5 Aprile 2024

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    I boschi italiani di faggio hanno imparato ad adattarsi alla siccità

    I faggi si stanno difendendo dalla siccità. Riuscirebbero infatti ad utilizzare l’acqua che hanno a disposizione per adattarsi alle condizioni meteo, adottando strategie diverse secondo le condizioni ambientali in cui si trovano. Per i ricercatori un bosco di faggio al Sud reagisce alla siccità in modo diverso da quello che si trova al Nord d’Italia. È quanto è emerso da uno studio condotto dal Consiglio nazionale delle ricerche e pubblicato sulla rivista Scientific Reports che spiega come sono stati decifrati i segni che indicano come questi alberi stiano facendo fronte al progressivo aumento della siccità. Per non sparire. Uno studio che ha visto la collaborazione con l’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” e la libera Università di Bolzano che hanno fornito importanti informazioni sulla capacità dei boschi di faggio in Italia di adattarsi e resistere agli effetti del cambiamento climatico. 

    Le foreste di faggio sono a rischio a causa della siccità  LEGGI TUTTO

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    Norvegia, rilevate radiazioni nucleari: di che cosa si tratta

    “La Dsa ha recentemente misurato livelli molto bassi di iodio radioattivo (l-131) presso la stazione di filtraggio dell’aria a Tromsø. Le misurazioni sono state effettuate nella settimana dal 21 al 26 marzo 2024”. È il laconico incipit del comunicato della Autorità per la sicurezza nucleare norvegese (Dsa), che, nonostante le rassicurazioni, ha messo in allarme mezza Europa. Un riflesso condizionato, quando ci sono di mezzo i termini “radiattivo” e “nucleare”. Ma vediamo di capirne di più.

    L’isotopo Iodio 131

    È appunto un isotopo instabile dell’elemento chimico Iodio: nel suo nucleo ci sono 53 protoni e e 78 neutroni, contro i 74 neutroni della versione stabile (Iodio 127). Il decadimento, cioè la trasformazione dello Iodio 131 in Xenon 131(54 protoni e 77 neutroni) è all’origine della sua radioattività: nel processo un neutrone si trasforma in protone con l’emissione di raggi beta (tipicamente un elettrone) ad alta energia. Le particelle beta penetrano moderatamente nei tessuti viventi e possono causare mutazioni spontanee nel Dna. Per questo le sorgenti beta possono essere utilizzate nella radioterapia per distruggere le cellule tumorali.

    Le possibili sorgenti

    Proprio per i motivi di cui sopra, lo Iodio 131 è molto utilizzato in medicina, soprattutto per per diagnosticare e curare i tumori della tiroide, ghiandola in cui l’elemento tende ad accumularsi, quando assorbito dal corpo umano.

    Ma oltre a essere prodotto commercialmente per usi medici e industriali, Lo Iodio 132 è anche un sottoprodotto dei processi di fissione nei reattori nucleari e nei test sulle armi atomiche. Nel catastrofico incidente di Chernobyl dell’aprile 1986, per esempio, l’isotopo radioattivo fu rilasciato in grandi quantità, soprattutto in Ucraina, Bielorussia e Russia occidentale.

    Va detto che l’episodio norvegese non ha niente a che fare con un disastro come quello della vecchia centrale ucraina e che dalle notizie arrivate fino ad ora è irrilevante dal punto di vista radiologico.

    I pericoli dello Iodio 131

    Se da una parte, un rilascio terapeutico, può distruggere le cellule tumorali, dall’altro un assorbimento incontrollato dello Iodio 131 (e alle radiazioni beta che emette) possono a loro volta produrre, come detto, mutazioni del DNA e quindi l’insorgere di cancro alla tiroide. Per questo, in caso di incidente, si consiglia di assumere Iodio (la versione stabile), che andando a saturare la tiroide impedisce l’assorbimento da parte della ghiandola dell’isotopo radiattivo. Va precisato che per le caratteristiche delle radiazioni emesse, perché produca effetti cancerogeni lo Iodio 131 deve essere inalato o ingerito, mentre l’esposizione del corpo umano all’isotopo presente nell’aria non provoca danni.

    I tempi di dimezzamento

    La buona notizia è che il “tempo di dimezzamento” dello Iodio 131, il periodo necessario perché decada la metà dei nuclei dell’isotopo presenti all’inizio, è di appena otto giorni. Quindi se la quantità di Iodio 131 presente nell’ambiente è modesta (come nel caso segnalato dall’Autorità norvegese), in poche settimane i suoi effetti radioattivi scompariranno, con la trasformazione in Xenon. LEGGI TUTTO

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    I nove motori della smart mobility

    Tecnologie, cambiamenti sociali ed evoluzione normativa. È la convergenza di questi tre fattori a spingere la crescita della smart mobility, che consente di rispondere a una serie di bisogni attuali, dalla gestione del traffico alla sicurezza. Mundys, multinazionale italiana che attraverso le sue controllate gestisce aeroporti, servizi di mobilità urbana e interurbana, autostrade e infrastrutture ha realizzato in collaborazione con Oliver Wyman (consulenza strategica) uno studio sull’evoluzione della mobilità sostenibile, confluito nel white paper “Fast-tracking the Mobility Revolution”.

    L’ecosistema della mobilità

    L’analisi identifica nove megatrend che impatteranno sull’evoluzione futura dell’ecosistema della mobilità. Molte tendenze sono legate a tecnologie emergenti che potrebbero fornire nuove soluzioni di mobilità, come le tecnologie basate sullo spazio. Altre, invece, hanno a che fare con il miglior utilizzo dello spazio urbano e dell’esperienza dei clienti, nonché con il supporto alla transizione verso un accesso alla mobilità più sostenibile ed equo.

    I motori evolutivi identificati sono:

    1. Urbanizzazione

    2. Servizi digitali di mobilità

    3. Veicoli connessi e autonomi

    4. Dispositivi e infrastrutture smart

    5. Tech transfer dal settore difesa a quello civile

    6. Tecnologie space-based

    7. Regolamentazioni orientate alla sostenibilità

    8. Energia e carburanti sostenibili

    9. Intelligenza artificiale

    In un contesto così dinamico, spiegano gli analisti, la sfida per i player del settore è focalizzarsi sulle opportunità più attrattive. Gli ambiti da considerare per accelerare la transizione verso la mobilità del futuro sono le soluzioni multimodali e le partership pubblico-privato.

    Convergenza verso soluzioni multimodali

    Le industrie sembrano convergere progressivamente su soluzioni multimodali per soddisfare le complesse esigenze dei clienti. Ma quello che una volta era esclusivamente il dominio degli operatori del trasporto puro, si è ora aperto a player di diversi settori, con la capacità di sfruttare il loro know-how tecnologico e le relazioni con i consumatori della mobilità.

    Per i player della mobilità, la chiave è guardare oltre i servizi di trasporto tradizionali e integrarli con una gamma più ampia di soluzioni. Ad esempio, nel contesto di un forte calo di acquisto delle auto, le case produttrici avranno bisogno di combinare le competenze di una società tecnologica, con quelle di una società del settore dell’energia e di una società di servizi, così da poter fornire ai consumatori un’offerta alternativa alla semplice proprietà del veicolo. Pertanto, gli stakeholder dovrebbero cercare di identificare sinergie e opportunità di collaborazione tra diversi settori. Questo approccio collaborativo consentirebbe il pooling di risorse, competenze e innovazione, portando a soluzioni più efficienti e sostenibili in risposta alle esigenze dei clienti in continua evoluzione.

    Il ruolo del pubblico

    Il finanziamento pubblico è importante — come, ad esempio, il Recovery Fund dell’Unione Europea, che ha stanziato circa 20 miliardi per stimolare le vendite dei veicoli elettrici — ma non è sufficiente da solo. Anche le aziende rivestono un ruolo cruciale per supportare la mobilità sul mercato, guidando il percorso di innovazione e introducendo nuove tecnologie. Le partnership pubblico-privato sono emerse come uno strumento prezioso per colmare il divario tra finanziamento pubblico ed expertise del settore privato, favorendo la collaborazione e accelerando il progresso.

    Per garantire una trasformazione di successo della mobilità, sono necessari piani di allocazione del rischio e supporto all’innovazione, sfruttando anche soluzioni di blended finance e altri strumenti finanziari innovativi. La blended finance, ovvero l’uso strategico di fondi pubblici per attrarre investitori privati riducendo la loro esposizione al rischio, è particolarmente impattante, poiché consente ad investitori con diverse tolleranze al rischio di partecipare allo stesso progetto. Lavorando insieme, istituzioni e aziende private possono creare un ecosistema di mobilità accessibile, rispettoso dell’ambiente e capace di soddisfare le esigenze di una società in evoluzione.

    In definitiva, corrette politiche sistemiche che incoraggino la carbon neutrality, la resilienza e la sicurezza energetica — a tutti i livelli — sono urgenti per promuovere l’innovazione, la competitività e per sbloccare le opportunità di mercato. La politica sistemica può armonizzare gli standard, promuovere l’interoperabilità e facilitare l’integrazione di diversi modi di trasporto tra giurisdizioni. Oltre a incoraggiare la collaborazione e la condivisione di conoscenze tra tutti i portatori di interessi. LEGGI TUTTO

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    L’inquinamento da palle da tennis è un problema, ma c’è chi lavora per risolverlo

    In Italia è sempre più Sinner-mania. Grazie alle recenti vittorie del campione altoatesino, ora numero 2 nel ranking mondiale Atp, il tennis è tornato ad essere uno degli sport più popolari nel nostro Paese. Lo dimostra il fatto che la finale tra Jannik Sinner e Grigor Dimitrov al Masters 1000 di Miami è stata seguita da oltre 2,6 milioni di italiani. Il talento di Sinner è fuori discussione. Quanti invece si sono chiesti che fine facciano tutte le palline da tennis utilizzate in occasione di un torneo internazionale come quello di Miami? La domanda è tutt’altro che futile. Ogni anno a livello mondiale si producono circa 330 milioni di palline da tennis.Il principale produttore (e importatore) al mondo sono gli Stati Uniti, seguiti da Cina e Thailandia. Negli incontri professionistici di tennis le palline vengono sostituite dopo 7 giochi dall’inizio del match (considerando gli scambi di riscaldamento tra i due giocatori) e poi ogni 9 giochi dal primo cambio. Soltanto a Wimbledon si stima che vengano utilizzate più di 55 mila palline. Insomma, parliamo di una quantità enorme. E tutto ciò ha un impatto niente affatto trascurabile sull’ambiente.

    Le palline da tennis inquinano (e non poco)

    Chiaramente le palline da tennis sono progettate per garantire determinate prestazioni. Una pallina è costituita da due semisfere in gomma che vengono unite e poi rivestite di feltro, che ha la funzione attraverso la sua peluria di creare attrito e aumentare la resistenza all’aria della pallina, diminuendone la velocità e riducendone il rimbalzo. L’ostacolo più grande al riciclo della gomma presente all’interno della pallina è dato dalla difficoltà di rimuovere il feltro esterno. Quest’ultimo infatti è attaccato all’involucro attraverso una particolare colla progettata proprio per trattenere la peluria quando la pallina viene colpita da una racchetta. Non poter utilizzare gomma riciclata nei processi produttivi ha delle conseguenze importanti sull’ambiente. L’espansione delle piantagioni di gomma è infatti tra le principali cause di deforestazione e di perdita di biodiversità nel Sud-est asiatico.Anche il feltro rappresenta un problema, in quanto si tratta solitamente di una miscela mista di lana e fibre sintetiche di nylon difficile da riciclare. Ecco perché nel 97% dei casi le palline da tennis non più riutilizzabili vengono bruciate nei termovalorizzatori per il recupero energetico oppure smaltite in discarica, dove impiegano circa 400 anni per biodegradarsi.Soltanto negli Stati Uniti si calcola che ogni anno finiscano in discarica circa 125 milioni di palline. C’è, infine, un ulteriore aspetto da considerare. Diversi Paesi produttori si trovano nel continente asiatico e le palline prima di raggiungere l’Europa o il Nord America, che sono i principali mercati di destinazione, percorrono migliaia di chilometri su navi portacontainer o aerei. Per questa ragione l’impronta di carbonio di una pallina da tennis può risultare piuttosto alta.

    La pallina circolare di Renewaball

    Smettere di giocare a tennis non è certo una soluzione. La domanda da porsi invece è la seguente: come si può rendere più sostenibile il ciclo di vita di una pallina da tennis? La risposta della startup Renewaball, nata nel 2021 in Olanda, è stata lo sviluppo di una pallina realizzata in parte con materiale riciclato. Per l’esattezza, la percentuale di materiale riciclato impiegato supera il 30%. Nei Paesi Bassi sono 5,3 milioni le palline da tennis che ogni anno finiscono nell’inceneritore o in discarica. Per cercare di assicurare loro un adeguato riciclo, Renewaball ha messo a punto un processo innovativo che permette di separare l’anima di gomma dal feltro. Ad azionare la catena del riciclo sono i giocatori stessi: le vecchie palline vengono infatti raccolte in appositi contenitori posizionati vicino ai campi da gioco. Dopo di che, le palline vengono sminuzzate e trattate. Il feltro viene avviato a riciclo (ma non per  Renewaball, che per lo strato di feltro delle sue palline non utilizza nylon o poliestere ma lana di pecora e una piccola percentuale di cotone), mentre parte della gomma estratta viene utilizzata come materia prima seconda per fabbricare nuove palline.Una pallina fatta con materiale 100% riciclato è impossibile da realizzare con le attuali tecnologie, ma attraverso il processo brevettato da Renewaball è possibile ridurre la quantità di gomma vergine da utilizzare. Le palline di Renewaball hanno poi un altro vantaggio: sono a filiera corta. Il processo di recupero e di rigenerazione delle palline avviene infatti in Europa e non dall’altra parte del mondo. In questo modo, a detta dell’azienda, l’impronta di carbonio si riduce del 29% rispetto alle tradizionali palline da tennis.

    Le palline? Troppo preziose per buttarle via

    Come abbiamo detto in precedenza, i principali “consumatori” di palline da tennis sono gli Stati Uniti. Qui nel 2016 è nata l’organizzazione no-profit Recycle Balls, la cui missione è quella di sottrarre alla discarica quante più palline possibili. Il principio è molto semplice: le palline non più utilizzabili vengono raccolte in appositi contenitori e spedite in una struttura industriale nel Vermont per il loro trattamento. Le palline vengono dunque triturate e il feltro viene separato dalla gomma. Il risultato che si ottiene è un composto di microgranuli ribattezzato da Recycle Balls “Green Gold”, ossia oro verde, con il quale si possono realizzare campi da tennis e altri tipi di pavimentazione (per esempio quella dei centri ippici). E si stanno esplorando altri possibili usi, per esempio nel settore dell’edilizia e degli arredi urbani. O ancora, in ambito agronomico, per la pacciamatura.In pochi anni, il programma lanciato da Recycle Balls ha avuto un tale successo da convincere un gigante del calibro di Wilson Sporting Goods – una delle principali aziende produttrici di articoli sportivi (nonché di palline da tennis) a livello globale – a diventarne lo sponsor principale. Attualmente Recycle Balls può contare su una rete che comprende oltre 4 mila partner e 75 mila contenitori per la raccolta sparsi tra Stati Uniti e Canada. Secondo l’organizzazione, fin dalla sua fondazione sono state salvati dalla discarica più di 12,6 milioni di palline. L’obiettivo per il 2025 è arrivare a 15 milioni.

    Anche in Italia qualcosa si muove. Creare nuovi prodotti con i materiali di scarto ricavati dal riciclo delle palline da tennis usate nei principali tornei e circoli italiani, secondo un modello di economia circolare, è lo scopo del progetto Return – Recycle Tennis Balls, ideato da un gruppo di spin-off dell’Università di Padova e sviluppato in collaborazione con la Federazione Italiana Tennis e Padel. Nell’ambito del progetto è stato messo a punto un procedimento di produzione che permette di ridurre le palline non più utilizzabili in una polvere di gomma con cui realizzare suole per calzature. Lo scorso gennaio, in occasione dell’edizione invernale di Pitti Uomo, Lotto Sport Italia ha presentato OOH!, una sneaker d’ispirazione tennis, la cui suola è prodotta proprio con palline da tennis riciclate. LEGGI TUTTO

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    Non solo disastri ambientali, la crisi climatica fa aumentare anche il costo del cibo

    I cambiamenti climatici modificheranno non solo quello che metteremo nel carrello, ma ancor prima quello che potremmo metterci, incidendo sul nostro potere di spesa. Lo sappiamo, lo abbiamo già sperimentato, ma c’è chi ha calcolato cosa potrebbe succedere in futuro e chi sarà a soffrirne di più. Così, dati alla mano, e guardando solo al […] LEGGI TUTTO

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    Eclissi solare e crollo della produzione di energia rinnovabile: gli Usa si preparano all’8 aprile

    L’8 aprile 2024, mentre milioni di americani si fermeranno con gli occhi al cielo, adeguatamente protetti, si spera, per ammirare l’evento astronomico dell’anno, l’eclissi totale di Sole, i tecnici della rete elettrica nazionale avranno invece lo sguardo fisso sui terminali, per capire se tutto continuerà a funzionare a dovere nella fornitura dell’energia. Quello della luce solare che viene a mancare quando la Luna passa davanti alla nostra stella, oscurandola totalmente, è in effetti un tema che, potenzialmente, ha un impatto molto maggiore oggi rispetto anche solo a sette anni fa, quando un’altra grande eclissi totale ha attraversato quasi tutto il Paese. Ora, infatti, la produzione di energia solare e la quota sul totale della fornitura è molto più alta. Ma le autorità, dicono, sono preparate. Per “assorbire il colpo” aumenterà così la produzione da combustibili fossili, almeno per quelle poche ore di buio, e si farà affidamento sullo stoccaggio delle sottoreti locali.

    Quando il Sole se ne va

    Nel 2017, l’anno in cui l’ombra della Luna transitò dall’Oregon alla South Carolina, l’energia prodotta dal fotovoltaico negli Stati Uniti era meno del 2% del totale. Solo dieci anni fa era sotto l’1% (0,7%) secondo i dati della Energy information administration (Eia) statunitense. Nel 2023 la quantità di energia solare prodotta ammonta a 164.502 migliaia di megawattora, tre volte quella del 2017, quasi dieci volte il dato del 2014. Gli effetti di un “blackout” della fonte prima, il Sole, anche se per pochi minuti, si faranno sentire molto di più. Come ha spiegato Guohui Yuan, program manager per l’integrazione dei sistemi del Solar energy technologies office americano.

    L’eclissi oggi spegne il sole. E in Europa è allarme energia

    Paolo Festuccia

    19 Marzo 2015

    È ancora più vero per il Texas, che, nel 2023, tra i 50 Stati è secondo solamente alla California per potenza generata dal solare, con 31.739 Gigawattora, il 13% (ben distaccato dal “Golden state” che assomma il 18 per cento dell’intera produzione federale). Il Texas, l’8 aprile, sarà percorso in diagonale per una buona fetta del suo territorio, dal tracciato dell’eclissi, un corridoio largo tra i 112 e i 161 chilometri lungo il quale il Sole diventerà un disco nero. Farà ombra a milioni di metri quadrati di pannelli fotovoltaici: tutta energia perduta che andrà in qualche modo trovata altrove. La totalità durerà pochi minuti, spostandosi verso il Maine, ma sarà una lenta progressione. Il Sole inizierà a sparire attorno a mezzogiorno per tornare a splendere con tutta la sua potenza circa tre ore dopo. E per migliaia di chilometri a est e ovest, l’eclissi sarà parziale, riducendosi mano a mano che si si allontana dal cammino della totalità. 

    Le contromisure in Texas

    Nel 2017, è la stima delle autorità, la produzione di solare nell’Ovest degli Usa è crollata del 25 per cento ma, come detto, le condizioni erano molto diverse. La principale autorità del Texas, lo Stato più interessato da questo punto di vista, ha stimato invece che l’8 aprile l’energia solare immessa nella rete calerà del 7,6%. Meno di un qualsiasi giorno nuvoloso dunque. E siccome, a differenza del rendimento delle rinnovabili, le meccaniche celesti sono precise e affidabili come orologi svizzeri, questi eventi non colgono certo di sorpresa. La principale preoccupazione è, ovviamente, soddisfare la domanda senza che nessuno resti “al buio”, abitazioni, uffici, impianti di produzione.È il difetto più grande delle rinnovabili legate al meteo, cioè solare ed eolico, le cui prestazioni sono totalmente slegate dall’arbitrarietà umana e regolate da fattori esterni. Il carico della domanda deve essere quindi redistribuito agli altri sistemi di produzione di energia. Si tratta di compensare con le centrali il cui rendimento è regolabile, cioè quelle a combustibili fossili, il gas prima di tutto, com’è successo di recente durante un’altra eclissi, quella anulare dell’ottobre 2023.

    Il picco di domanda

    E poi c’è da gestire il picco di domanda da questi impianti che si genererà all’improvviso: “Poiché la produzione di energia solare diminuisce rapidamente durante il picco dell’eclissi, gli operatori di rete potrebbero dover attingere alle riserve a un ritmo che potrebbe mettere a dura prova le linee di trasmissione elettrica. Per cercare di far funzionare le cose senza intoppi, gli operatori di rete faranno affidamento sulle riserve locali e ridurranno al minimo il trasferimento di energia tra le reti durante l’evento. Questo dovrebbe ridurre l’onere sulle linee di trasmissione delle reti locali ed evitare blackout temporanei” ha spiegato Guohui Yuan. Sarà questione di assorbire la domanda con la gestione di reti e sottoreti, per mitigare l’impatto anche attraverso lo stoccaggio dell’energia con batterie e pompaggio idroelettrico. Sistemi che già aiutano a immagazzinare energia prodotta in eccesso dalle rinnovabili e disponibile per essere redistribuita di notte, nei giorni nuvolosi, o in momenti di più alta richiesta. LEGGI TUTTO