consigliato per te

  • in

    G7 ambiente, nell’accordo l’addio al carbone, spinta sulle rinnovabili e porte aperte alla mobilità elettrica

    Addio al carbone, benvenuta mobilità elettrica. E ancora: una spinta alle rinnovabili grazie all’aumento della capacità di stoccaggio delle batterie. Infine il riconoscimento che non bastano le centinaia di miliardi di dollari finora promessi ai Paesi vulnerabili e a quelli in via di sviluppo per fronteggiare la crisi: occorroo migliaia di miliardi e nuove strategie di finanza pubblica e privata per reperirli. Sono questi i punti principali del testo finale su cui è stato raggiunto l’accordo tra le delegazioni del G7 di Torino dedicato a Clima, energia e ambiente. Ne escono molto ridimensionati alcuni dei cavalli di battaglia del governo italiano. I biocombustibili sono appena menzionati, mentre, come detto, per la mobilità stradale i sette grandi riconoscono che il futuro sono in realtà i motori elettrici. Il G7 fa sua l’analisi dell’Agenzia internazionale per l’energia, “secondo cui l’elettrificazione è la tecnologia chiave per la decarbonizzazione del trasporto stradale”.  I biofuel vengono citati, nel testo finale, solo una volta come possibile soluzione per le industrie energivore le cui emissioni sono difficili da abbattere (hard to abate).

    Energia

    G7 Ambiente, il ministro britannico Bowie: “Senza nucleare non si raggiunge il net zero”

    di Luca Fraioli

    30 Aprile 2024

    Sembra anche archiviato, almeno in questo vertice, il progetto di fare dell’Italia un hub europeo del gas naturale. Il paragrafo dedicato al ruolo del gas è chiaro: “Nella circostanza eccezionale di accelerare la graduale eliminazione della nostra dipendenza dall’energia russa, gli investimenti finanziati con fondi pubblici nel settore del gas possono essere appropriati come risposta temporanea, soggetta a circostanze nazionali chiaramente definite, se attuati in modo coerente con i nostri obiettivi climatici senza creare effetti di lock-in, ad esempio garantendo che i progetti siano integrati nelle strategie nazionali per lo sviluppo dell’idrogeno rinnovabile e a basse emissioni di carbonio”. Insomma, niente investimenti pubblici in infrastrutture per il gas, se non per superare l’emergenza. Il nucleare è riconosciuto come una opzione nella costruzione di un mix energetico per la decarbonizzazione, ma senza particolare enfasi. “Quei Paesi che scelgono di utilizzare l’energia nucleare o ne sostengono l’uso riconoscono il suo potenziale come fonte di energia pulita, a emissioni zero, che può ridurre la dipendenza dai combustibili fossili per affrontare la crisi climatica e migliorare la sicurezza energetica globale… mentre i Paesi che non utilizzano l’energia nucleare o non ne supportano l’uso preferiscono altre opzioni per raggiungere gli stessi obiettivi, prendendo in considerazione i rischi e i costi associati all’energia nucleare”. Una posizione frutto del duro braccio di ferro con la Germania, fermissima nel suo no all’atomo. Si parla di fusione, con l’istituzione di un gruppo di lavoro che condivida tra i Paesi G7 le migliori pratiche “per accelerare lo sviluppo e la dimostrazione di impianti a fusione, incoraggiando l’aumento degli investimenti privati e pubblici”.

    Decarbonizzazione

    Nessun paese del G7 è in linea con gli obiettivi di ridurre le emissioni climalteranti

    di Giacomo Talignani

    23 Aprile 2024

    Ma se si cercano numeri e impegni concreti presi nella due giorni alla Venaria Reale, bisogna appunto guardare altrove. Il carbone innanzitutto: il G7 si impegna a chiudere entro il 2035 (“entro la prima metà degli anni Trenta”) le centrali alimentate dal più inquinante dei combustibili fossili, limitandone nel frattempo l’uso al minimo necessario. Per quanto riguarda le rinnovabili e l’elettrificazione, i Sette si impegnano a contribuire a sestuplicare la capacità degli accumuli di energia al 2030, portandola fino a 1.5 TW, a livello globale. Non solo: promettono di aumentare significativamente gli investimenti nelle reti di trasmissione e distribuzione dell’energia elettrica entro il 2030, riconoscendo che sono necessari 600 miliardi di dollari all’anno per raggiungere gli obiettivi climatici annunciati. Altro obiettivo fissato a Torino, la riduzione del 75% al 2030 delle emissioni di gas metano dalle filiere dei combustibili fossili.

    Ampio capitolo dedicato alla finanza climatica e alla solidarietà dei Paesi ricchi nei confronti di quelli in via di sviluppo. Si confermano le promesse fatte all’Africa: 100 miliardi di dollari l’anno per il periodo 2020-2025. Ma per la prima volta il G7 ammette che si devono mobilitare migliaia di dollari: “Sottolineiamo che questi sforzi si inseriscono nel contesto di uno sforzo globale più ampio volto a potenziare e allineare la finanza pubblica e privata da tutte le fonti per mobilitare i trilioni necessari per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi”. Al termine del vertice, il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin si è detto molto soddisfatto: “E’ stato possibile coniugare le differenti esigenze e sensibilità nel segno di un obiettivo condiviso, che è ambientale ed energetico ma anche improntato alla solidarietà fra i Paesi del G7 e quelli in via di sviluppo. Vanno in questa direzione le decisioni assunte sull’uscita dal carbone, sulla moltiplicazione della capacità di accumulo di energia, sul sostegno all’adattamento nei Paesi del sud del mondo, sull’energia da fusione. E’ importante che le grandi economie del pianeta assumano la responsabilità e l’onere anche finanziario di condurre la sfida per la transizione ecologica e per attuare un nuovo modello di sviluppo sostenibile”. LEGGI TUTTO

  • in

    G7 Ambiente, il ministro britannico Bowie: “Senza nucleare non si raggiunge il net zero”

    Andrew Bowie, ministro britannico per l’Energia, si presenta all’appuntamento nei giardini della Venaria Reale con bene in vista la spilla su cui è scritto “nuclear”. Nel primo giorno di questo G7 torinese dedicato a Clima, energia e ambiente, ha bruciato tutti sul tempo (rischiando un incidente diplomatico con il presidente del vertice, il ministro italiano Pichetto Fratin) svelando l’accordo raggiunto dai sette grandi sullo stop al carbone entro il 2035. Ma il suo cavallo di battaglia sono appunto le centrali atomiche: “Siamo convinti che non ci sia la possibilità di raggiungere l’obbiettivo net zero senza il nucleare. Ma in realtà come dimostra l’impegno preso alla Cop28 di Dubai da 30 nazioni per incrementare la capacità di produzione di energia atomica del 30% entro il 2050, in tutto il mondo il nucleare sta dimostrando che può giocare un ruolo chiave nel mix energetico che ci permetterà di azzerare le emissioni”, spiega questo 37enne politico scozzese.

    Il vertice

    L’addio al carbone nel 2035 e lo stop all’inquinamento da plastica sul tavolo del G7 sull’ambiente

    di Luca Fraioli

    29 Aprile 2024

    Ministro  Bowie cominciamo comunque dal carbone, primo risultato di questo G7.

    “Non voglio scendere nei dettagli, prima della pubblicazione del documento finale del vertice. Quel che è certo è che dobbiamo usare sempre meno carbone, per poi abbandonarlo. E dobbiamo sostenere i Paesi in via di sviluppo nel loro cammino verso l’obiettivo emissioni zero. In questo senso il G7 è una piattaforma che può offrire una leadership credibile”.

    In cosa consiste invece l’impegno nucleare dell’attuale governo britannico?

    “Ci siamo impegnati a coprire il 25% della domanda energetica nazionale con le centrali atomiche entro il 2050. E stiamo investendo sul nucleare più di quanto si sia fatto negli ultimi decenni. Abbiamo una roadmap che prevede small modular reactors, advanced modular reactors, ma anche grandi centrali come quelle attuali”.

    A che punto sono i nuovi impianti nucleari?

    “Una centrale è in costruzione. Stiamo raccogliendo finanziamenti per un secondo impianto e ci siamo impegnati a costruirne un terzo. Queste tre centrali saranno poi affiancate dagli small modular reactors”.

    Anche in Italia si parla molto di smr. Ma, secondo le vostre previsioni, quando diverranno una realtà industriale?

    “Qui a Torino ho provato invidia per il mio collega canadese, che avrà un smr allacciato alla rete elettrica in Ontario dal 2029: sarà il primo al mondo. Noi vorremmo avere il secondo. Quindi direi nei primi anni Trenta. Anche perché c’è una grandissima competizione tra le aziende di questo settore, che sta accelerando i tempi”.

    Il ritorno del nucleare e la conseguente richiesta di uranio non creerà una nuova forma di “dipendenza energetica”?

    “Noi ci siamo impegnati in modo categorico affinché la Russia non abbia più alcun ruolo nel nostro approvvigionamento di uranio, né nell’intera filiera del combustibile fissile. Pe questo pochi mesi fa abbiamo sbloccato circa 200 milioni di sterline da investire nello sviluppo di tecnologie per l’arricchimento dell’uranio nel Regno Unito. Inoltre stiamo lavorando con i nostri alleati per fare in modo che i nostri reattori non usino uranio russo. Al momento dà un contributo molto piccolo, ma contiamo di ridurlo a zero in pochi anni, entro il 2028”.

    Non avete un problema di accettabilità sociale? Nemmeno tra chi vive accanto ai depositi di scorie?

    “Nel Regno Unito c’è un ampio sostegno all’energia nucleare, ed è un giudizio trasversale, rispetto all’età e ai ceti sociali. E questo perché le persone riconoscono che non potremo raggiungere il net zero senza un mix energetico che contempli anche il nucleare. E che l’energia atomica ci garantisce anche una maggior sicurezza energetica, senza dover contare sui combustibili fossili di Paesi come la Russia. Per quanto riguarda le scorie, abbiamo pianificato da tempo la costruzione di depositi geologici, sull’esempio di quello finlandese. Attualmente le scorie sono stoccate a nell’impianto di Sellafield, che riteniamo sia sicuro ancora per molti anni”.

    Il governo di cui lei fa parte è stato accusato di aver fatto una inversione a U sulle rinnovabili, tagliando molti progetti eolici e fotovoltaici.

    “E’ assolutamente falso. Nessuna retromarcia sulle rinnovabili. Abbiamo i più grandi impianti eolici off shore del mondo, il nostro target è di 50 gigawatt da rinnovabili, di cui 5 gigawatt da eolico flottante, stiamo sviluppando 7 gigawatt di fotovoltaico sui tetti entro il 2035. Siamo impegnati a 360 gradi sulle decarbonizzazione e siamo stati la prima nazione europea a legiferare sul net zero entro il 2050”. LEGGI TUTTO

  • in

    Nel mondo soffocato dalla plastica sono 54 le aziende che producono la metà dei rifiuti

    La plastica che troviamo per strada, in spiaggia, in mare, nei boschi non è frutto del caso. Quello che troviamo riflette i nostri consumi, le nostre abitudini (e cattive abitudini in fatto di smaltimento, a volte), ma indirettamente è anche una cartina tornasole del contributo delle diverse aziende al problema dell’inquinamento da plastica. Quando si studia scientificamente il fenomeno si scopre infatti che è possibile in buona parte identificare da dove arrivano le plastiche presenti nell’ambiente, risalendo alle aziende da cui sono uscite. Questo è esattamente quello che ha fatto un team di ricercatori analizzando i dati raccolti grazie a un progetto di citizen science, scoprendo che oltre la metà dei rifiuti trovati è riconducibile ad appena 56 aziende, soprattutto a quelli produttrici di cibo e bevande.

    Il dato è contenuto nel lavoro appena presentato da un gruppo di esperti sulle pagine di Science Advances, reso possibile solo grazie all’attività portata avanti dal progetto #BreakFreeFromPlastic, che si occupa appunto di raccogliere rifiuti di plastica e di identificarne i produttori. Nel complesso stavolta sono stati analizzati circa 2 milioni di oggetti provenienti dalle attività di raccolta in 84 paesi, rappresentativi, spiegano gli autori, di circa l’80% della popolazione, da cui arriva gran parte della plastica globale. Per oltre la metà degli oggetti raccolti non era possibile risalire al produttore, per gli altri sì, e pur tra le migliaia totali di aziende identificate la gran parte dei rifiuti non proveniva che da una manciata di queste.

    Rifiuti

    Via libera al nuovo regolamento per gli imballaggi in plastica nella Ue

    di Cristina Bellon

    24 Aprile 2024

    Se infatti, scrivono gli autori, in totale sono quasi 20 mila le diverse aziende identificate, oltre la metà della plastica proveniva da solo 56 di queste. Ma non solo: il 24% degli oggetti identificati arrivava da appena 5 aziende, che sono Coca-cola, PepsiCo, Nestlé, Danone, e Altria (Philip Morris). Il dato sulla Coca-cola è abbastanza impressionante: più di un rifiuto su dieci arrivava da qui. “Gli studi condotti in passato hanno bollato paesi come Filippine, Indonesia, Sri Lanka, Bangladesh, Nigeria, come le principali fonti di rifiuti di plastica nell’oceano – ha dichiarato in una nota dalla Break Free From Plastic Jorge Emmanuel della Silliman University, tra gli autori del paper – Questo ha portato a una narrazione sui social media che incolpa i paesi poveri per l’inquinamento globale da plastica, ignorando il fatto che intorno agli anni Sessanta le aziende hanno inondato i paesi in via di sviluppo con plastica monouso a basso costo, sostituendo i tradizionali materiali biodegradabili e sistemi sostenibili di riutilizzo e ricarica che, nel caso delle Filippine, risalgono al sedicesimo secolo. Lo studio attuale invece si concentra sul ruolo delle aziende e sulla produzione globale di plastica”.

    Questo indica, scrivono gli esperti, che sarebbe quanto mai auspicabile un’inversione di tendenza: serve ridurre il consumo e ancor prima la produzione di plastica, soprattutto per quella usa e getta, soprattutto con iniziative che coinvolgano le grandi aziende, e puntare sul riutilizzo. L’ennesimo appello arriva anche alla luce del fatto che non ci sono solo i dati sui rifiuti a puntare il dito sulla responsabilità delle aziende, ma anche quelli della produzione, perché esiste una diretta correlazione tra produzione e inquinamento da plastica, confermano le analisi degli autori. LEGGI TUTTO

  • in

    Da chi ha salvato ettari di foreste a chi ha disinnescato “bombe al carbonio”, ecco i vincitori del “Nobel dell’ambiente”

    C’è chi come Teresa Vicente si è battuta per dare una chance di sopravvivenza ai cavallucci marini assediati dall’inquinamento nelle acque spagnole. Oppure chi come Andrea Vidauerre ha lottato senza sosta, ottenendo una storica vittoria, per migliorare l’aria della California. O ancora chi ha dedicato la propria vita a proteggere gli ecosistemi marini d’Africa. Sette “combattenti” per l’ambiente, selezionati fra oltre cento candidati, tutti premiati con il Goldman Prize 2024, riconoscimento considerato una sorta di Premio Nobel per l’ecologia e l’ambiente. “Sette leader che hanno rifiutato di compiacersi in mezzo alle avversità, o di lasciarsi intimorire da potenti aziende e governi. Da soli, i loro risultati ottenuti in tutto il mondo sono stati impressionanti. Insieme, costituiscono una forza collettiva e un movimento globale in crescita pieno di speranza” ha detto introducendo i vincitori dell’edizione 2024 del premio il  presidente della Goldman Environmental Foundation, John Goldman.

    Emblematica è per esempio la storia di Teresa Vicente, 61 anni, professoressa di filosofia del diritto all’Università di Murcia. Cresciuta nuotando nelle acque trasparenti del Mar Menor in Spagna, nel corso di decenni ha visto cambiare questo ecosistema davanti ai suoi occhi a causa della contaminazione da attività minerarie, sviluppo urbanistico e deflusso agricolo. Le acque un tempo cristalline erano diventate sempre più inquinate e nella laguna salata fra le più grandi d’Europa le tante specie, compresi i cavallucci, stavano iniziando a scomparire. Così – anche grazie alla sua esperienza professionale – ha avviato una campagna che nel tempo ha visto la partecipazione di circa 640mila persone unite nel chiedere una legge per la protezione del Mar Menor, soprattutto dopo la moria di pesci del 2019. Nel 2022 la legge che conferisce alla laguna il “diritto legale alla conservazione, protezione e riparazione dei danni” è stata finalmente approvata grazie a un numero straordinario di firme e di cittadini impegnati, trascinati da Vicente nella battaglia. “Le persone avevano capito che facevano parte di quell’ecosistema ed erano entusiaste dell’idea di poter difendere i propri diritti. Quando le persone dimenticano le loro differenze politiche, religiose o economiche e si abbandonano a una nuova idea di giustizia, questo è un sicuro successo” ha raccontato poi la docente spagnola.

     Ad ispirare l’idea di battersi per salvaguardare gli ecosistemi è anche la storia di Sinegugu Zukulu e Nonhle Mbuthuma, vincitori del Goldman Prize per i loro impegno in Sudafrica. Qui gli attivisti indigeni, grazie a una lunga lotta, nel 2022 sono riusciti a interrompere i test sulle esplorazioni petrolifere e del gas al largo del Capo Orientale in un’area conosciuta come Wild Coast. In questa zona, ricchissima di biodiversità, in uno specchio di mare popolato da delfini e balene, i test esplorativi alla ricerca di combustibili fossili e per piattaforme offshore stavano mettendo in ginocchio gli ecosistemi marini. Affermando il diritto della comunità locale “a proteggere il proprio ambiente marino” i due sudafricani sono riusciti a interrompere le esplorazioni che, anche attraverso i sistemi sonori, stavano impattando direttamente sullo zooplancton, fonte di vita per i mammiferi marini. Grazie al loro impegno Nonhle, 46 anni e Sinegugu, 54 anni, difendendo i diritti del territorio tradizionale del popolo Mpondo hanno ottenuto così la protezione dell’area e lo stop alle esplorazioni, un beneficio che a loro dire sarà a favore di chiunque dato che “la vita naturale è intrecciata con le nostre vite” hanno ricordato.

    Vittoria, in termini ambientali e benefici umani, anche per il Brasile di Marcel Gomes, segretario quarantacinquenne di Repórter Brasil, media senza scopo di lucro che lavora per diritti umani e ambientali. Gomes – secondo le motivazioni del premio – ha contribuito a organizzare una campagna “che mostrava i collegamenti tra la carne bovina della più grande società di confezionamento della carne del mondo, JBS, e la deforestazione illegale in Brasile”. Grazie ai suoi report e alla sua campagna “ha contribuito a fare pressione sui rivenditori di tutto il mondo affinché smettessero di vendere la carne”. Una pressione, quella esercitata a suon di inchieste e giornalismo investigativo, che ha portato sei importanti catene di supermercati europee (in Belgio, Francia, Paesi Bassi e Regno Unito) a fermare a tempo indeterminato nel 2021 la vendita dei prodotti che impattavano direttamente sulle foreste del Cerrado.

     Murrawah Maroochy Johnson, 29 anni, ha invece disinnescato una potenziale “bomba al carbonio”. Questa donna Wirdi della nazione Birri Gubba in Australia, diventata attivista a soli 19 anni, ha guidato insieme ad altri rappresentanti locali una battaglia per fermare lo sviluppo della miniera di carbone di Waratah, che secondo report scientifici avrebbe accelerato il cambiamento climatico nel Queensland e “distrutto il Rifugio Naturale Bimblebox di quasi 20.000 acri oltre che aggiunto 1,58 miliardi di tonnellate di CO2 nell’atmosfera nel corso della sua vita e minacciato i diritti e la cultura degli indigeni”. Nell’Australia del carbone l’azione di Murrawah, che ha vinto in appello un contenzioso per fermare la miniera, costituisce un importante precedente per altri popoli nel contestare e bloccare eventuali progetti legati alle fonti fossili che impattano direttamente sulla crisi del clima. Infine tra i premiati con il Goldman Prize anche l’indiano Alok Shukla che ha guidato un movimento comunitario in grado di salvare quasi 200mila ettari di foreste da 21 miniere di carbone proposte nel Chhattisgarh, stato dell’India centrale. Il 43enne coordinatore del Chhattisgarh Bachao Andolan  (Movimento per la Salvezza del Chhattisgarh) nella sua vita è stato “testimone della profonda devastazione ambientale e sociale causata dalle industrie estrattive” nella sua terra. Per questo, dedicandosi alla protezione dell’acqua e delle foreste, e sempre sostenendo il volere dei popoli originari, Alok si è battuto contro il governo e nel luglio 2022 ha ottenuto la cancellazione dei progetti minerari che avrebbero colpito ad esempio la zona di Hasdeo Aranya e le sue foreste incontaminate conosciute come “i polmoni del Chhattisgarh”, una delle più grandi aree forestali intatte dell’India. LEGGI TUTTO

  • in

    Matteo Righetto: “Dobbiamo reimparare la lingua della Natura””

    “Lei stava bene tra boschi, rocce e prati ad alta quota dove non esistevano nè Austria ne Italia, ma solo quella che per lei era la vera, unica patria: la montagna”. Tina, Katharina Thaler è la protagonista dell’ultimo libro di Matteo Righetto Il sentiero selvatico (Feltrinelli, 2024) ambientato durante la Prima guerra mondiale. L’avevamo lasciata ormai anziana nel romanzo precedente La stanza delle mele (2022), una figura così imponente da guadagnarsi un libro tutto per sè. Ora l’autore ci racconta la sua storia per spiegare cosa l’aveva portata a scegliere una vita selvatica partendo dall’infanzia. Da quando bambina di sei anni e a Larcionèi, paese in provincia di Belluno, (nome dell’odierno Livanallongo) sparisce per un intero giorno e una notte. La cercano per tutto il paese e la valle, ma quando Tina riappare, la sua vita e quella dei genitori però non sarà più la stessa. Sì perché Tina di quella notte non ricorda nulla e quando i suoi concittadini la ritrovano miracolosamente sul sagrato della chiesa, impauriti dall’avvenimento e da altri presagi (la morte di uno dei soccorritori e del parroco) si convincono che la bambina sia una strega, una stria. La considerano rapita dai morti. LEGGI TUTTO

  • in

    L’addio al carbone nel 2035 e lo stop all’inquinamento da plastica sul tavolo del G7 sull’ambiente

    Uscire dal carbone al più tardi entro la prima metà del prossimo decennio. E stop all’inquinamento da plastica entro il 2040. Sarebbero questi due degli accordi già raggiunti nel corso del G7 dedicato a clima, energia e ambiente in corso alla Venaria Reale di Torino. Il vertice era iniziato con una raffica di strette di mano per il ministro Pichetto Fratin. Nel cortile d’onore della reggia torinese si sono succedute una trentina di delegazioni. Oltre ai rappresentati di Stati Uniti, Canada, Giappone, Regno Unito, Germania, Francia e Italia, sono stati infatti invitati i vertici delle Nazioni Unite, delle Conferenze Onu sul clima (quella 2023 di Dubai e la prossima che si terrà a Baku), delle agenzie internazionali che si occupano di energia, come la Iea di Fatih Birol o l’Irena guidata dall’italiano Francesco La Camera, e di molti Paesi africani, interessati soprattutto al capitolo della finanza climatica, gli aiuti che le grandi economie dovrebbero erogare per facilitare la transizione energetica di chi non ha i mezzi per farla da solo.

    Il vertice

    Meno emissioni e soldi ai Paesi in via di sviluppo: al via il G7 sull’ambiente

    di Luca Fraioli

    26 Aprile 2024

    Proprio ai Paesi in via di sviluppo ha dedicato parte del suo intervento introduttivo il “padrone di casa” Pichetto Fratin, indicando tra priorità la “cooperazione in particolare con l’Africa: costruire, secondo lo spirito del Piano Mattei, partenariati di tipo non predatorio, sostenendo i più vulnerabili nell’adattamento agli effetti del cambiamento climatico e favorendo quell’accesso all’energia pulita e sostenibile che oggi è negato al 43% degli abitanti del continente”. Simon Stiell, segretario esecutivo della Unfccc, l’agenzia Onu sui cambiamenti climatici, ha insistito sul successo di Cop28 che ora deve essere concretizzato nella realtà: la “transition away” dai combustibili fossili. “L’inquinamento da combustibili fossili costa ai vostri governi miliardi in spese sanitarie aggiuntive e perdita di produttività. E il riscaldamento globale fuori controllo minaccia la pace, portando instabilità e migrazioni forzate”, ha ricordato Stiell rivolgendosi alle delegazioni del G7. “I combustibili fossili sono il problema principale e la transizione su cui si è ottenuto il consenso a Dubai deve essere molto più rapida ed equa… Le economie del G7 devono fare molto meglio in termini di efficienza e investimenti nella riduzione delle emissioni, come hanno già fatto altre regioni del mondo. Ciò significa anche che i fondi pubblici non dovrebbero essere investiti in sussidi ai combustibili fossili. E il G7 dovrebbe prevedere l’eliminazione graduale del carbone entro il 2030, se vuole centrare l’obietto di 1,5 gradi in più di riscaldamento”.

    Decarbonizzazione

    Nessun paese del G7 è in linea con gli obiettivi di ridurre le emissioni climalteranti

    di Giacomo Talignani

    23 Aprile 2024

    Richiesta accolta, quest’ultima, accolta anche se con una tempistica diversa: le bozze di documento finale, elaborate dagli sherpa prima di essere sottoposte oggi e domani al vaglio dei ministri, conterrebbero infatti una roadmap molto dettagliata e rapida per l’addio definitivo al più inquinante dei combustibili fossili Anche se la finestra sarebbe stata estesa fino al 2035. Lo ha confermato alla stampa il ministro dell’Energia Britannico Andrew Bowie: “Si tratta di un accordo storico tenendo conto che non siamo riusciti a raggiungere l’obiettivo alla Cop28 di Dubai l’anno scorso. Riuscire ad avere i Paesi del G7 intorno un tavolo che mandano un segnale al mondo sul fatto che le economie avanzate sono pronte ad abbandonare il carbone è incredibile”. L’Italia si era già impegnata a uscire dal carbone nel 2025, poi la crisi energetica dovuta all’invasione russa dell’Ucraina ha spostato più in là il traguardo, con il ministro Pichetto Fratin che oggi parla del 2027.

    Progressi anche sulla lotta alla plastica, proprio mentre a Ottawa si chiude il quarto round di negoziati dell’Onu sull’argomento. Ne hanno parlato esponenti della delegazione francese a margine degli incontri torinesi: “Il G7 riconosce per la prima volta che il livello di inquinamento da plastica è insostenibile e che il suo aumento è allarmante”, ha affermato la delegazione francese in una nota a margine della riunione dei ministri dell’Ambiente del G7 a Torino. “Il G7 si impegna a ridurre la produzione complessiva di polimeri primari per porre fine all’inquinamento da plastica entro il 2040”. Nel testo ci sarebbe anche una sollecitazione a implementare politiche, da parte dei governi dei Paesi G7, che trasformino in realtà gli impegni presi a Dubai. In particolare definendo nuovi e più ambiziosi Ndc (contributi alla decarbonizzazione definiti a livello nazionale). Grande attenzione quindi alle rinnovabili (a Cop28 è stata messa nero su bianco la triplicazione a livello globale) e all’elettrificazione con una impennata della produzione di batterie nell’area G7 (si parla di 6 volte la capacità attuale).

    Infine la finanza climatica. Nel testo esaminato in queste ore dai ministri dell’Ambiente G7 ci sarebbe il riconoscimento che per aiutare i Paesi in via di sviluppo ad affrontate la transizione energetica le centinaia di miliardi (spesso promessi e non dati) non bastano: occorrono i trillions, migliaia di miliardi. Il vero problema sarà capire come reperirli, magari prendendo atto, come dice Simon Stiell, che l’inazione costerà alle nostre economie molto di più in termini di spese sanitarie, perdita di produttività, conflitti, migrazioni. Nel documento ci dovrebbero essere anche i temi cari al governo italiano. A cominciare dal ruolo del gas naturale come “combustibile di transizione”, soprattutto in caso di sicurezza energetica messa in pericolo da eventuali crisi geopolitiche. E poi il ritorno del nucleare, su cui potrebbe pesare la sponda offerta dai membri del G7 che fanno uso dell’energia atomica: Usa, Canada, Regno Unito, Francia, Giappone. Assai più isolata l’Italia sui biocombustibili, immaginati per far sopravvivere le auto a combustione anche dopo il 2035 (anno per il quale l’Unione europea ha messo al bando la produzione di veicoli di questo tipo). Ma solo da una attenta analisi del documento finale e dal peso attribuito a ciascun dossier si capirà su quali ricette ha deciso di puntare il G7 per affrontare la crisi climatica. Ricette che poi andranno definitivamente approvato dai capi di Stato e di governo nel meeting di giugno a Borgo Egnazia. LEGGI TUTTO

  • in

    Fiumicino, cento nuovi alberi nel parco Forti

    Gli spazi intorno all’aeroporto di Fiumicino si fanno più green. Nei giorni scorsi è stato presentato oggi il progetto di messa a dimora del Parco “Tommaso Forti”, con la piantumazione di un centinaio di nuove piante autoctone, tra cui tigli, aceri, bagolari, frassini, come prima attività di ammodernamento del giardino a beneficio della comunità locale. L’iniziativa, promossa da Aeroporti di Roma e Lagardère Travel Retail Italia, con il supporto tecnico di Etifor e WOWnature, si inserisce all’interno di un percorso più ampio, avviato nel 2021 da Aeroporti di Roma (società di gestione degli scali di Fiumicino e Ciampino) e Lagardère Travel Retail (duty free & fashion, food service & travel essentials), che tra le altre cose punta a sostituire progressivamente le shopper di plastica, vendute all’interno di alcuni punti vendita gestiti da Lagardère Travel Retail Italia nei due aeroporti romani, con sacchetti di carta o riutilizzabili.

    Atività di riforestazione

    Per offrire un contributo concreto alla valorizzazione del territorio in cui operano, le due società hanno deciso di investire in interventi di riforestazione, piantumazione e riqualificazione ambientale individuando, insieme alle amministrazioni comunali di Fiumicino e Ciampino, due aree idonee per realizzare interventi di riqualifica e creazione di spazi fruibili dalla cittadinanza, valorizzando al contempo la biodiversità e la conservazione naturalistica.

    Partner tecnico del progetto è Etifor, B Corp e spin-off dell’Università di Padova, specializzata in valorizzazione del patrimonio naturale e in consulenza ambientale con un approccio scientifico che prende corpo, rispetto alle iniziative di riforestazione e protezione delle aree boschive, nel suo programma WOWnature. L’intervento risponde alla necessità di creare una barriera verde con alberi d’alto fusto lungo tutto il perimetro del parco confinante con strade ad alta frequentazione per contribuire ad attutire la conseguente presenza di polveri sottili e l’inquinamento acustico. Nelle aree interne del parco, invece, la presenza di isole arborate aiuterà anche a mitigare gli eccessi termici estivi attraverso le zone d’ombra che ne deriveranno.

    Interventi di recupero mirati

    Oltre all’impianto degli arbusti, l’iniziativa ha previsto anche interventi di recupero mirato su altre zone del Parco come l’architettura del giardino, la conservazione dell’identità del luogo e la creazione di spazi fruibili rinnovati. A breve, a conclusione del percorso, Aeroporti di Roma consegnerà 10 set per pic-nic, che saranno successivamente installati dal Comune e che, insieme all’installazione dei nuovi alberi, permetteranno una migliore fruizione del parco da parte dei tanti cittadini e bambini che già lo frequentano ogni giorno. LEGGI TUTTO

  • in

    Vuoto a rendere e deposito cauzionale indispensabili per arginare la crescita dei rifiuti

    Il 24 aprile scorso, l’Europarlamento ha votato a larga maggioranza l’approvazione della versione definitiva del Regolamento sugli Imballaggi e i Rifiuti da Imballaggio (PPWR – Packaging and Packaging Waste Regulation), frutto di intense negoziazioni tra le Istituzioni europee nel processo del Trilogo. Nonostante alcune previsioni siano state indebolite rispetto alla proposta iniziale della Commissione europea del novembre 2022, la versione finale del Regolamento rappresenta comunque un’agenda avanzata per migliorare l’efficienza e promuovere la circolarità nel settore degli imballaggi. Questo settore, nonostante decenni di sforzi nel riciclo e nell’applicazione dell’EPR, ha continuato a mostrare criticità.

     

    Ogni europeo produce circa 190 kg all’anno!

    Per rispondere alla crescita della produzione di imballaggi che supera abbondantemente la capacità di riciclo il Regolamento introduce per la prima volta obiettivi legalmente vincolanti di riduzione e di riuso per quei settori particolarmente vocati. Contrariamente a quanto spesso rappresentato in Italia la PPWR non è un’iniziativa tutta “indirizzata al riuso e a discapito del riciclo” in quanto offre un quadro normativo solido per migliorare e potenziare le strategie di riciclo, cui è dedicata la gran parte dell’articolato. Innanzitutto quando rivede al rialzo gli obiettivi di riciclo che vengono sostenuti dal “design per il riciclo” e da obiettivi vincolanti di “contenuto minimo di materiale riciclato”.

    Previsioni particolari poi riguardano l’introduzione del Deposito Cauzionale (o DRS – Deposit Return Scheme) per contenitori per bevande monouso, oggetto della Campagna Nazionale “A Buon Rendere – molto più di un vuoto”. 

    La PPWR prevede infatti all’art.44  l’obbligo per i Paesi Membri di conseguire al 2029 il 90% di intercettazione di bottiglie in plastica e lattine, e di istituire un DRS nel caso in cui non venisse raggiunto tale obiettivo nei tre anni precedenti. Nel caso delle bottiglie di plastica l’obiettivo di raccolta introdotto dalla Direttiva sulle Plastiche Monouso è peraltro già stato recepito nel nostro ordinamento. Nonostante sia stata introdotta nel corso delle negoziazioni una condizione di esenzione transitoria per gli Stati Membri che conseguissero un tasso di raccolta dell’80% al 2026 per bottiglie e lattine, viene mantenuto comunque l’obbligo del 90% come obiettivo finale. Viene dato pertanto alla Commissione il mandato di imporre un DRS ai Paesi che, per tre anni consecutivi, non raggiungessero il 90% di raccolta di tali contenitori.

    Come ha avuto modo di osservare Enzo Favoino coordinatore scientifico della campagna “A Buon Rendere”, “Il DRS slovacco ha permesso di raggiungere in due anni un’intercettazione del 92% per bottiglie in plastica e lattine. Se è vero che risultati simili sono stati raggiunti anche in altri Paesi Membri dopo l’avvio del sistema, non esistono altri casi in cui lo stesso risultato sia stato conseguito senza un sistema di deposito.  Facendo qualche calcolo, il DRS dovrebbe essere introdotto in quella minoranza di Paesi europei che ancora non l’hanno pianificato al più tardi nel 2033. Ma, chiaramente, la nostra campagna si propone di anticipare notevolmente tale data, per non perdere altri anni ed anni in termini di dispersione di contenitori sul territorio, di costi per i Comuni per raccoglierli e smaltirli, di Plastic Tax da versare alla UE per tutta la plastica non riciclata (tassa che pagano i contribuenti), di riciclo di bassa qualità, anziché quello “closed loop” (da bottiglia a bottiglia, da lattina a lattina) reso possibile dal DRS”.

    Per quanto in Italia il Regolamento sia stato spesso descritto in modo distorto e poco informato, come “una iniziativa ideologica che va contro la eccellenza italiana del riciclo” (fino a vedere auspicare da diversi portatori di interesse e dalle stesse istituzioni governative l’auspicio che l’iniziativa stessa venisse affossata del tutto), in realtà la PPWR è anche, e soprattutto, un poderoso strumento per affiancare, efficientare e potenziare le strategie del riciclo. Abbiamo presentato come campagna l’unico studio pubblicamente accessibile che quantifica costi e benefici derivanti dall’introduzione di un DRS in Italia che permetterebbe di conseguire in due anni il 94,4% come tasso di raccolta per le bottiglie in PET per bevande, il 96% per le lattine e il 95,5 % per il vetro.  Anche il nostro più recente sondaggio ha confermato che gli italiani, di qualunque area culturale e politica di appartenenza, sostengono la necessità di adottare il deposito cauzionale come strumento per risolvere il problema della dispersione dei contenitori da imballaggio e per conseguire gli obiettivi di raccolta e riciclo europei. Che cosa stiamo aspettando e soprattutto a chi giova ritardare l’introduzione di uno strumento che, non per nulla, è diventato prassi comune in 16 Paesi europei, che arriveranno a 20 in due anni?.    

    Silvia Ricci è coordinatrice della campagna “A Buon Rendere” LEGGI TUTTO