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    Gli studenti della Columbia contro le lobby del petrolio

    La corsa verso la transizione energetica lascia senza dubbio entusiasti all’idea di un futuro non lontano ad emissioni zero o, addirittura, alla cattura dell’anidride carbonica già presente nell’atmosfera. Lungo il cammino illuminato dalle nuove tecnologie e dagli investimenti, tuttavia, non dobbiamo commettere l’errore di avere la memoria breve e dimenticare il ruolo che le multinazionali […] LEGGI TUTTO

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    Cosa accadrebbe se l’Italia avesse un energy manager

    Il 30 aprile, come ogni anno, scade il termine per comunicare il nome dell’energy manager designato da imprese e pubblica amministrazione. Ma cosa succederebbe se a dotarsi di un energy manager non fosse un’azienda, ma tutto il Paese, l’Italia? Abbiamo provato a ricostruirlo. Vediamo, partendo da un’analisi del ruolo di questa figura.

    L’obbligo risale agli anni Novanta

    “Si tratta di un obbligo”, spiega Dario Di Santo, direttore di Fire (Federazione italiane per l’uso razionale dell’energia), “che risale agli anni Novanta. In sostanza si richiede alle imprese alle pubbliche amministrazioni con consumi significativi e a quelle energivore di nominare un responsabile alla partita. La ratio è quella di ridurre i consumi, per esempio migliorando l’efficienza degli impianti, ma anche rivedendo le decisioni sulle forniture. Un obbligo che esiste da molto, ma particolarmente attuale oggi per i motivi legati alla decarbonizzazione”.

    Formazione

    “Business Sustainability”, il Master per guidare le imprese verso uno sviluppo sostenibile

    di redazione Green&Blue

    16 Aprile 2024

    “Consumare meno energia – prosegue Di Santo –  significa non solo risparmiare e ridurre l’impronta carbonica: potenzialmente, assume anche il significato di accedere più facilmente a maggiori risorse economiche per la capitalizzazione di impresa. È stato, infatti, dimostrato che esiste una correlazione statistica tra chi investe in sostenibilità e l’ottenimento di performance economiche migliori. Ne consegue che, sempre più spesso, soggetti come i fondi di investimento richiedono la presenza di figure del genere in azienda”.

    A incorrere nell’obbligo, spiega il dirigente, sono le aziende industriali che consumano più di diecimila tonnellate equivalenti di petrolio (tep) l’anno e quelle di terziario e pubblica amministrazione che consumano più di mille tep. Per nominare l’energy manager, basta collegarsi alla piattaforma Fire e compilare i form. Gli ultimi dati (risalenti al 2022) mostrano come fossero 1.582 in totale, di cui 110 nella PA. Ma ce n’erano 35 anche nell’agricoltura. 

    I problemi della legge: nessuna rendicontazione

    “Quella del 1991 era una legge molto avanzata per i tempi, direi a livello mondiale” sottolinea ancora Di Santo. “Nasce in quegli anni il capitolo del controllo degli impianti. Già allora si capiva che le crisi energetiche sono dietro l’angolo, con l’85% dei combustibili fossili che era importato. Peraltro, Roma arrivò in anticipo rispetto agli intendimenti della Commissione europea che risalgono a una decina d’anni dopo”. 

    Il problema della legge, però, è non prescrive una rendicontazione dettagliata. Basta indicare un nome, e l’obbligo è assolto. Una lacuna normativa, intenzionale e comprensibile nel millennio passato: molto meno oggi. “Noi suggeriamo di adottare il sistema di gestione dell’energia ISO 50001”, dice Di Santo, “tanto più che con la nuova direttiva  sull’efficienza energetica emanata lo scorso settembre la stragrande maggioranza delle imprese obbligate a nominare un energy manager dovranno obbligatoriamente adottare un sistema di gestione dell’energia”.

    Lavori green

    Come diventare “carbon manager”, obiettivo: lavorare per la sostenibilità

    di Paolo Travisi

    23 Gennaio 2024

    I vantaggi, come detto, non mancano. In definitiva, sintetizza il direttore di Fire, “per l’organizzazione significa dotarsi di una propria politica energetica, cui si giunge dopo una fase accurata di analisi e tramite cui si può stabilire un piano di azione. In questo modo, l’efficienza energetica entra definitivamente in azienda e nella pubblica amministrazione. Si mettono in comunicazione energia e core business, e non mancano casi di realtà che hanno ripensato i prodotti tenendo conto dei consumi legati alla produzione. Insomma, una ulteriore leva competitiva”. 

    La storia: 30 anni da energy manager

    Ma cosa accadrebbe se a essere messo sotto esame fosse il Paese? E con esso pubbliche amministrazioni, Comuni, ospedali? Nell’era degli open data, la risposta si può trovare con una certa facilità. Basta cercare nel posto giusto. Ne è convinto Roberto Gerbo, per oltre trent’anni in Intesa Sanpaolo proprio nel ruolo di energy manager; e che oggi, dopo la pensione, continua l’attività consulenziale in forma privata. “Negli anni Settanta sono stato uno dei primi ingegneri laureati con specializzazione in energetica” racconta a Green&Blue sciorinando numeri e tabelle. “Insieme ad altri colleghi abbiamo fondato Abi Energia, la sezione dell’Associazione bancaria italiana che si occupa degli acquisti all’ingrosso di questo tipo di input”. 

    Gerbo è specializzato in analisi multisito: “Gestivamo fino a quattromila filiali con uno staff di poche persone. Non potendo fisicamente recarci in ogni sportello, conducevamo analisi energetiche a tavolino basandoci sui dati informatizzati presenti sul nostro software interno. Al riguardo, avevamo ideato un algoritmo per i consumi elettrici preminenti nel terziario, algoritmo non disponibile commercialmente e tuttora valido, in grado di individuare sprechi e consumi anomali analizzando i dati presenti nelle bollette mensili.  Dalla sede centrale di Torino, in pratica, eravamo in grado di capire se a Roma, a Trento o a Canicattì c’era uno spreco. E ce n’erano tanti”. LEGGI TUTTO

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    Limenet, la startup che immagazzina anidride carbonica nel mare

    L’anidride carbonica (CO2) prodotta dalle attività umane è il principale fattore del riscaldamento globale. Per questa ragione l’Unione Europea guarda con interesse alle soluzioni in grado di ridurre le emissioni di CO2, primi responsabili del cambiamento climatico in atto. In questo senso la missione della startup lecchese Limenet è rivoluzionaria: trasformare l’anidride carbonica in una soluzione acquosa di bicarbonati di calcio, con potenziali effetti benefici per l’ecosistema marino. Per farlo ha messo a punto una tecnologia innovativa che permette lo stoccaggio del carbonio in forma di bicarbonati. 

    Semplificando, questa tecnologia funziona così: da carbonato di calcio (presente in natura in grandissime quantità, si pensi che è il 7% della crosta terrestre), acqua marina ed energia rinnovabile, Limenet è in grado di trasformare l’anidride carbonica, raccolta dall’atmosfera o da altre sorgenti, in una soluzione acquosa di bicarbonati di calcio. In questo modo è possibile ottenere una soluzione di stoccaggio di CO2 duratura e stabile (per oltre 10 mila anni) all’interno di mare e oceani.

    I prodotti

    Dai gioielli al cibo: quante belle cose si fanno con la CO2

    di Pasquale Raicaldo

    20 Novembre 2023

    Questo processo offre un duplice beneficio: da una parte, trasforma l’anidride carbonica in bicarbonati di calcio contrastando il cambiamento climatico, dall’altra, dissolvendo i composti carbonatici nell’acqua marina, ne aumenta l’alcalinità, cioè la capacità di resistere ai cambiamenti nei livelli di acidità, con potenziali benefici per l’ecosistema marino.

    La storia di Limenet

    Più di cinque anni di ricerca alle spalle, diverse domande di brevetti già depositate e un impianto pilota realizzato a La Spezia: qui Limenet ha industrializzato la propria tecnologia e rimosso i primi 150 chilogrammi di anidride carbonica con un impianto scalabile alle giga-tonnellate. 

    Ma facciamo un passo indietro. Limenet è il risultato di una lunga serie di studi, ricerche e innovazioni elaborati da Giovanni Cappello (CTO & Co-founder), uno dei più grandi esperti in Italia di gassificazione. La ricerca scientifica è stata supportata dal Politecnico di Milano Desarc-Maresanus. A guidare la società invece è Stefano Cappello (CEO & Founder), ingegnere con la vocazione ambientalista che ha lasciato la carriera nel mondo corporate per dedicarsi alle tecnologie applicate alle emissioni negative di anidride carbonica. A completare la compagine dei co-fondatori Enrico Noseda (Strategic Advisor & Co-founder), con trascorsi in Skype e Microsoft, già co-founder di startup di successo come HLPY e impegnato con Cariplo Factory in attività di Open Innovation e nello sviluppo internazionale di startup digitali. 

    Limenet è nata come community scientifica: è diventata impresa nel 2023 ed è rientrata tra le otto startup della seconda edizione di Faros, primo acceleratore italiano in ambito blue economy della Rete Nazionale di CDP. A oggi la società ha già raccolto 2 milioni di euro dagli investitori, tra cui si contano Aither, Core Angels Climate, Moonstone, Forest Valley Catalyst, Faros stesso e Leone La Ferla. 

    Non solo. Mille tonnellate di CO2 verranno rimosse dall’atmosfera e stoccate in acque marine, contrastando il riscaldamento globale e l’acidificazione del mare, grazie all’accordo sottoscritto proprio in questi giorni tra Limenet, e KlimaDao, piattaforma statunitense attiva nel mercato volontario dei crediti di carbonio. Quest’ultima ha infatti acquistato un anticipo sulla lavorazione di mille tonnellate di CO2 che Limenet realizzerà entro la metà del 2025 generando carbon credits (crediti di emissioni negative) che KlimaDao si impegna a rivendere sulla piattaforma Carbonmark.

    Le tre fasi della tecnologia Limenet

    L’azione trasformativa di Limenet avviene anche in natura, solo su tempi estremamente più lunghi. È il cosiddetto “ciclo geologico del carbonio”, un processo naturale attraverso il quale il carbonio presente nell’atmosfera viene scambiato con la geosfera (cioè il terreno), l’idrosfera (mari e oceani) e la biosfera (le acque dolci come laghi e fiumi). Prima che le emissioni legate alle attività dell’uomo sul pianeta raggiungessero i preoccupanti livelli attuali, per millenni, i processi naturali di assorbimento hanno mantenuto stabile l’equilibrio carbonico della nostra atmosfera. Questo perché i principali depositi di anidride carbonica del nostro pianeta sono proprio mari e oceani: l’acqua salata, infatti, permette l’assimilazione dell’anidride carbonica per poi neutralizzarne l’acidità grazie alle rocce carbonatiche.

    Ma come si passa dall’anidride carbonica al bicarbonato di calcio? Il processo della tecnologia Limenet prevede tre fasi.

    Fase 1: Frantumazione – Calcinazione – Idratazione: la materia prima calcarea (carbonato di calcio) viene triturata, calcinata e quindi trasformata in calce viva e anidride carbonica, attraverso la decomposizione termica all’interno di un forno elettrico alimentato da energia elettrica rinnovabile. La calce viva viene quindi idratata per ottenere calce spenta.
    Fase 2: Rimozione CO2 della calcinazione con bicarbonati di calcio: poco più della metà della calce spenta ottenuta viene utilizzata per rimuovere l’anidride carbonica prodotta. Il processo avviene nel reattore di Limenet: mescolando anidride carbonica e idrossido di calcio in acqua di mare si ottiene bicarbonato di calcio, che conferisce all’ambiente marino le sue proprietà alcaline. L’altra metà della calce spenta è a disposizione per il sequestro di carbonio a valle nella fase 3.
    Fase 3: Stoccaggio di anidride carbonica in bicarbonati di calcio: la metà della calce spenta (decarbonizzata) viene utilizzata nel processo di alcalinizzazione del mare, oggetto di ricerca nel progetto Desarc-Maresanus; oppure può essere utilizzata per stoccare, sempre in forma di bicarbonati di calcio, la CO2 proveniente dall’atmosfera. Quest’ultima fase è quella che permette la vera e propria produzione di emissioni negative di CO2.

    L’anidride carbonica può essere rimossa da contattori (ventilatori di grosse dimensioni) che filtrano l’aria atmosferica catturandone la CO2 in eccesso o da processi industriali, da “ciminiere” di navi o industrie dove si può catturarla attraverso filtri industriali. Poi la CO2 viene fatta reagire con la calce spenta decarbonizzata prodotta da Limenet per generare bicarbonati di calcio. Questi, dispersi successivamente in mare, ne garantiscono l’aumento di alcalinità e quindi possibili benefici contrastando l’acidificazione.

    Limenet, tra i differenti use cases, sta studiando l’associazione della tecnologia proprietaria con filtri di ammine per la cattura di CO2 da fumi di scarico navali, con a valle la produzione di bicarbonati di calcio. 

    Il progetto pilota a La Spezia

    Dopo anni di ricerca in cui è stato coinvolto il Politecnico di Milano con i dipartimenti di Chimica (CMIC), Ambientale (DICA) ed Aerospaziale (DAER), Limenet ha ingegnerizzato ed industrializzato la propria tecnologia realizzando un progetto pilota nel Centro di Supporto e Sperimentazione Navale (CSSN) della Marina Militare italiana di La Spezia in collaborazione con il Politecnico di Milano e l’Università UNIGE di Genova. L’impianto è stato progettato e realizzato, con il supporto di Hyrogas, per rimuovere 10 kg/h di anidride carbonica in forma di bicarbonati di calcio. Durante i lavori, iniziati nella primavera 2022 e conclusi a febbraio 2023, Limenet ha prodotto l’idrossido di calcio decarbonizzato che, fatto reagire con CO2 proveniente da fonti esterne, ha portato alla produzione di bicarbonato di calcio. Questi 150 kg rappresentano a tutti gli effetti le prime emissioni negative di CO2 realizzate attraverso la tecnologia da Limenet.

    Non solo, Limenet scalerà la sua tecnologia costruendo ad Augusta (Sicilia) un impianto in grado di rimuovere annualmente circa 4mila tonnellate di CO2. Successivamente, attraverso la standardizzazione di un impianto da 100mila tonnellate, l’azienda intende raccogliere capitali per costruire una serie di siti capaci di assorbire centinaia di migliaia di tonnellate di anidride carbonica all’anno.

    La tokenizzazione del carbonio

    Il processo di trasformazione dell’anidride carbonica in bicarbonati di calcio, ossia la produzione di emissioni negative di CO2, viene tracciato da Limenet attraverso la blockchain. In pratica tutti gli step di lavorazione all’interno dell’impianto vengono tracciati su database decentralizzati: così facendo di ogni operazione del processo resta una traccia su Polygon, second layer di Ethereum.

    I certificati di emissioni negative di Limenet sono realizzati attraverso un minting di NFT, vale a dire la pubblicazione univoca del token sulla blockchain, così da poter essere acquistata. Per dare massima trasparenza alla sua azione, Limenet ha infine previsto la certificazione del suo processo e dei suoi NFT da parte di un soggetto terzo attraverso un sistema di monitoraggio MRV (monitoring, reporting & verification). 

    “Limenet nasce da un sogno: trovare una soluzione efficace alla sfida epocale del cambiamento climatico. Dopo anni di ricerca ed esperimenti, siamo finalmente pronti a fare la nostra parte nella grande partita della decarbonizzazione. La nostra tecnologia, già testata a La Spezia, è pronta e, grazie agli investimenti che stiamo raccogliendo, contiamo di arrivare entro 5 anni ad impianti in grado di rimuovere centinaia di migliaia di tonnellate all’anno”, ha commentato Stefano Cappello, CEO & Founder di Limenet. LEGGI TUTTO

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    Gli scarti del caffé: da rifiuti difficili da smaltire a risorsa

    Silverskin, che significa pelle d’argento, è quella pellicola semitrasparente che riveste il chicco di caffè e che viene eliminata nel processo di tostatura. Corrisponde a circa al 2% del peso del chicco e fino a poco tempo fa era considerata un rifiuto speciale, abbastanza costoso da gestire per torrefattori, costretti a trasformalo in compost. Se consideriamo che ogni giorno nel mondo vengono bevute più o meno 3,1 miliardi di tazzine di caffè – che risulta così essere il secondo prodotto più commerciato con un consumo annuo che supera i 10 milioni di tonnellate – possiamo facilmente intuire le enormi quantità di rifiuto che possono derivare dal suo processo di tostatura e che le sorti di questo scarto assumano un peso rilevante, non solo fisico ma in termini economici e ambientali, in particolare in Italia, quarto importatore mondiale. Proprio per questo negli ultimi tempi, si lavora per individuare soluzioni efficaci di economica circolare, per dare alla silverskin una seconda vita e trasformarla da rifiuto a sottoprodotto, se non addirittura in risorsa.

    Secondo uno studio Enea (l’Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie) una sua possibile destinazione potrebbe essere il suo utilizzo come ingrediente ad alto valore aggiunto nei prodotti da forno, al posto della farina: così facendo si potrebbe ridurre del 73% l’impatto ambientale delle lavorazioni del caffè, dimezzando i costi di smaltimento a carico delle aziende. In particolare per ogni tonnellata di farina realizzata con lo scarto del chicco di caffè, si potrebbero evitare circa 150 kg di CO2.  Lo studio muove i suoi passi da un caso concreto: nel 2019 il settore agro-industriale della città metropolitana di Napoli aveva infatti generato circa 30 mila tonnellate di rifiuti organici, di cui quasi il 3% proveniva da aziende di torrefazione del caffè (in gran parte silverskin). Il “pane alla silverskin” per ora deve ancora attendere: l’utilizzo individuato da Enea deve ancora superare la procedura di approvazione prevista dalla Commissione Europea, nonostante numerosi studi abbiano evidenziato bassi rischi e molti benefici legati al suo consumo.

    Economia circolare

    Come corre il riciclo: ecco le scarpe da jogging fatte con i fondi del caffè

    di Andrea Tarquini

    05 Agosto 2021

    Dall’agricoltura alla cosmesi, dal cibo all’energia, fino all’edilizia: la versatilità della silverskin abbraccia i settori più inaspettati. In campo edile ad esempio, recenti ricerche hanno individuato una sua possibile applicazione per l’isolamento termico e acustico, in alternativa ai materiali tradizionali, costosi e non biodegradabili. Intercos (multinazionale italiana nell’ambito della cosmetica) e Amarey (Illy Caffè) nel corso dell’evento che apre le porte al Cosmoprof 2024 hanno presentato un innovativo burro di caffè: in ambito cosmetico infatti, il “grasso” estratto attraverso un processo sostenibile risulta un prodotto a lunga conservazione e con proprietà emollienti che può essere sfruttato nella composizione di rossetti, fondotinta, cosmetici per il viso e occhi. La pellicola del caffè, raccolta macinata, può sostituire la cellulosa vergine e utilizzata per stampare libri e quaderni o per realizzare un packaging sostenibile. Esistono già diverse implementazioni: delle migliaia di tonnellate di silverskin generate dai processi di tostatura in Italia, una parte da anni viene infatti recuperata da Favini, per produrre carta al caffè.

    Due aziende campane, Caffè Trucillo e Agriges, azienda specializzata nella produzione di concimi, hanno sviluppato invece un’applicazione per l’agricoltura: ogni mese, almeno 2 tonnellate di silverskin della torrefazione salernitana vengono recuperate per aspirazione e compattate in un macchinario esterno che le aggrega in piccole parti simili al pellet, poi utilizzato per la produzione di un ammendante organico consentito in agricoltura biologica. Gli scarti derivanti dalla lavorazione del caffè, trovano una seconda chance anche nella produzione di biogas e biometano: l’azienda agricola Valbona di Poirino (Torino), grazie ad un accordo con Caffè Vergnano, con il rifiuto ha iniziato a produrre biogas, una miscela di metano e anidride carbonica impiegato per la produzione di energia elettrica e fertilizzante, riducendo drasticamente l’utilizzo di concimi chimici. L’azienda stima in un anno sia possibile recuperare più di 100 tonnellate di silverskin, sufficienti per produrre circa 80.000 Kwh. Infine, in campo medico: pare infatti che la silverskin possa agire sull’equilibrio metabolico e quindi essere utilizzata per malattie come il diabete o gravi forme di obesità, riducendo i livelli di zucchero nel sangue e diminuendo i picchi glicemici. La sua applicazione è in fase di studio. LEGGI TUTTO

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    Linda Maggiori: “Vivere senz’auto perché si può”

    Linda Maggiori, giornalista freelance educatrice e scrittrice, vive con suo marito e i loro tre bambini a Faenza, in provincia di Ravenna, dove da alcuni anni sperimentano uno stile di vita sostenibile senz’auto e a rifiuti (quasi) zero. È volontaria in varie associazioni che si battono contro l’uso degli inceneritori e a favore della mobilità sostenibile. Promuove inoltre progetti di educazione ambientale nelle scuole.

    “Fin da piccola – racconta Linda Maggiori – amavo gli animali e li difendevo, facevo piccole ricerche sull’inquinamento, mi piaceva stare nell’orto con mia nonna e passeggiare in montagna. Un rinnovato interesse è iniziato dopo la nascita dei miei figli, che mi hanno messo davanti una questione imprescindibile: che mondo volevo lasciare loro? Migliore o peggiore di quello che avevo trovato? Intorno a me vedevo il suolo cementificarsi, sempre meno alberi e aria inquinata. Da un istinto naturale di protezione è nato un forte impegno che ha proprio cambiato la nostra vita. Anche mio marito ha condiviso con me questa urgenza di fare la nostra parte, almeno provarci. Ho conosciuto in questi anni tante altre mamme preoccupate per la salute dei loro figli in ogni parte d’Italia e, insieme a loro, abbiamo fondato la rete delle Mamme da Nord a Sud”.

    Dal 2011 Linda Maggiori e la sua famiglia non usano più l’automobile nei loro spostamenti e nel 2019 pubblica il suo libro Vivo senz’auto (Macro Edizioni, Cesena 2019) in cui racconta la sua esperienza. “Inizialmente – continua Maggiori – non è stata una scelta perché l’auto si era rotta in seguito ad un incidente. Poi è diventata una scelta di vita e ormai ci siamo abituati. Ovviamente se serve accettiamo passaggi. Per fortuna a Faenza c’è la stazione e per i piccoli tragitti usiamo la bici. I ragazzi grandi vanno a scuola, sport da soli, i più piccoli ancora li accompagniamo, ma ognuno in famiglia ha la sua bici e la usa quotidianamente. E questo dà ai ragazzi grande autonomia. Abbiamo anche due cargo bike, una elettrica e una muscolare per trasportare le cose più pesanti. Anche per andare in vacanza usiamo i mezzi pubblici, in genere il treno, tanto che ho scritto un altro libro dal titolo Guida per viaggiatori senza auto, con tutte le ferrovie d’Italia e i nostri racconti di viaggi, dalle Alpi alla Sicilia. Siamo il Paese più motorizzato del mondo secondo solo agli Usa con 65 auto ogni 100 abitanti, siamo anche uno dei Paesi con l’aria più inquinata e con alto tasso di incidenti”.

    Le auto colonizzano ogni spazio, ridurre le auto di proprietà e incentivare l’uso dei mezzi pubblici è sempre più necessario”.

    Alla nascita del suo primo figlio Linda Maggiori fonda un’associazione di aiuto sull’allattamento e sull’uso dei pannolini lavabili (Gaaf), riduce al minimo i rifiuti e adotta nel quotidiano uno stile di vita sostenibile. “Ora – sottolinea Maggiori- non ne faccio più parte ma è stato il mio primo impegno per l’ambiente. Le mamme fanno fatica ad allattare soprattutto per sfiducia o mancanza di sostegno e passano troppo facilmente al latte artificiale. Così, insieme ad altre mamme, abbiamo fondato il gruppo di aiuto sull’allattamento, frequentando anche un corso Oms-Unicef per “mamme alla pari”, e poi da lì è venuto naturale creare anche la “pannolinoteca” per incentivare l’uso dei pannolini lavabili, che io ho usato per tutti e quattro i miei figli, riducendo così i rifiuti, sono anche molto salutari per i bebè. Cerchiamo di ridurre a monte i rifiuti, anche se non ci riusciamo del tutto, soprattutto con quattro figli che crescono e non vogliamo essere troppo rigidi. Compriamo frutta e verdura nei mercatini diretti biologici e cereali o legumi bio con i gruppi di acquisto locale. Abbiamo ristrutturato il nostro appartamento sganciandoci totalmente dal gas, con pannelli fotovoltaici, pompa di calore ed elettrificando i consumi finali. Siamo soci di una cooperativa che produce solo energia rinnovabile. Faccio il pane in casa e compriamo solo cibo bio. Sono vegetariana, quasi vegana, mio marito lo stesso, mentre i figli sono onnivori ma compriamo solo carne da piccoli allevamenti locali, conosciuta e certificata bio. Abbiamo anche un piccolo orto in affitto dal comune che coltiviamo in modo sinergico. Zappiamo poco e capita che nell’orto ci spunta qualche piccola quercia, a tempo debito la trapiantiamo dove possibile, così diamo il nostro piccolo contributo per “forestare” la città. Ci battiamo contro il consumo di suolo e recentemente siamo riusciti a fermare una lottizzazione che avrebbe cementificato un bellissimo prato, in zona peraltro alluvionata. In famiglia abbiamo da poco comprato ‘pizza box’, contenitori per pizza d’asporto per evitare gli ingombranti cartoni e risparmiare sulla carta. Abbiamo inoltre inventato la ‘stoviglioteca’, un kit di piatti e bicchieri lavabili da prestare a chi organizza feste a zero waste”.Linda Maggiori è inoltre impegnata nei progetti di educazione ambientale nelle scuole. “Mi chiamano – aggiunge Maggiori – le scuole per presentare i miei libri, come il mio ultimo libro Mamme Ribelli (Terra Nuova Edizioni, 2023), che tratta delle lotte femminili nelle zone contaminate d’Italia. I ragazzi sono molto appassionati, spesso non basta il tempo per rispondere a tutte le loro domande. Di solito presento una mappa muta d’Italia, con le zone SIN più contaminate e relative sorgenti. È anche un nuovo modo di pensare la geografia, i ragazzi scoprono che dietro il velo del benessere portato dall’industrializzazione si nascondono interi territori sacrificati e ingiustizie indicibili”.

    Lo scorso marzo ha inoltre ottenuto il ”Premio nonviolenza”, nato nel 2016 a Monteleone di Puglia per onorare le donne che hanno dedicato la loro vita alla pace ma non è ottimista sul tema del cambiamento climatico. “Sul nostro futuro – conclude Maggiori – sono molto pessimista. Siamo in una grave crisi climatica ed ecologica e non è detto che riusciremo a uscirne, soprattutto perché chi ci governa non fa abbastanza per invertire la rotta, anzi si regalano miliardi di euro al fossile e agli armamenti. Purtroppo anche la guerra ha un impatto ambientale devastante, non solo laddove si scatena, ma anche dove si prepara. Presto andrò a trovare le mamme di Warfree che lottano contro la fabbrica di armi RWM, che, oltre a fabbricare ordigni di morte, ha devastato l’ambiente con il suo ampliamento. Ma questo pessimismo non blocca l’azione, non bisogna lasciarsi prendere dallo sconforto, finché ci sono le forze bisogna lottare. Lo dobbiamo ai nostri figli”. LEGGI TUTTO

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    Così la stella marina potrebbe salvare gli ecosistemi marini

    Un po’ come i boschi terrestri sono fondamentali per contribuire alla produzione di ossigeno che respiriamo, nelle acque degli oceani, lo stesso ruolo primario per la vita, viene svolto dalle foreste di kelp, dense aggregazioni di alghe, che rappresentano tra i più produttivi e diversificati habitat della Terra. “Le foreste di kelp ospitano un’elevata biodiversità e supportano numerosi servizi ecosistemici tra cui l’approvvigionamento di cibo tramite la pesca, il ciclo dei nutrienti e la protezione delle coste dall’erosione, per un valore calcolato in miliardi di dollari all’anno, ma in realtà inestimabile”, spiega Stefania Coppa, biologa marina, ricercatrice presso l’IAS del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Oristano, in Sardegna, che aggiunge: “la riduzione delle foreste di kelp a livello globale avrebbe un impatto di vasta portata sullo stato di salute del mare e sui servizi ecosistemici da esse erogati”.

    I cambiamenti climatici che stanno alterando gli ecosistemi terrestri, minacciano anche queste foreste sottomarine. “Le minacce che possono mettere a rischio questo habitat sono tutte di origine antropica: l’inquinamento, il riscaldamento globale, la raccolta diretta, l’impatto di attività sia professionali che ricreative, la diffusione di specie aliene e le modifiche strutturali della fascia costiera, come la costruzione di infrastrutture che può comportare cambiamenti del regime idrodinamico con conseguente aumento della torbidità”, spiega la ricercatrice del Cnr. A tutto questo si aggiunge un altro nemico: il riccio di mare viola, il cui numero è aumentato in modo spropositato, che si nutre di alghe. “Anche in questo caso il problema principale siamo noi, perché abbiamo fatto diminuire eccessivamente i loro predatori naturali, come le lontre e le stelle marine girasole. Le prime sono state cacciate indiscriminatamente in passato per la pelliccia, invece per quanto riguarda le stelle girasole, la causa principale è il riscaldamento del mare”, evidenzia ancora Stefania Coppa.

    Un nuovo studio condotto da ricercatori di diverse università americane e pubblicato su The Royal Society Publishing, potrebbe aver trovato una soluzione: soluzione che si trova nello stesso ecosistema. Si chiama Pycnopodia helianthoides, la stella marina di girasole dell’Oregon appena citata dalla ricercatrice italiana, a rischio estinzione, ma che sarebbe in grado di salvare le foreste di alghe. “La causa principale della sua quasi estinzione è il riscaldamento del mare che ha favorito le condizioni ambientali utili alla proliferazione di patogeni e alla generazione di eventi di mortalità di massa come nel caso della Sea Star Wasting Disease, registrata dal 2013 che ne ha determinato la quasi totale scomparsa”, dice Coppa.

    Si, perché se le lontre sono predatrici di ricci di mare, a loro volta questi sono “cacciati” anche dalle stelle marine, che potrebbero riequilibrare il sistema. Questa è la tesi dello studio americano, in cui gli studiosi hanno raccolto esemplari sani di stelle marine ed eseguito un esperimento alimentare: hanno cibato le stelle marine con ricci di mare, scoprendo quanto ne siano ghiotte. “Hanno dimostrato che una stella girasole può consumare mediamente 0.68 ricci di mare viola al giorno e che il tasso di predazioni è maggiore su ricci che non si sono nutriti. Riuscire a riportare l’abbondanza delle stelle girasole a livelli pre-moria potrebbe ristabilire il controllo della popolazione di ricci viola e al contempo garantire il buono stato di salute delle foreste di kelp. Tuttavia, se le condizioni ambientali sfavorevoli che hanno determinato la moria delle stelle girasole permangono, la semplice reintroduzione delle stelle girasole non sarà sufficiente a ristabilire le condizioni iniziali”, avvisa la biologa marina del Cnr.

    Attenzione però, che gli effetti antropici sono globali. Aggiunge Coppa: “Nel nostro Mar Mediterraneo, non c’è il kelp, ma altre foreste di origine animale o vegetale egualmente importanti dal punto di vista ecologico. Lo stesso vale anche per il verificarsi di morie di massa. La più recente è quella che dal 2016 sta portando quasi all’estinzione una specie endemica del Mediterraneo: Pinna nobilis, conosciuta anche come nacchera di mare, uno dei più grandi molluschi bivalvi al mondo”. LEGGI TUTTO

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    Pulire casa: come farlo in modo ecologico e sotenibile

    Lustrare le tapparelle, tirare a lucido i pavimenti, far splendere balconi e terrazze. Per molti la primavera è il momento giusto per dedicarsi alle grandi pulizie, oltre che per riordinare e rinnovare la casa. “Un’abitazione più pulita contiene meno germi e meno allergeni ed è quindi più sana”, sostiene Tricia Wolanin, psicologa e consulente per il benessere, “ma riesce anche a migliorare l’umore, rendendoci più concentrati e meno stressati”. L’importante è procedere nel rispetto dell’ambiente e della nostra salute. Ecco allora una mini-guida che, stanza per stanza, fornisce consigli e soluzioni green.

    Il tutorial

    Non spazziamo via le foglie: riusiamole per un giardinaggio a rifiuti-zero

    di Gaetano Zoccali

    19 Novembre 2022

    In cucina: attenti ai “cov”

    Tra fornelli e lavello, unto e incrostazioni ostinate si moltiplicano. Meglio, tuttavia, evitare detersivi aggressivi, che contengono candeggina o ammoniaca, sostanze chimiche che rilasciano composti organici volatili (COV), noti per esacerbare l’asma, provocare mal di testa e reazioni allergiche, incrementare perfino il rischio di cancro al fegato, ai reni, alla tiroide. Secondo l’Environmental Protection Agency, i livelli di questi composti, che finiscono con l’accumularsi sulle superfici domestiche, sono da due a cinque volte più elevati tra le mura di casa rispetto all’esterno. 

    Per scegliere i detergenti più sostenibili, tra i tanti presenti sugli scaffali del supermercato, è indispensabile rintracciare le certificazioni verdi. Tra queste, Eco detergenza o Eco bio detergenza, rilasciate dall’Istituto di certificazione etica e ambientale (Icea); Detergenza Pulita, erogata dall’Associazione italiana per l’agricoltura biologica (Aiab); Ecolabel Ue, marchio europeo che attesta il ridotto impatto sull’ambiente. Occorre poi verificare, tramite un’attenta lettura dell’etichetta, che nella formulazione siano presenti tensioattivi di origine vegetale, per esempio derivanti dal cocco, dalla palma, dall’olio di oliva, dal grano, e privi di coloranti. In ogni caso, il suggerimento è quello di utilizzare sempre poche gocce di prodotto, in modo da ridurre l’eventuale impatto e gli sprechi. Attenzione anche all’imballaggio: prediligete l’acquisto di detersivi sfusi o con contenitori ricaricabili. 

    Come suggerisce Kathryn Kellogg, autrice di 101 Ways to Go Zero Waste, l’ideale è comunque optare per prodotti naturali, che tutti abbiamo in frigo o in dispensa, come succo di limone, aceto bianco, bicarbonato di sodio, sapone di Marsiglia, che non costituiscono un pericolo per l’ambiente nemmeno quando finiscono nello scarico. 

    Dopo aver chiarito quali detergenti usare in cucina, un trucco per pulire gli angoli, dove si accumulano residui di cibo misti a polvere: usate un vecchio spazzolino da denti e ogni traccia sparirà. 

    Infine, ricordate che la pulizia richiede molta acqua, una risorsa limitata. Per questo, se vi ritrovate una pila di piatti nel secchiaio, preferite la lavastoviglie, purché a pieno carico, al lavaggio a mano: la prima utilizza, infatti, quattro litri d’acqua per ciclo, mentre il secondo può richiederne fino a 20.

    Il tutorial

    Non spazziamo via le foglie: riusiamole per un giardinaggio a rifiuti-zero

    di Gaetano Zoccali

    19 Novembre 2022

    In soggiorno: dal router al tappeto

    È tempo di spazzare via la polvere che si è accumulata durante l’inverno, anche a causa di termosifoni e stufe, soprattutto sugli oggetti elettrici, come tv e router wi-fi.

    Da evitare asciugamani di carta e salviette detergenti monouso, che finiscono nelle discariche, incrementando le emissioni di carbonio. Via libera, invece, a spugne biodegradabili e a panni lavabili e riutilizzabili. Quelli in microfibra, con l’aggiunta della sola acqua, possono rimuovere fino all’98% dei batteri dalle superfici lisce. Si possono anche utilizzare vecchi abiti, camicie, lenzuola, federe come stracci: un modo per prolungare la vita delle stoffe e per risparmiare. 

    Una dritta per la pulizia dei tappeti: cospargeteli uniformemente di bicarbonato, lasciate agire per almeno un’ora e rimuovete l’eccesso con l’aspirapolvere alla minima velocità, se possibile utilizzando un beccuccio adatto ai tessuti. Per ravvivare i colori, miscelate poi un litro di acqua fredda e mezzo bicchiere di aceto bianco, inumidite un panno e sfregate delicatamente in direzione del pelo. Non esponete mai i tappeti al sole.

    Ambiente

    Il bucato green in 10 mosse per un guardaroba sostenibile

    a cura di Fiammetta Cupellaro

    17 Settembre 2022

    In bagno: via il calcare

    Uno dei nemici di un bagno splendente è il famigerato calcare, che si annida nei rubinetti, nella vasca, nel lavabo. Per contrastarlo meglio evitare i prodotti tradizionali, che contengono fosforo, fosfati, fosfonati, e puntare su quelli ecologici a base di citrato di sodio e silicati lamellati. Per i sanitari è utile l’acqua ossigenata, che ha un’azione sbiancante, sanificante, antibatterica, mentre per gli specchi e le ante della doccia, ma anche per i lampadari, è perfetto l’aceto bianco diluito con acqua (una parte del primo, due della seconda) messo in un contenitore spray per agevolarne l’impiego. 

    Sconsigliati i deodoranti per ambienti: sono una fonte concentrata di contaminanti dell’aria, come composti organici volatili e ftalati, usati come fissativi per le fragranze. Meglio allora aprire la finestra del bagno e usare qualche goccia di olio essenziale profumato. 

    In questa stagione capita anche di lavare, nella zona adibita a lavanderia, maglioni, sciarpe, piumini, in modo che siano pronti per l’inverno prossimo. Lasciateli asciugare all’aria su uno stendino, dentro o fuori casa, piuttosto che attivare l’asciugatrice. Così ridurrete l’impronta di carbonio e risparmierete anche sulla bolletta.

    In camera da letto: addio acari

    Togliete tende, lenzuola, coprimaterasso, federe, sottofedere e metteteli a lavare. Per igienizzare il materasso ed eliminare gli acari usate la stessa tecnica valida per i tappeti: cospargete con il bicarbonato, lasciate agire per almeno mezza giornata, quindi rimuovere l’eccesso con l’aspirapolvere. Intanto procedete alla pulizia delle doghe, della testiera e delle fasce laterali del letto: è sufficiente un panno umido per asportare la polvere che si è accumulata nei mesi più freddi. Lo stesso vale per lampade e comodini. 

    Poi svuotate armadi e cassetti, in modo da poter pulire bene gli interni. Aggiungete qualche goccia di essenza di lavanda o cannella per tenere alla larga le tarme. LEGGI TUTTO

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    Meno emissioni e soldi ai Paesi in via di sviluppo: al via il G7 sull’ambiente

    Meno emissioni di CO2, più soldi ai Paesi in via di sviluppo. Sono questi, in estrema sintesi, i due poli tra cui oscillerà il G7 dedicato al clima, all’energia e all’ambiente che prenderà il via domenica sera con la cena a cui sono invitati i ministri dei sette Paesi più industrializzati, ma che entrerà nel vivo lunedì, per poi concludersi nel primo pomeriggio di martedì con un comunicato congiunto. Come quelli dedicati alla politica estera (pochi giorni fa a Capri) e all’economia, questi vertici sono preparatori del summit dei capi di Stato e di governo del G7 che si terrà a Borgo Egnazia, in Puglia, dal 13 al 15 giugno. In quell’occasione i leader non potranno affrontare tutti i dossier e dunque i rispettivi ministri si portano avanti con il lavoro.

    Nell’evento torinese, padrone di casa (la Venaria Reale) il ministro italiano dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin, si discuterà appunto di clima, fonti energetiche e finanza. Questo G7 Clima, arriva dopo la storica Cop28 di Dubai, che ha sdoganato la “transition away” dai combustibili fossili, e pochi mesi prima della Cop29 di Baku, che si concentrerà soprattutto sugli aiuti economici che i Paesi più vulnerabili alla crisi climatica chiedono ai “ricchi”. Tra i Paesi del G7, Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Giappone, Italia, Canada, Francia, molti sono quelli che hanno le maggiori responsabilità storiche in fatto di emissioni di CO2. Per questo (e anche in virtù della loro forza economica e tecnologica) è richiesto loro lo sforzo maggiore in fatto di decarbonizzazione. Gli impegni presi in tal senso non mancano, ma, come spesso accade in queste vicende, non vengono mantenuti.

    Il bilancio

    Cop28, vertice storico ma non basta per fermare la corsa della crisi climatica

    di Luca Fraioli

    16 Dicembre 2023

    A pochi giorni dal vertice di Torino, l’associazione Climate Analytics ha analizzato i piani di riduzione delle emissioni dei Paesi del G7, riscontrando che nessuno di essi è in traiettoria per raggiungere gli obiettivi fissati al 2030. “I governi del Gruppo dei Sette sono sulla strada per raggiungere appena la metà delle riduzioni delle emissioni di gas serra necessarie entro il 2030 per raggiungere l’obiettivo di 1,5°C previsto dall’Accordo di Parigi”, scrivono i ricercatori. “Le economie del G7 dovrebbero ridurre le proprie emissioni del 58% entro il 2030, rispetto ai livelli del 2019, per fare la loro parte nel limitare il riscaldamento a 1,5°C. L’attuale livello di ambizione collettiva del G7 per il 2030 è pari al 40-42%, e dunque insufficiente. E le politiche esistenti suggeriscono che il G7 probabilmente raggiungerà solo una riduzione del 19-33% entro la fine di questo decennio”.

    Dunque tagliare le emissioni molto di più (sia della teoria che ancor più della pratica). Ma come? Innanzitutto definendo degli Ndc (Contributi determinati a livello nazionale) molto più ambiziosi degli attuali. E poi attuando politiche in grado di conseguirli. Per esempio, impegnandosi a a eliminare la produzione nazionale di energia elettrica da carbone e gas fossile, rispettivamente entro il 2030 e il 2035. Porre fine ai finanziamenti pubblici e ad altri tipi di sostegno ai combustibili fossili all’estero. “L’Italia e il Giappone, l’attuale e la precedente presidenza del G7, sono tra i primi 5 Paesi che sovvenzionano progetti di combustibili fossili nel G20”, fanno notare da Climate Analytics. E ancora: accelerare l’obiettivo (concordato da tutti a Cop28) di triplicare le energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030.

    Decarbonizzazione

    Nessun paese del G7 è in linea con gli obiettivi di ridurre le emissioni climalteranti

    di Giacomo Talignani

    23 Aprile 2024

    Recepiranno tali input i “sette Grandi” riuniti a Torino? Difficile. Il Giappone è molto legato al carbone, l’Italia continua a sognare un ruolo da “hub europeo del gas”, a promettere battaglia contro il divieto europeo di produrre automobili a combustione interna a partire dal 2035 scommettendo sui biocombustibili. Nonostante lo stop a nuove esportazioni di gas naturale liquefatto da parte dell’Amministrazione Biden, gli Usa restano tra i principali produttori mondiali di gas fossili. Così come il Canada. Il G7 procede in ordine sparso anche sul nucleare. La Germania vi ha rinunciato (e c’è chi attribuisce a tale stop la crisi economica tedesca). La Francia continua a puntarci e l’Italia vorrebbe imitarla. Domenica a Torino anche un convegno sull’energia atomica organizzato da Newcleo, Atlantic Council e ISPI, “The Role of Nuclear in the Energy Transition”: tra gli ospiti, il direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale per l’energia Fatih Birol. Lo stesso Birol, sempre domenica a Torino, terrà un discorso alla conferenza degli industriali del G7 (la sigla in questo caso è B7: Business Federations of the Group of Seven), altro evento organizzato in vista del G7 energia e clima.

    Tornando al vertice dei ministri: come capiremo se è stato un successo?. “Occorrerà leggere con grande attenzione la dichiarazione finale di Torino per capire come sono andate davvero le cose”, spiega Luca Bergamaschi, cofondatore di Ecco, il think tank italiano per il clima. “Ai temi davvero importanti per il G7 sarà dedicato ampio spazio, mentre poche righe potrebbero essere riservate a tematiche che interessano i singoli governi. Che però poi li potrebbero rivendicare di fronte ai media come un riconoscimento della loro posizione. Potrebbe essere il caso del gas naturale, dei biocombustibili e del nucleare per l’Italia”. C’è infine la finanza climatica. I Paesi ricchi sono ancora lontani dal mantenere la promessa fatta anni fa: 100 miliardi di dollari l’anno fino al 2025. E dopo il 2025? Non ci sono promesse né impegni. Se ne parlerà appunto a Baku, in Azerbaigian, il prossimo novembre a Cop29. Ma di certo ne parleranno anche i ministri e gli inviati speciali per il clima lunedì e martedì a Torino. LEGGI TUTTO