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    L’attrice Valeria Solarino, che a Torino ha vissuto per tutta l’infanzia e la giovinezza, dove si è formata artisticamente con Mauro Avogadro alla Scuola per Attori del Teatro Stabile, è stata anche una studentessa del Galfer negli anni ‘90. Valeria nella sua carriera è stata mille storie, mille vite, grazie al suo talento e al suo amore per il cinema e il teatro (da “La felicità non costa niente” di Calopresti fino a “Quando” di Veltroni e “The Cage – Nella gabbia” di Zanin, passando per “Rocco Schiavone” e “Gerico Innocenza Rosa”).

    La lunga crisi dei licei classici, il prestigioso liceo D’Azeglio di Torino apre anche lo scientifico

    Cristina Palazzo

    27 Ottobre 2023

    Solarino, che ricordi ha del Galfer?
    «La prima cosa che mi viene in mente sono i miei compagni, il gruppo di amici, non soltanto quelli della mia classe. Io ero nella sezione A, quella di tedesco, ma avevamo una grande compagnia di ragazzi».

    Avevate un luogo di ritrovo per il prima e il dopo scuola?
    «Per tutti noi esisteva una specie di punto di riferimento comune che chiamavamo “la seconda”, era la seconda fermata dell’autobus, un po’ più spostata verso la periferia, ci trovavamo sempre lì dopo scuola. Il Galfer per me, nei miei ricordi, sono soprattutto gli amici».

    C’è stata un’esperienza che le è rimasta impressa di quegli anni scolastici?
    «Sicuramente quella dell’occupazione, seppure non sia durata così a lungo è stata una fase di grande coesione e unione tra noi studenti del Galfer».

    Ha incontrato dei docenti che hanno influenzato il suo percorso di formazione?
    «Per me è stata fondamentale l’insegnante di storia e filosofia, mi ha fatto appassionare alla materia, infatti poi mi sono iscritta all’università proprio a filosofia, lei è stata determinante per questa decisione».

    Una delle peculiarità del liceo Galileo Ferraris è l’abbreviativo che tutti usano, Galfer, lo fanno anche per i professori. Era una strana consuetudine, quasi un modo confidenziale, anche quando lei era studentessa?
    «Beh sì, lo abbiamo sempre chiamato Galfer. È una bella cosa, per noi era un modo per sentirlo più nostro, era qualcosa di esclusivo. Io ricordo che mi sono iscritta al Galfer perché mio fratello, che è più grande di me, lo aveva fatto l’anno prima, e un po’ per seguirlo ho optato per la stessa scelta. In verità, ripensandoci, il nome Galfer lo davo per scontato e mi divertiva, ora penso che lo chiamassimo così per creare un senso di appartenenza». LEGGI TUTTO

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