturati e trasformati in pellet. Il pellet è poi rimodellato in pannelli e celle frigorifere preferibilmente di piccola taglia per rendere il congelatore ancora più versatile e trasportabile. Dalle bottiglie di plastica nascono, così, freezer che vanno a ruba tra i piccoli venditori di pesce locale e i venditori di generi alimentari. 

    Come funziona il congelatore a energia solare

    Ogni congelatore è dotato di una batteria che può essere caricata tramite un pannello solare. Una ricarica di due ore corrisponde a sette ore di funzionamento del dispositivo. Purity Gakuo, CEO di Kuza Freezer, spiega che vengono realizzati diverse tipologie di frigoriferi che vanno dai congelatori statici, montati a bordo dei pescherecci a quelli che possono essere installati in loco. Non solo, si realizzando anche congelatori che possono essere montati sul retro di una bici o di una moto con una capacità di 70 litri per traporto e consegna di generi alimentari. Questi ultimi risultano particolarmente utili per la consegna del pesce in ottimo stato di conservazione. La startup Kuza Freezer offre un servizio di installazione e formazione gratuito per insegnare l’uso e la manutenzione corretti. Inoltre, è previsto un dispositivo di tracciamento/localizzazione su ciascuna unità, in modo da verificare in tempo reale se sono necessarie eventuali riparazioni. Un congelatore Kuza Freezer costa 700 dollari. Nel 2022 Purity Gakuo, la fondatrice, è stata nominata “giovane imprenditrice globale dell’anno” da Youth Business International e nel 2023 è entrata nella prestigiosa top dei 40 migliori imprenditori under 40. LEGGI TUTTO

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    Il cambiamento climatico potrebbe cambiare i bersagli degli attacchi terroristici

    Quando si parla degli effetti che il cambiamento climatico sta avendo su ambiente e società, tutto ci si aspetterebbe di leggere tranne che la parola “terrorismo”. E, invece, nella lunga lista degli impatti collegati a un clima in costante cambiamento potremmo dover aggiungere anche la variazione nei bersagli degli attacchi terroristici. Almeno per quanto riguarda alcune zone del mondo. A renderlo noto sono i risultati di una ricerca pubblica su Journal of Applied Security Research, guidata da Jared Dmello, ricercatore e docente di criminologia presso la University of Adelaide (Australia), esperto di estremismi e organizzazioni terroristiche.

    Lo studio ha riguardato gli oltre novemila attacchi terroristici avvenuti in India fra il 1998 e il 2017, registrati dal Global Terrorism Database (GTD). Il GTD è una banca dati open-source, che include informazioni aggiornate annualmente su eventi correlati ad attività terroristiche verificatisi in tutto il mondo dal 1970 a questa parte. Per ogni evento registrato il database include informazioni riguardo alla data e al luogo dell’attacco, al tipo di armi utilizzate, al numero di vittime e, quando identificata, all’organizzazione responsabile. Il GTD esiste nella sua attuale forma dal 2001, quando un gruppo di ricercatori della University of Maryland (Stati Uniti) ottenne un’ampia quantità di informazioni originariamente raccolte dal Pinkerton Global Intelligence Services, un’agenzia investigativa e di sicurezza attiva negli Stati Uniti dal 1850.

    Gli autori della ricerca hanno utilizzato i dati contenuti all’interno del database per verificare se ci fossero delle correlazioni fra le aree principalmente interessate da attacchi terroristici in India e i pattern climatici registrati nel Paese nello stesso periodo (dal 1998 al 2017). “In questo studio ci focalizziamo sul luogo dell’attacco, ma i dati suggeriscono anche che altre forme di comportamento estremista, come il luogo dell’addestramento, si stanno probabilmente spostano in risposta al cambiamento climatico”, spiega Dmello. “Le temperature medie in India hanno raggiunto picchi da record durante il nostro periodo di studio di 20 anni”, prosegue l’esperto, e l’arco di tempo scelto per lo studio sarebbe rappresentativo sia sul fronte del cambiamento climatico che su quello relativo agli attacchi estremisti che hanno avuto luogo nel Paese.I risultati, spiega ancora Dmello, indicano che tutte le variabili climatiche prese in considerazione, come temperature e precipitazioni, possono essere correlate a cambiamenti nell’attività terroristica, in particolare per quanto riguarda i bersagli degli attacchi. “I centri urbani – continua il ricercatore – sono cresciuti sempre più in densità di popolazione, specialmente in aree con climi favorevoli, e alcune delle aree più remote un tempo utilizzate dagli estremisti hanno sperimentato climi sempre più dinamici, tanto da non essere più adatte per l’abitazione umana, forzando questi gruppi a migrare altrove”. Allo stesso tempo, i ricercatori hanno osservato una certa sovrapposizione fra i luoghi (abitati) colpiti da variazioni climatiche estreme e quelli soggetti ad un maggior numero di attacchi terroristici.

    Gli stessi autori sottolineano anche che il loro è uno studio esplorativo e non privo di limitazioni. In primis, le analisi sono circoscritte a un’unica nazione. Inoltre, non è banale stabilire se esista una effettiva relazione di causalità fra i due fattori presi in considerazione (cambiamento climatico e attacchi terroristici). Per giungere a questa conclusione, scrivono i ricercatori, saranno necessarie ulteriori analisi. Si tratta comunque di un tema importante da esplorare, concludono, affinché i governi di tutto il mondo possano prendere delle decisioni informate in merito alle strategie di sicurezza e difesa nazionale da adottare. LEGGI TUTTO

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    “Business Sustainability”, il Master per guidare le imprese verso uno sviluppo sostenibile

    In un’epoca segnata da cambiamenti climatici senza precedenti, risorse naturali che si assottigliano e una pressione sociale crescente affinché le aziende agiscano responsabilmente, la formazione nell’ambito dello sviluppo sostenibile non è solo rilevante, ma diventa una questione di urgenza.  Non più un’opzione, la sostenibilità si impone come l’unica via per garantire un futuro prospero e […] LEGGI TUTTO

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    Sorpresa, i bonobo sono più aggressivi degli scimpanzé

    I bonobo sono più aggressivi degli scimpanzé. Un dato “sorprendente”, come lo hanno descritto gli scienziati autori della scoperta, che suggerisce come in materia di aggressività sui nostri parenti più prossimi sappiamo ancora poco e che nuovi dati possono ribaltare quanto noto finora.I nuovi dati sono quelli che arrivano da migliaia di ore di osservazione dei comportamenti di alcune comunità di bonobo e scimpanzé nella Repubblica Democratica del Congo e in Tanzania. Interessati a capire qualcosa di più sulla loro aggressività – ma di rimando un po’ anche sulla nostra – l’idea dei ricercatori è stata quella di monitorare i loro comportamenti aggressivi, tanto quelli fisici che non, come possono essere l’attività di caricare o di inseguire qualcuno, spiegano. Il primo risultato, come accennato, è che i bonobo sono più aggressivi degli scimpanzé (circa tre volte tanto, in termini di atti aggressivi), anche se la tendenza ai comportamenti aggressivi cambia in funzione del sesso degli individui coinvolti. I bonobo infatti sono tendenzialmente più aggressivi se si guarda alle interazioni maschio-maschio, ma lo sono meno nei confronti delle femmine rispetto agli scimpanzé. In entrambe le specie invece i maschi più aggressivi erano anche quelli che si accoppiavano di più, scrivono gli autori dalle pagine di Cell. E ancora: anche il modo di essere aggressivi cambiava nelle due specie, con i bonobo più solitari degli scimpanzé, che molto più spesso formano coalizioni maschili (circa 13 volte tanto). Quale può essere il significato di tutto questo?

    Biodiversità

    Le scimmie si fanno i dispetti per stabilire i confini sociali

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    14 Febbraio 2024

    Premesso che per confermare i risultati saranno necessari nuove osservazioni, l’analisi del comportamenti aggressivi di bonobo e scimpanzé conferma in parte qualcosa sulle dinamiche che regolano le loro popolazioni. Per esempio, aver osservato più aggressioni femmina-maschio che il contrario nei bonobo rispetto agli scimpanzé, conferma il carattere matriarcale delle società dei bonobo, dove sono le femmine a occupare i ranghi più elevati. Lo studio conferma anche la tendenza all’individualismo più spiccata per i bonobo rispetto agli scimpanzé, questi ultimi ben noti per avere dei comportamenti ben più letali dei bonobo, anche verso i piccoli.

    Biodiversità

    L’estrazione delle terre rare uccide le grandi scimmie africane

    di Sara Carmignani

    08 Aprile 2024

    Tenendo conto proprio di questo, ovvero della violenza degli scontri, non sarebbe dunque un caso che gli scimpanzé siano (almeno numericamente) meno “attaccabrighe” dei bonobo. Scrivono infatti gli autori: “Le ?coalizioni possono aumentare il costo degli scontri perché gli avversari possono reclutare a loro volta alleati; e così possono verificarsi lesioni gravi o anche morti quando una parte supera notevolmente l’altra. In secondo luogo, per quanto riguarda il sesso maschile, la fitness degli scimpanzé dipende da forti coalizioni per la difesa del territorio, le lotte all’interno della comunità possono rivelarsi costose poiché mettono a rischio l’azione collettiva”. In altre parole, spiegano gli esperti, è il costo elevato dei loro scontri a tenerli a bada: se lo facessero troppo ben presto rimarrebbero in pochi a difendere gruppo e territorio. LEGGI TUTTO