19 Aprile 2024

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    Le consegne in cargo bike per un delivery etico e sostenibile

    Le emissioni di CO2 prodotte dalle consegne dell’ultimo miglio potranno raggiungere 24 milioni di tonnellate nel 2030 (+30% rispetto al 2020). È possibile contribuire a un’inversione di tendenza attraverso scelte responsabili, come quella di consegnare con cargo bike e e-cargo bike che in città possono effettuare consegne fino al 60% più veloci rispetto ai furgoni, producendo il 90% in meno di anidride carbonica rispetto ai furgoni diesel e il 33% in meno rispetto ai furgoni elettrici. È la sfida raccolta da So.De, startup milanese, il cui acronimo So.De sta per Social Delivery, ovvero consegna sociale, solidale e sostenibile: sostenibile perché è a zero impatto, consegnando solo con biciclette e cargo bike. Solidale perché supporta commercianti e attività locali e contribuisce alla consegna di spese alimentari e pasti a famiglie in difficoltà. Sociale perché rivoluziona la figura dei ciclofattorino, una professione che è diventata paradigmatica del mondo del lavoro precario e senza tutele. Oltre alle consegne di prodotti per le aziende che scelgono So.De, il social delivery sviluppa anche progetti ad alto valore sociale in sinergia con le realtà con cui collabora.”Ad esempio, ci impegniamo in filiere solidali di recupero e redistribuzione del cibo ritirando prodotti invenduti presso la GDO e consegnando pacchi alimentari a famiglie in condizioni di fragilità del territorio locale. Coprogettiamo con realtà istituzionali e del terzo settore servizi in cui la consegna a domicilio per le persone più vulnerabili diventa occasione di supporto, solidarietà, inclusione”. L’aspetto che rende So.De diverso dagli altri esperimenti di delivery locale è la sua vocazione a mettere al centro le persone: dei 13 dipendenti, il 30% fa parte di categorie che hanno storie di fragilità e che vengono così accompagnati attraverso percorsi di inclusione.

    La storia di So.De

    Fondata da tre donne innovatrici: Lucia Borso, Teresa De Martin e Naima Comotti, l’idea del Social Delivery matura nel 2020 durante il primo lockdown nel quartiere Dergano di Milano e, a dire il vero, non ci mette molto a diffondersi nelle altre zone della città. La vera scommessa tuttavia inizia nel 2021, anno di lancio della campagna di crowdfunding di So.De e del primo test. Test che ha successo e che dà il via alla seconda fase della startup, nel gennaio 2022, con la costituzione di Magma srl Impresa Sociale che gestisce il progetto So.De. 

    Ma facciamo un passo indietro. Inizialmente So.De si sviluppa attorno a Rob De Matt, un’associazione che tra le altre cose gestisce un ristorante bistrò per promuovere l’inclusione lavorativa attraverso la ristorazione. Durante il primo lockdown Rob De Matt attivò più di 80 volontari nella raccolta di generi alimentari e nella consegna di pasti caldi a famiglie in difficoltà. Sulla spinta di questa iniziativa maturò l’idea di creare un delivery sociale di quartiere, inizialmente su scala ridotta, in ottica della “città dei 15 minuti”. Nacque così un progetto che fu selezionato per il bando Crowdfunding Civico promosso dal Comune di Milano sulla piattaforma Produzioni dal Basso. Il crowdfunding ottenne l’appoggio di 550 donatori, superando di gran lunga il traguardo prefissato e attraendo un grande interesse sia locale che nazionale.Oggi la startup milanese ha all’attivo:13 dipendenti, 12 cargo bike per le consegne, 150 pacchi al giorno consegnati nel mese di gennaio 2024 (nello stesso mese del 2023 erano circa 60), oltre 120 chilometri percorsi in bici al giorno, più di 30 tra clienti e partner, tra cui Ikea Italia, Bosch eBike Systems Italia, Artemest, Repower, Ares Market Milano srl, associata a Commercianti Indipendenti Associati, cooperativa componente del Consorzio Nazionale Conad, ma anche piccole botteghe di quartiere e artigianato locale. Non solo, dei 13 dipendenti il 30% fa parte di categorie che hanno storie di fragilità e che vengono così accompagnati attraverso percorsi di inclusione.

    Startup

    Bibo, il delivery del bere bene punta sulle consegne green

    29 Dicembre 2021

    La formazione dei ciclofattorini (e non solo)

    So.De ha deciso di battersi innanzitutto per dare le giuste tutele ai suoi ciclofattorini, con contratti subordinati a tutti gli effetti e corsi e aggiornamenti qualificanti, e con ben chiaro lo scopo di dare nuovo valore a questa professione. I ciclisti di So.De ricevono infatti una formazione a tutto tondo che tocca sicurezza, codice della strada, manutenzione della bicicletta, ma anche gestione di rapporti interpersonali e comunicazione efficace, nell’ottica di farne operatori e operatrici di comunità, delle vere e proprie antenne sul territorio. “Forniamo ai nostri corrieri programmi formativi dedicati allo sviluppo delle competenze necessarie per svolgere il proprio lavoro in modo sicuro ed efficace. Offriamo corsi di ciclomeccanica, educazione stradale, soft skills, italiano L2, informatica, logistica e altri ancora, in base alle esigenze dei nostri e delle nostre dipendenti”. Oltre ai percorsi formativi obbligatori, la startup offre piani personalizzati di formazione in base alle specifiche esigenze dei corrieri.Nel progetto So.De le persone sono sempre al centro. Tutti i corrieri di So.De sono assunti. “Crediamo nell’importanza di garantire un lavoro dignitoso per i nostri e le nostre dipendenti, creando un ambiente di lavoro rispettoso e inclusivo”. So.De – Social Delivery, sta realizzando inoltre consegne solidali per famiglie in condizioni di marginalità, consegna della spesa per categorie fragili, servizi di trasporto e piccoli traslochi per gli abitanti e le abitanti, corsi per scoprire le potenzialità del muoversi sulla bici, oltre ad altre attività che mirano a dare risposte ad alcuni bisogni del territorio. Questa startup vuole rendere le nostre città un luoghi più vivibili, accoglienti e sostenibili. Come? Favorendo un circuito di consumo consapevole e il commercio di prossimità attraverso la valorizzazione di botteghe locali e promuovendo una mobilità a basso impatto ambientale. LEGGI TUTTO

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    “Solo proteggendo l’ambiente daremo sicurezza agli sfollati per il clima”

    La sua passione per le questioni ambientali e la gestione degli impatti del cambio climatico è nata con il primo lavoro nel settore della silvicoltura, in Australia. Molto presto però Andrew Harper, oggi consulente speciale per l’azione sul clima dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, si concentra su come affrontare l’emergenza climatica e insieme come assistere al meglio le persone sfollate a causa dei disastri naturali. Abbiamo incontrato Harper a Roma, dove per l’Unhcr ha siglato un accordo con il Cgiar (un insieme di organizzazioni internazionali impegnate nella ricerca sulla sicurezza alimentare) per studi e raccolta di dati utili a costruire e organizzare strutture di accoglienza resistenti al clima, migliorare l’accesso ai servizi di base e rafforzare le capacità di adattamento delle persone costrette alla fuga e delle comunità che le ospitano.

    Una delle emergenze peggiori che ha dovuto affrontare in passato è stata l’organizzazione dei campi profughi in Giordania. Come si fa a mettere in sicurezza le persone nel deserto?

    “”Ogni notte arrivavano dal confine siriano tra le 4 e le 5mila persone e il nostro compito immediato era di provvedere ai loro bisogni primari: coperte, materassini, assistenza sanitaria. Ma bisogna tenere conto che ai rifugiati non viene mai assegnato un territorio ottimale, perché quei terreni sono già presi, o coltivati, quindi si prende quello che c’è, e dobbiamo organizzare la loro vita in un luogo dove le risorse naturali non ci sono. Il campo di Zaatari ospitava oltre centoventimila persone che erano fuggite dai combattimenti e piene di ansia per quello che il futuro avrebbe riservato loro. Verso queste persone avevamo l’obbligo di non garantire soltanto la sopravvivenza, ma di dare loro un senso del futuro. In quel caso abbiamo lavorato con la fondazione Ikea e costruito un impianto solare da 12,9 megawatt che ha portato elettricità pulita ai residenti del campo e ai villaggi vicini. L’elettricità significa consentire ai bambini di avere più ore per fare i compiti, di conservare meglio gli alimenti e migliorare l’illuminazione stradale per mantenere la sicurezza. Non solo, distribuendo l’elettricità oltre il campo abbiamo avviato un processo di integrazione e fornito energia pulita al posto di quella generata da una vecchia centrale a carbone. È un esempio di quel che dovremmo fare sempre di più”.

    In questo caso, il dover accogliere molte persone metteva anche a rischio l’ambiente?”Dove c’è un campo rifugiati c’è sempre uno sfruttamento maggiore delle risorse che crea problemi a tutti. Proprio per questo, se non troviamo soluzioni che salvaguardino l’ambiente, non possiamo aspettarci che le comunità locali proteggano i rifugiati. La protezione dell’ambiente è sempre uno dei fattori chiave dell’aiuto alle persone rifugiate e sfollate. Questo è molto evidente in Chad, uno dei paesi considerati più vulnerabili al mondo dal punto di vista ambientale, dove stanno arrivando centinaia di migliaia di rifugiati dal Sudan. Non possiamo pretendere che questi Paesi accolgano i rifugiati se non ci prendiamo cura del loro ambiente e delle loro risorse: per noi è fondamentale non contare soltanto sul sostegno finanziario, ma trovare partner come agenzie e istituzioni che possano investire in progetti di adattamento climatico”.

    L’intervista

    Discriminazione, razzismo e povertà: l’altra faccia della crisi climatica

    di Cristina Nadotti

    30 Ottobre 2023

    Quanto è complicato trovare investitori?”Incontriamo i maggiori portatori di interesse nei progetti ambientali e nel contrasto al cambio climatico, ma la difficoltà sta nel far cogliere loro l’importanza della protezione delle persone costrette alla fuga nei loro obiettivi, perché fondazioni e banche sono interessate a vedere subito dei risultati. Cerchiamo di usare a nostro favore il fatto che, come UNHCR, siamo presenti in aree dove abbiamo la massima competenza per capire i bisogni dei rifugiati e delle autorità locali e, insieme al Comitato Internazionale della Croce Rossa e a grandi ONG, spingiamo i finanziatori ad interessarsi più alle persone che ai profitti. Non ha senso che le banche per lo sviluppo finanzino operazioni per piantare alberi in Europa o in Canada, i veri bisogni sono altrove, in Kenya, in Somalia, in Mozambico, in Bangladesh”.

    La guerra alle porte dell’Europa, quanto sta accadendo in Ucraina e in Israele, ha rallentato i vostri progetti di adattamento climatico?”Naturalmente la guerra in Ucraina catalizza le attenzioni, ma questo non significa che la vita di qualcuno in Africa debba interessarci di meno, è semplicemente una questione di umanità. C’è chi sta morendo di fame in Africa e di recente il Programma Alimentare Mondiale ha dovuto tagliare le razioni di cibo del 50% in alcune aree, cosa che aumenta le migrazioni. Non possiamo concentrarci così tanto sulle COP e cercare consenso, abbiamo bisogno di azioni immediate”.

    L’intervista

    Angelica De Vito: “Prepariamoci, anche noi potremmo diventare migranti climatici”

    di Giacomo Talignani

    30 Novembre 2023

    Non crede nell’utilità delle Cop?”Siamo già alla COP29, che si terrà a Baku, in Azerbaijan. Il punto è che abbiamo bisogno di concentrarci sui Paesi che subiscono le conseguenze maggiori del cambiamento climatico. I nostri sforzi devono mirare a dare più spazio possibile a chi già vive la crisi climatica, fare in modo che siano protagoniste delle decisioni che vengono prese. Ci sono oltre 114 milioni di persone in fuga nel mondo che, così come le comunità indigene, dovrebbero avere l’opportunità di parlare in prima persona. Questo significa anche ripensare il modo in cui vengono prese le decisioni politiche: non possono avere rappresentanza soltanto gli stati membri, ma anche le comunità. Negli ultimi anni si sono fatti progressi nel dare voce alle popolazioni indigene, ma bisogna impegnarsi perché le persone in fuga possano prendere la parola non solo alle COP, ma in altri vertici”.

    Perché è importante fare differenza tra i rifugiati politici e climatici?

    “Se le persone abbandonano il loro Paese per una guerra, o perché sono perseguitate, significa che sono state oggetto di un attacco e i loro governi non sono stati capaci di proteggerle. Nel caso dei cambiamenti climatici, spesso i governi hanno provato a proteggere le proprie popolazioni, ma si tratta di eventi che vanno oltre i governi e la capacità di adattamento delle comunità. C’è un’enorme differenza in termini di bisogno di protezione internazionale e anche i termini usati per definirli sono importanti. Inoltre, ed è quello che cerchiamo di fare con l’accordo appena siglato con il CGIAR, studi e dati ci aiutano a individuare le aree più vulnerabili per attivarci e cercare strategie di adattamento”.

     

    Come riassumerebbe in questo momento l’azione dell’UNHCR riguardo la crisi climatica?

     “Come accennato, ci impegniamo per limitare gli effetti dei cambiamenti climatici su popolazioni che sono state già sfollate e poi cerchiamo di anticipare quanto può accadere nelle aree vulnerabili, per avviare partnership e azioni per investire nell’adattamento e nella mitigazione. Non possiamo più essere un organismo di risposta alle crisi, dobbiamo fare prevenzione. Mi preoccupa vedere che rispetto alla crisi climatica molti non abbiano ancora colto la gravità della situazione. Non è costruendo muri che fermeremo le persone costrette a migrare per gli effetti del riscaldamento globale e queste persone non sono una minaccia per noi: siamo noi che le stiamo mettendo in pericolo con le nostre politiche non sostenibili. Una trasformazione è indispensabile, perché il riscaldamento globale è irreversibile, le decisioni che prenderemo devono essere globali, è una questione di cittadinanza globale: tutti subiremo le conseguenze, ma dobbiamo occuparci subito di chi sta già perdendo tutto”. LEGGI TUTTO

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    Sciopero globale del clima, i Fridays for Future nelle piazze di tutta Italia: “Riprendiamoci il futuro”

    Torna oggi lo sciopero globale per il clima. In Italia come in tutto il mondo si preparano nuovamente le piazze ecologiste per “protestare contro gli interessi che ostacolano la giustizia climatica e sociale inasprendo o generando instabilità e conflitti”. Quest’anno Fridays For Future scenderà in piazza insieme ai movimenti palestinesi per chiedere anche un cessate il fuoco immediato e permanente nella Striscia di Gaza. “Gli interessi delle lobby fossili continuano a finanziare gli Stati responsabili di guerre, colonialismo e genocidi”, spiega Martina Comparelli, attivista di Fridays For Future Milano. Gli attivisti e le attiviste chiedono quindi “un intervento pubblico massiccio per realizzare la transizione ecologica, creare lavori per il clima e cambiare l’economia, anche in vista prossimo G7 in Puglia, a giugno”.Contemporaneamente, è stato annunciato uno sciopero promosso dal sindacato Sisa (Sindacato indipendente Scuola e Ambiente), per tutto il personale docente, dirigente e ATA, sia di ruolo che precario, sia in Italia che all’estero, per sottolineare, nel settore dell’istruzione, l’urgenza di affrontare le sfide attuali legate alla giustizia climatica e sociale anche nel contesto educativo.Da Torino a Catania, da Brescia a Napoli il movimento climatico chiama così a raccolta tutte le realtà che lottano “per la costruzione di un futuro condiviso e più equo per tutti”. “Abbiamo bisogno di riprenderci il futuro. Di agire per il benessere collettivo, fermando i progetti fossili confermati con il Piano Mattei come il raddoppio del gasdotto Tap, realizzando qui come altrove una transizione a pianificazione democratica” aggiunge Comparelli. 

    Di transizione e Piano Mattei si parlerà anche al prossimo G7 in Puglia, a giugno, ma secondo gli attivisti ambientalisti “gli già insufficienti impegni presi nell’edizione precedente non vedono ancora un riscontro nelle politiche italiane”, come spiega Michele Ghidini, di Fridays For Future Brescia: “Serve una spinta decisa verso l’uscita dal fossile: se vogliamo davvero rimanere i +1.5°C dobbiamo seguire le indicazioni che la scienza ci ha dato già da tempo. L’ultimo rapporto dell’IPCC è chiaro: la transizione deve essere accelerata accompagnandola con misure di riduzione delle disuguaglianze come la cancellazione del debito.”

    Le date di mobilitazione sono annunciate in collaborazione con altre realtà sociali, sindacali e transfemministe, tra le quali il collettivo di fabbrica GKN e Giovani Palestinesi Milano. Come dice Alessandra Pierantoni, attivista di FFF Forlì: “Vogliamo mostrare che un’alternativa è non solo possibile, ma desiderabile. Abbiamo bisogno di un intervento pubblico ora che operi ora e massicciamente per assicurare una transizione equa partendo dai bisogni di base, che coinvolga anche il mondo del lavoro, in modo da creare nuovi posti in tutti i settori necessari e adottare politiche di inclusione economica e sociale. Nessuno/a deve essere lasciato indietro.”

    Roma

    Al grido di “Free free Palestine” e con l’accensione di un fumogeno rosso è partito da piazzale Aldo Moro, davanti all’ingresso della Sapienza, il corteo dei collettivi – liceali e universitari – e delle organizzazioni studentesche che arriverà a piazza della Repubblica per unirsi alla manifestazione di Fridays for Future. “End Fossil End war. Free Palestine”, è scritto sullo striscione in testa. I ragazzi, circa 300, sventolano bandiere della Palestina e dei collettivi. Gi studenti hanno deciso di partire dall’ingresso della città universitaria “dopo i fatti dei giorni scorsi e per mostrare l’unità e la convergenza delle lotte studentesche e cittadine, per la Palestina, la giustizia sociale e quella climatica”, sottolinea Gaia. Intanto, davanti al rettorato dell’ateneo, Francesca e Leonardo di Cambiare Rotta sono ancora incatenati e in sciopero della fame.

    Roma (ansa) LEGGI TUTTO

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    Otto alpiniste italiane e pakistane per la prima missione glaciologica sul K2

    Otto donne unite in un’impresa storica. Per la prima volta un team di alpiniste italiane e pakistane – Federica Mingolla, Silvia Loreggian, Anna Torretta, Cristina Piolini, Samina Baig, Amina Bano, Nadeema Sahar, Samana Rahim insieme alla dottoressa Lorenza Pratali, alpinista e ricercatrice dell’Istituto di Fisiologia del Cnr esperta in medicina di montagna – scaleranno il K2.Si tratta anche della prima missione glaciologica sul K2: il team italo-pakistano studierà neve e ghiaccio del Karakorum, per comprendere gli impatti dei cambiamenti climatici sulla regione e preparare la futura missione Ice Memory sul ghiacciaio Godwin-Austen. La missione delle alpiniste fa parte del progetto K2 – 70 di Club Alpino Italiano dedicato alla celebrazione del 70° anniversario della prima salita sul K2 del 1954.

    L’emergenza

    Cambiamento climatico, l’Artico sta perdendo la memoria

    di redazione Green&Blue

    13 Febbraio 2024

     

    I 70 anni dalla conquista della vetta

    Spiegano gli organizzatori della mssione “Celebrare la conquista del K2 significa anche ricordarne il valore scientifico: nel 1954 Ardito Desio guidò, oltre agli alpinisti, un gruppo di ricerca sulla geografia, geologia e topografia dell’area. Oggi, in occasione della Giornata Mondiale della Terra, la spedizione K2-70 ribadisce l’importanza dell’esplorazione scientifica e supporta un team di scienziati italiani e pakistani che lavoreranno sul ghiacciaio Godwin-Austen. L’intento è studiare per la prima volta la neve e il ghiaccio di quella regione così cruciale per gli equilibri del subcontinente indiano”.Per Carlo Barbante, direttore dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche, professore all’Università Ca’ Foscari e vicepresidente della Ice Memory Foundation: “La situazione dei ghiacciai del Karakorum è molto differente da quella apparsa agli occhi di Ardito Desio ed è per questo che, oggi forse più di allora, è fondamentale proseguire lo studio di questi straordinari ambienti, vere e proprie sentinelle degli attuali cambiamenti globali”.

    Il team italo pakistano   LEGGI TUTTO

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    Derby di Milano, vale lo scudetto e sfida il cambiamento climatico

    Lunedì sera a San Siro i giocatori dell’Inter non entreranno in campo solo per vincere il derby e quindi matematicamente lo scudetto, ma anche per lanciare un messaggio importante: la partita del contrasto al cambiamento climatico è fondamentale, dobbiamo giocarla tutti e il calcio deve fare la sua parte. D’intesa con il WWF, che ha promosso la campagna “Il panda siamo noi”, i numeri di ciascun giocatore saranno associati ad una fascetta cucita sulla manica che collega quei numeri all’emergenza che stiamo vivendo: gli Extinction Numbers. Esempio: 1, Sommer: “Abbiamo 1 solo pianeta a disposizione”; 9,  Thuram, “gli ettari di foreste che vengono distrutti ogni minuto”;  10, Lautaro, “il calo medio percentuale della biodiversità negli ultimi 14 anni”; 23, Barella, i miliardi di dollari del commercio illegale di fauna; 20, Çalhano?lu, i decessi in Europa per caldo estremo nel 2022. 

    Dice Alessandra Prampolini, direttore generale del WWF: “La scienza ci dice come rischia di cambiare la nostra vita nei prossimi anni con numeri che descrivono in modo inequivocabile che stiamo compromettendo i nostri sistemi naturali. Siamo felici che l’Inter abbia scelto di mettere a disposizione i numeri delle proprie maglie per comunicare con noi in modo semplice e diretto”. Chiosa Javier Zanetti, storica bandiera nerazzurra e attuale vice presidente del club: “Siamo molto orgogliosi di questa collaborazione che ci permette di fare da cassa di risonanza su un tema molto importante. Il linguaggio dello sport, i suoi valori universali, riescono a favorire il cambiamento ed a raggiungere i cuori di milioni di appassionati. Siamo certi che questo appello non rimarrà inascoltato”.  LEGGI TUTTO

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    Consumo di foreste, energia e acqua: l’impatto ambientale nascosto della carta igienica. Le alternative? Bambù e paglia

    Era il 1850 quando Joseph Gayetty brevettò la prima carta igienica, presentata dai giornali come una “scoperta grandiosa e ineguagliabile”. Da allora molti e molti rotoli sono stati consumati. Secondo la piattaforma Statista, gli Stati Uniti sono oggi al primo posto nel mondo per consumo, con una quota individuale media di 141 rotoli all’anno, pari a 12,7 chili. Al secondo posto si attesta la Germania, con una media di 134 rotoli a testa, equivalenti a 12,1 chili. Segue il Regno Unito, con 127 rotoli, ovvero 11,4 chili. Un prodotto che pare, insomma, andare a ruba, con un fatturato globale che nel 2023 ammontava a 107,4 miliardi di dollari, con una crescita annuale prevista del 5,92%.

    Le fasi della produzione

    La storia di un rotolo inizia nel bel mezzo di una foresta. “Nella produzione viene impiegata una combinazione di legno duro (70%) e legno tenero (30%)”, dice Greg Grishchenko, ingegnere statunitense che ha lavorato per oltre quarant’anni nel settore. Gli addetti scortecciano gli alberi per rimuovere lo strato esterno (corteccia) e riducono i tronchi rimanenti in piccoli pezzi, i trucioli, mescolandoli poi con vari prodotti chimici. Pongono la miscela ottenuta in un fermentatore, una sorta di enorme pentola a pressione, e la lasciano cuocere per circa tre ore: durante la cottura, gran parte dell’umidità del legno evapora, dando origine a un impasto di cellulosa, lignina e altre sostanze. Da questo gli operatori ottengono una fibra malleabile, chiamata polpa o pasta. La sottopongono a un lavaggio multistadio, finalizzato a rimuovere il fluido di scarto, il cosiddetto liquore nero. Inviano poi il prodotto all’impianto di sbiancamento dove, utilizzando ozono, perossido, ossigeno, idrossido di sodio, viene rimosso il colore originario per ottenere una tonalità il più candida possibile. A questo punto, miscelano la polpa (0,5%) con una grande quantità di acqua (99,5%) per ottenere la carta. Quest’ultima viene, quindi, pressata, essicata (fino a un’umidità finale di circa il 5%), raschiata con lame metalliche e avvolta su apposite bobine. “Al termine del processo, la carta può essere testata tenendo conto di vari parametri di qualità, tra cui elasticità, opacità, umidità, levigatezza, colore”, precisa Grishchenko. Se tutto è conforme, gli addetti la tagliano in rotoli, la confezionano in pacchi e la spediscono agli esercizi commerciali.

    WWF

    Giornata delle foreste, in 30 anni persi 178 milioni di ettari di boschi: tre volte la superficie della Francia

    di redazione Green&Blue

    21 Marzo 2024

    Disboscamento e altri problemi

    Un procedimento lungo, quello di produzione della carta igienica, che ha un impatto tutt’altro che zero. Per realizzare un singolo rotolo sono, infatti, necessari circa 680 grammi di legno, proveniente soprattutto dalle piantagioni di eucalipto brasiliane e dalla foresta boreale canadese. Secondo un report realizzato da AidEnvironment, nel 2020 i maggiori esportatori di pasta di legno al mondo sono stati, nell’ordine, Brasile, Canada, Stati Uniti, Indonesia, Cile. Il solo Brasile ha esportato ben 15,6 milioni di tonnellate di pasta: quasi il 48% è finito in Cina, circa il 25% in Europa, circa il 15% negli Stati Uniti e il resto in altri Paesi. A incidere sull’impatto produttivo non è, però, solo la deforestazione, ma anche l’impiego di elettricità, le considerevoli emissioni di acqua, la generazione di rifiuti solidi, l’inquinamento dell’aria.

    Pure la fase di utilizzazione e smaltimento del prodotto non è scevra da conseguenze negative. Uno studio pubblicato nel 2023 dall’American Chemical Society sostiene che la toilet paper è una fonte di sostanze perfluoro alchiliche (Perfluorinated alkylated substances, Pfas) destinate a entrare negli impianti di trattamento delle acque reflue, con molteplici effetti nocivi sulla salute. Altri studiosi sottolineano che tale tipo di carta è uno dei principali inquinanti insolubili rilasciati nei sistemi di trattamento.

    Le alternative green

    A fronte di queste criticità, gli esperti stanno cercando di sviluppare alternative più ecologiche. Tra queste, la principale è la carta riciclata, prodotta a partire da carta bianca o colorata, priva di punti metallici. Quest’ultima viene posta in un dispositivo chiamato pulper, dove viene combinata con acqua. Qui, attraverso pale in rotazione, viene trasformata in un impasto fibroso, sottoposto poi a vagli e risciacqui per rimuovere i rivestimenti e gli inchiostri. Infine, viene igienizzata e leggermente sbiancata.Una ricerca, comparsa nel 2013 sulle pagine di The International Journal of Life Cycle Assessment, ha evidenziato che le emissioni di gas serra derivanti dalla pasta di legno sono più elevate di circa il 30% rispetto a quelle generate dalla carta riciclata. In pratica, per ogni chilo di prodotto finale, la prima emette 568 chili di anidride carbonica in più rispetto alla seconda. Inoltre, secondo l’Environmental Paper Network, la carta igienica ricavata direttamente dagli alberi ha un impatto sul clima tre volte superiore rispetto a quello della carta riciclata.In quest’ottica, anche la toilet paper realizzata a partire dal bambù, dalla canna da zucchero, dalla paglia sta ottenendo riscontri positivi. Per esempio, l’azienda svedese Essity, uno dei maggiori produttori di carta velina al mondo, ha inaugurato nel 2021, presso lo stabilimento di Mannheim, in Germania, un impianto per generare pasta di paglia. Una tecnologia innovativa che, secondo l’impresa, utilizza meno acqua e meno energia nella produzione, con un impatto ambientale inferiore del 20% rispetto a quello della carta realizzata con la tradizionale pasta di legno. LEGGI TUTTO