Febbraio 2024

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    La viticoltura biologica per resistere agli impatti del clima, dal Giappone alla Nuova Zelanda

    La crisi climatica, con le ondate di calore e gli eventi estremi di pioggia e grandine, colpisce duro e senza sosta l’agricoltura, ma soprattutto la viticoltura. Non solo in Italia, con il suo grande patrimonio di biodiversità, dove nel 2023 proprio a causa del cambiamento climatico – prima ha lasciato a secco e poi inondato le vigne causando la diffusione della peronospora – la produzione è scesa quasi del 30 per cento, ma in tutto il mondo. “Bisogna cambiare l’approccio”, si sente dire tra i vignaioli e non soltanto nel Vecchio Continente. Perché se non esiste, come spiegano gli esperti, un solo fattore che renderà un vino migliore per l’ambiente è necessario però mettere in atto una serie di comportamenti virtuosi dei viticoltori, cambiando sia i metodi di coltivazione sia nelle fasi del lavoro in cantina, rispettando la natura e guardando al futuro. Dall’Europa fino alla Nuova Zelanda.E mentre il clima pazzo cambio la geografia dei vigneti facendoli salire sempre più in alto sulle colline, la viticoltura bio appare oggi come il metodo di produzione migliore per affrontare gli impatti climatici. E non è un caso che negli ultimi 10 anni in Italia le superfici di vite coltivate a biologico siano aumentate del 145 per cento. Spiega Maria Grazia Mammuccini, Presidente FederBio: “La viticoltura bio copre una superficie di quasi 136 mila ettari, il 19% dell’intera viticoltura nazionale, con picchi che toccano il 38 per cento in alcune regioni fortemente vocate come la Toscana. La viticoltura bio rappresenta un esempio eccellente di resilienza e adattamento alla crisi climatica, che contribuisce contemporaneamente a preservare la fertilità del suolo e degli ecosistemi”. E per capirlo basta vedere gli esempi concreti che arrivano dal Giappone all’Argentina, dalla Francia alla Turchia.

    Storie di resilienza dei vignaioli invitati a partecipare alla terza edizione di Slow Wine Fair 2024, a Bologna dal 25 al 27 febbraio. Organizzata da BolognaFiere e SANA, Salone Internazionale del Biologico e del Naturale, con la direzione artistica di Slow Food storicamente impegnata sui temi della biodiversità, della sostenibilità ambientale e dell’equità sociale.

    Agricoltura

    Tutto un altro vino: il clima è in crisi e cambia la mappa dell’enologia

    di Fiammetta Cupellaro

    11 Novembre 2023

     “La Slow Wine Fair persegue un obiettivo importante e ambizioso: cambiare l’approccio all’agricoltura attraverso la produzione di vino – ha affermato Giancarlo Gariglio, curatore della guida Slow Wine durante la conferenza stampa di presentazione – Per questo motivo le quasi mille aziende che esporranno i propri vini hanno fatto da tempo una scelta precisa: la drastica riduzione o totale cancellazione della chimica di sintesi. Inoltre, utilizzano le risorse ambientali in maniera cosciente e sostenibile, sono lo specchio del loro terroir di provenienza, di cui preservano la biodiversità, e sono motori di crescita sociale delle rispettive comunità”.   

    Giappone: sostenibilità sociale e vigneti 

    Dall’altra parte del mondo in Giappone, ad Ashikaga, c’è  una cantina che da oltre 30 anni pratica agricoltura biologica e con il lavoro nel vigneto e nella produzione di vino aiuta i ragazzi diversamente abili: è la Coco Farm& Winery oggi un’affermata cantina e residenza-lavoro per 150 disabili. Nata dal sogno di un insegnate Noboru Kawata che, stanco dei modi convenzionali con cui venivano trattati i suoi studenti con disabilità mentale e fisica, decise di realizzare per loro una struttura di residenza e di lavoro convinto che il contatto con la natura fosse un’alternativa migliore alle terapie. Aveva ragione. Nel 1958 Kawata con i suoi ragazzi hanno cominciato la loro avventura iniziando la lavorare 7,5 ettari nella prefettura di Tochigi, a nord di Tokyo.

    Gli studenti della Kokoromi Gakuen al lavoro nel vigneto di Coco Wine  LEGGI TUTTO

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    Una proposta di legge delle ong contro gli allevamenti intensivi

    Una proposta di legge contro gli allevamenti intensivi è stata presentata questa mattina in una conferenza stampa alla Camera dalle associazioni ambientaliste Greenpeace Italia, Isde – Medici per l’ambiente, Lipu, Terra! e Wwf Italia. Le associazioni hanno illustrato a parlamentari e giornalisti il testo della proposta di legge dal titolo “Oltre gli allevamenti intensivi. Per una transizione agro-ecologica della zootecnia”, che trova il sostegno di Slow Food.La proposta di legge intende favorire le piccole aziende agricole zootecniche, incoraggiando la transizione ecologica di quelle grandi e medie attraverso un piano di riconversione del sistema zootecnico italiano finanziato con un fondo dedicato e prevedendo nell’immediato una moratoria all’apertura di nuovi allevamenti intensivi e all’aumento del numero di animali allevati in quelli già esistenti.

    Le idee

    La protesta dei trattori. Ritorno al futuro per ripianificare la sostenibilità

    di Domenico Ridente

    14 Febbraio 2024

    L’obiettivo, spiegano le associazioni proponenti, è promuovere la transizione ecologica del settore zootecnico, riconoscendo il giusto prezzo ai piccoli produttori e garantendo ai consumatori l’accesso a cibi sani e di qualità, secondo i valori positivi del Made in Italy. Una transizione che richiede una riduzione dei consumi di carne e di prodotti di origine animale provenienti da allevamenti intensivi, considerando che il consumo medio di carne in Italia è superiore a quello consigliato dall’Organizzazione mondiale della sanità.Il cambiamento, sottolineano, non può che partire da un freno all’ulteriore espansione dei maxi-allevamenti intensivi, specie nelle zone che già subiscono le conseguenze ambientali e sanitarie di un eccessivo carico zootecnico.

    A sostegno dell’iniziativa, durante l’evento di presentazione sono intervenuti Michela Vittoria Brambilla, deputata (Noi Moderati) e presidente dell’intergruppo parlamentare per i diritti degli animali e la tutela dell’ambiente; Eleonora Evi, deputata (Alleanza Verdi Sinistra) e segretaria di presidenza dell’intergruppo parlamentare per i diritti degli animali; Arturo Scotto, deputato (Partito Democratico) e componente dell’intergruppo parlamentare per il contrasto ai cambiamenti climatici; Andrea Orlando, deputato (Partito Democratico); Chiara Gribaudo, deputata (Partito Democratico); ancora, Laura Reali, presidente della Confederazione Europea dei Pediatri delle Cure Primarie, e Maura Cappi, portavoce del Comitato G.a.e.t.a. di Schivenoglia (Mantova), uno dei comitati locali contro gli allevamenti intensivi.

    L’intervista

    “Until the end of the world”, il lato oscuro dell’industria ittica. “Negli allevamenti di pesce c’è poco di green”

    di Marino Midena

    16 Febbraio 2024

    “Ci proponiamo innanzitutto – ha spiegato la deputata Brambilla – di tutelare la maggior parte degli animali d’allevamento (circa 700 milioni l’anno in Italia) dalla sofferenza di una vita che vita non è, ma anche di tutelare la salute pubblica (in generale e specialmente dalle zoonosi e dall’antibiotico-resistenza), riducendo l’impatto degli allevamenti intensivi a partire dalle zone a più alta densità zootecnica, di tutelare le risorse naturali per garantire la sicurezza alimentare delle generazioni presenti e future, di contribuire al rispetto degli obiettivi su  clima e inquinamento, di difendere le attività più piccole e più virtuose, rafforzando il sostegno economico, e permettere a quelle convenzionali di affrontare, nel tempo e con mezzi adeguati, la necessaria riconversione”. LEGGI TUTTO

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    Anche la pelle tra gli import che minacciano la deforestazione. E le concerie italiane si ribellano

    Perdonate il gioco di parole, ma l’impressione è che il mondo della conceria italiana venderà cara la pelle nei confronti della nuova normativa europea sulla “deforestazione zero”, quella che a fine anno vedrà scattare nuovi e complessi adempimenti burocratici sulla tracciabilità. Si profila così un nuovo scontro, dopo quello appena andato in scena da parte degli agricoltori sui trattori, nei confronti di un Green Deal europeo che appare oggi sempre più ammaccato.

    Le politiche

    Net zero: le sfide dell’Europa

    di Luca Fraioli, illustrazione di Massimiliano Aurelio

    02 Novembre 2023

    Verso la tracciabilità per la “deforestazione zero”

    Dal 30 dicembre 2024 il nuovo regolamento sulla “deforestazione zero” – che ha l’obiettivo di ridurre al minimo il disboscamento e il degrado forestale imputabili all’Unione Europea, così come tutelare la biodiversità – imporrà a tutte quelle filiere che importano determinati prodotti o materie prime come bovini, cacao, caffè, gomma, soia, legno, palma da olio ma anche derivati, come il cuoio o il cioccolato, di dimostrare attraverso la tracciabilità che non siano provenienti da terreni oggetto di deforestazione o degrado ambientale. Una direttiva che riguarderà dalle piccole alle grandi aziende, per esempio italiane, che si basano sull’import di questi prodotti. Per adattarsi al nuovo regolamento le imprese dovranno raccogliere informazioni, come le coordinate geografiche da cui provengono le materie importate, così come dimostrare attraverso dichiarazioni di aver esercitato la necessaria diligenza affinché non ci siano rischi legati alla deforestazione. Il non adempiere alla normativa, oppure potenziali non conformità, porteranno a sanzioni, così come il possibile sequestro dei prodotti o la loro commercializzazione.

    L’Ue è responsabile del 16% della deforestazione associata al commercio internazionale

    Se si è arrivati a questa decisione, ricorda l’Europa, è perché anche se sembrano lontani dall’Amazzonia (che è in forte crisi e avviata sempre di più verso la savanizzazione), gli affari europei pesano eccome sulla deforestazione tropicale.Uno studio approfondito dello Stockholm Environment Institute (SEI) insieme a Trase, sottolinea per esempio come l’Ue sia parte del problema: è responsabile del 16% della deforestazione associata al commercio internazionale e in sostanza è il secondo maggior “importatore di deforestazione” dopo la Cina, per via dei prodotti che importa. I dati del periodo 2005-2017 parlano soprattutto del peso che ha l’import di soia, olio da palma e carne bovina, così come del fatto che alcune delle principali economie Ue (Italia compresa), siano state responsabili “dell’80% della deforestazione integrata dell’Europa proprio attraverso l’uso e il consumo di materie prime a rischio forestale”.

    Le concerie italiane: “Regole impossibili da rispettare”

    Per questo si è resa necessaria una legge che però, a detta del mondo industriale, rischia di incidere in competitività (favorendo paesi come la Cina che non sono soggetti al regolamento), ma anche costi e grandi difficoltà burocratiche per le imprese. In Europa alcune associazioni di categoria, da quelle legate all’olio da palma fino al caffè, hanno già protestato, mentre in Italia tra i primi ad alzare la voce c’è il mondo della conceria. Di recente infatti all’inaugurazione della Filiera Pelle italiana sono intervenuti sia i vertici di Unic (Concerie italiane), sia il ministro del Made in Italy Adolfo Urso proprio opponendosi agli obblighi che derivano dalla nuova legge sulla deforestazione. Il presidente Unic, Fabrizio Nuti, elencando i numeri di un fatturato di 5 miliardi di euro di circa 1.100 aziende del settore conceria, ha spiegato  come “nel mondo valiamo il 25%: noi italiani produciamo un quarto di tutte le pelli del mondo. Ma abbiamo una spina nel fianco. L’approvvigionamento domestico di materia prima vale meno del 10%, quindi dipendiamo quasi interamente dall’estero per la nostra produzione. La geometria di questi numeri fa capire bene che la legislazione europea non bada alla nostra leadership, come quando ci cala dall’alto regolamenti e direttive che ci impongono regole impossibili da rispettare”.

    Lo studio

    La deforestazione in Amazzonia ha effetti a lunga distanza sul clima

    di Sandro Iannaccone

    06 Novembre 2023

    E ha aggiunto che “sulla deforestazione siamo stati inseriti a torto in questa direttiva. Noi, semmai, siamo quelli che raccolgono un residuo di lavorazione dell’industria della carne. Noi utilizziamo un sottoprodotto a cui diamo nuova vita. Questo regolamento ci impone di gestire adempimenti burocratici non difficili, ma impossibili. Dovremmo fare una dichiarazione di tracciamento per ognuna singola pelle. Ci sono concerie che ne usano 1 o 2 milioni di pelli all’anno. Se questa procedura ipotizziamo richieda un lavoro di 15/20 minuti a pelle, si capisce bene cosa possa significare”.A fargli eco anche il ministro Urso che sostiene come “negli anni l’Ue è stata dominata da una cultura dell’ambientalismo che aveva una regia precisa: distruggere l’industria europea. È importante che la sostenibilità ambientale che noi dobbiamo perseguire in Europa, debba essere compatibile con la sostenibilità sociale e industriale delle imprese e del lavoro europeo. Altrimenti l’Europa si trasforma in un museo a cielo aperto, in un deserto industriale” ha detto alle Fiere.

    “La tracciabilità è fondamentale per proteggere le foreste”

    Se da una parte il mondo delle imprese del cuoio e delle pelli contestano la nuova direttiva, chi fa ricerca e si impegna per proteggere le foreste, come Giorgio Vacchiano, docente in Gestione e pianificazione forestale presso l’Università Statale di Milano, spiega al contrario che questa direttiva è più che mai necessaria. “Lo scopo della direttiva è combattere la deforestazione importata, attraverso documentazione e tracciabilità per controllare che non ci sia deforestazione. Certo, per le imprese ci sarà un certo carico amministrativo, ma questo è necessario per fermare il degrado ambientale. Non si può però nel caso delle pelli parlare di sottoprodotto della carne, come se fossero un parte di un commercio virtuoso, di un rifiuto da economia circolare. La pelle è un co-prodotto, perché ha un valore economico tale da essere una leva economica per gli allevamenti e in questo caso fa parte di quello che è l’impatto degli allevamenti bovini sulla deforestazione. Oltretutto, a differenza della carne, che è cibo ed è un consumo primario, la pelle è in molti casi un bene di lusso, o che si può permettere solo una fascia della popolazione. Pensiamo al fatto che quasi il 50% delle pelli che importiamo in Italia va al settore automobilistico”, spiega Vacchiano.

    L’evento

    Giorgio Vacchiano, perché ci accorgiamo delle foreste solo quando bruciano

    dalla nostra inviata Gaia Scorza Barcellona

    06 Ottobre 2023

    Il ricercatore si dice conscio che “tenere traccia della provenienza non sia semplice, ma è doveroso per capire quanto si impatta. Alla fonte di ogni Paese di produzione la filiera è lunga e complicata, si va dalla nascita, la crescita e l’ingrasso dei bovini, poi si passa ai macelli, le concerie di primo livello o a quelle di seconda lavorazione. In tutti questi passaggi si può confondere la provenienza del materiale, che magari arriva da zone  deforestate per lasciar spazio agli allevamenti. Serve dunque uno sforzo maggiore per evitare importazioni dannose”. Infine, conclude Vacchiano, va ricordato quanto anche l’Italia debba necessariamente partecipare alle nuove regole.

    “L’impatto dei consumi italiani sulla deforestazione tropicale è di circa 50mila ettari di foresta all’anno. Più o meno pari a quanto crescono le foreste italiane. In pratica mentre i nostri boschi aumentano, noi delocalizziamo l’impatto fuori, magari in Amazzonia. Dobbiamo dunque lavorare per diminuire il nostro impatto all’estero, a partire dalla soia e i bovini, ma anche per i prodotti come le pelli. Capisco che non si possa solo denunciare, perché è necessario pensare al bene delle imprese: però già oggi esistono soluzioni, come le eco-pelli, o quelle sintetiche, che potrebbero aiutare a deforestare meno. Oppure, come appunto chiede l’Europa, continuare con gli attuali sistemi, ma con una tracciabilità che non lasci spazio a dubbi”. LEGGI TUTTO

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    Dallo scarto dei cereali l’alternativa ecologica al polistirolo per imballaggi green

    Si chiama Recou ed è un materiale che nasce dallo scarto delle bucce del grano, gli involucri che ricoprono i chicchi dei cereali. L’obiettivo è usarlo negli imballaggi, e farne un sostituto 100% sostenibile e completamente naturale del polistirolo. L’idea, altamente innovativa, nasce da un gruppo di amici di vecchia data con il pallino dell’ecologia, che con background formativi e professionali differenti, gettano le basi di Proservation, azienda tedesca che ha l’obiettivo di realizzare soluzioni di imballaggio ecologicamente ed economicamente valide.Attualmente, il polistirolo è uno dei materiali più usati sia nell’edilizia che negli imballaggi, ma la fragilità della sua consistenza comporta che si sbricioli facilmente, e purtroppo è uno dei rifiuti più presenti in mare, sulle spiagge e lungo le coste. Solo per dare un’idea parziale, si stima, che ogni anno in Italia vengano usate circa 50 milioni di cassette monouso in polistirolo espanso per trasportare e vendere circa 14mila tonnellate di pesce.

    Lo studio

    Il “superverme” mangia-polistirolo può insegnarci come smaltire la plastica

    di Matteo Marini

    10 Giugno 2022

    Chiaro è che la sua funzione nell’imballaggio è molto importante, perché garantisce che un prodotto (per esempio un elettrodomestico) sia trasportato nella massima sicurezza, ma una volta assolto il suo compito, il polistirolo si trasforma in un rifiuto, non semplice da riciclare. Questo perché, a seconda del tipo di polistirolo, può essere gettato nella plastica, ma anche nell’indifferenziata, talvolta nelle isole ecologiche.

    Da questa difficoltà è nata l’idea, e la sfida dell’azienda tedesca, che ha puntato alla pula di farro – un sottoprodotto dell’agricoltura che di solito è scartato o destinato ad altri usi minori – per realizzare una soluzione ecologica di imballaggio. La pula viene prodotta durante il processo di pelatura dei cereali di farro nei mulini, ma siccome le bucce non hanno alcun valore nutrizionale, e non sono usate neanche per la produzione di mangimi per animali, la maggior parte è usata per alimentare impianti di bio-incenerimento, mentre solo una piccola parte viene utilizzata come imbottitura del cuscino.

    Ricerca

    Dai funghi il polistirolo naturale per un imballaggio ecologico

    di Dario D’Elia

    18 Agosto 2022

    Per trasformare lo scarto in una risorsa, Proservation ha fatto ricorso ad un legante ecologico brevettato, che rende la pula di grano un materiale ammortizzante e resistente agli urti, ma soprattutto biodegradabile. Ed ecco il cambio di passo. Il prodotto finito, chiamato Recou, ha una forte resistenza all’umidità, tanto che conserva la sua integrità per massimo una settimana, ed in condizioni di umidità del 70%. Superato questo limite, il materiale inizia a decomporsi, attivando processi biologici naturali, come le muffe.

    Per la sua produzione, gli imprenditori tedeschi impiegano dalle 6 alle 8 ore per ciascun pezzo, con una densità finale di 120-150 kg/m³. Rispetto ad ogni singola sfera di polistirolo tradizionale, la pula di farro che compone Recou ha una densità maggiore e pesa il 70% in più, ma è del tutto biodegradabile e ha pochi limiti per la modellazione, quindi può adattarsi a varie esigenze.Ora l’azienda è in una fase iniziale della produzione, ma prevede l’avvio di un impianto industriale entro l’anno, con l’obiettivo di offrire al mercato un’alternativa ecologica, perché Recou viene prodotto in poche semplici fasi di processo, con un basso consumo energetico, ed a fine utilizzo può essere smaltito nel bidone dei rifiuti organici. LEGGI TUTTO

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    La Ue rafforza il trasporto combinato per minimizzare le emissioni

    Aiutare il mondo dei trasporti merci a ridurre le emissioni del 90% entro il 2050, sostenendo allo stesso tempo la crescita economica delle imprese che adottano nuove politiche più efficienti e sostenibili. È questo l’obiettivo della proposta della Commissione europea sul trasporto combinato, presentata lo scorso 7 novembre, che aggiorna la direttiva in materia (l’ultima […] LEGGI TUTTO

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    Il canto delle balene e come l’uomo rischia di zittirle

    Soave come un usignolo, melodioso come un merlo, allegro come un cardellino. Sebbene il bel canto, tradizionalmente, sia associato agli uccelli, in verità sono molte le specie animali use a esibirsi con espressioni canore o, come le chiamano gli esperti, vocalizzazioni. Tra queste, per esempio, ci sono diversi mammiferi marini, tra cui delfini e balene: e proprio al canto delle balene è dedicato un articolo appena pubblicato sulla rivista Nature a firma di un gruppo di scienziati del Sound Communication and Behavior Group alla University of Southern Denmark, del Vienna Cognitive Science Hub alla University of Vienna e di altri istituti di ricerca: gli esperti, in particolare, hanno evidenziato che mentre in generale i mammiferi emettono suoni modulando il flusso d’aria espirata in modo da far vibrare i tessuti nella propria laringe (le corde vocali), nel caso delle balene questo flusso segue un percorso un po’ diverso, il che rende il loro canto qualitativamente differente rispetto a quello degli altri mammiferi. E questo canto – qui arriva la cattiva notizia – ha dei limiti fisiologici che lo rende estremamente sensibile al rumore dei pescherecci e delle navi mercantili. 

    Il canto delle balene – così come quello di tutti gli animali – è legato a esigenze comunicative ben precise. Le balene hanno comportamenti sociali e riproduttivi molto complessi, che sono mediati proprio attraverso queste vocalizzazioni distintive; e infatti quando gli antenati delle balene tornarono negli oceani dalla terraferma dovettero evolvere diversi adattamenti per rendere possibile continuare a ‘cantare’ anche sott’acqua. Gli odontoceti, per esempio, hanno sviluppato un organo vocale nasale, mentre i misticeti, il gruppo che comprende le balene blu (Balaenoptera musculus) e le megattere (Megaptera novaenangliae), cantano usando un organo specializzato nella gola.

    Inquinamento

    Microplastiche trovate anche in Antartide, dove nuotano le balene

    di Fiammetta Cupellaro

    30 Gennaio 2024

    “I misticeti sono noti per la loro capacità di cantare sott’acqua”, spiega Joy S. Reindenberg in un pezzo di News & views che accompagna l’articolo appena uscito. “Le loro ‘canzoni’ sono prodotte da un organo posizionato nella loro gola, la laringe”. Tuttavia, finora le caratteristiche anatomiche e fisiologiche legate a questa modalità di produzione dei suoni non erano ancora del tutto chiare.”Nel loro lavoro, gli autori spiegano di avere scoperto un metodo per la produzione del suono finora sconosciuto, che ha origine in un sito insolito per la generazione delle vibrazioni: finora si pensava che le balene producessero suoni ‘spingendo’ l’aria tra pieghe di tessuto accoppiate, facendole vibrare; ma i ricercatori hanno scoperto l’esistenza di un percorso diverso nel flusso d’aria, che viene compressa tra una piega di tessuto e un cuscino di materiale grasso posto sopra di esso. La piega vibra contro il tessuto e genera il suono”.

    Biodiversità

    In declino circa la metà delle specie migratorie del mondo

    di redazione Green&Blue

    12 Febbraio 2024

    Gli autori del lavoro, in particolare, hanno esaminato le laringi di tre balene spiaggiate – balenottere minori e megattere – utilizzando tecniche avanzate di scansione e modellizzazione tridimensionale per ricostruire con precisione il “tragitto” dell’aria nella loro laringe. In tutti e tre gli esemplari hanno notato che il suono è prodotto da vibrazioni aerodinamiche di specifiche strutture locali che non sono presenti in altre specie di balene.Secondo gli autori, tra l’altro, queste strutture sarebbero anche responsabili del “riciclo” dell’aria e della prevenzione dell’inalazione di acqua. Di più: gli scienziati hanno anche costruito, al computer, un modello computazionale delle vocalizzazioni emesse con questo meccanismo, evidenziando che si tratta di segnali a bassa frequenza, in grado di viaggiare per distanze medie fino a una profondità massima di 100 metri e a una frequenza massima di 300 Hz (per confronto, la voce umana maschile “parlata” ha una frequenza mediamente compresa tra 70 e 150 Hz, e quella femminile compresa tra 150 e 250 Hz).

    Biodiversità

    Una speranza per le balene: l’Islanda valuta di vietare la caccia nel 2024

    di Cristina Nadotti

    20 Dicembre 2023

    Le strutture anatomiche appena scoperte, insomma, non sono in grado di produrre suoni a frequenze più alte, il che impedisce al canto di propagarsi su distanze di centinaia di chilometri e che soprattutto – purtroppo per le balene – posiziona il canto proprio all’interno della frequenza del rumore dei pescherecci e delle navi da trasporto (30-300 Hz): l’attività umana, insomma, potrebbe sovrapporsi e disturbare molto significativamente il canto di queste balene, e forse condannarle addirittura al silenzio. E non è una buona notizia. LEGGI TUTTO

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    La quinta base cinese in Antartide è un laboratorio strategico

    La via della seta è cosparsa di ghiaccio e neve, specialmente da quando, questo mese, la Cina ha aperto la sua quinta stazione di ricerca in Antartide. Gli esperti avvertono che l’espansione delle attività della Cina in Antartide potrebbe portare ad una maggiore presenza strategica di Pechino nel continente ghiacciato, anche se un portavoce del ministero degli Esteri cinese ha insistito che la nuova stazione sarà utilizzata per “fornire una piattaforma per l’esplorazione scientifica congiunta e la cooperazione tra la Cina e altri paesi e per contribuire a promuovere la pace e lo sviluppo sostenibile nella regione”. Tuttavia, sempre secondo gli esperti, la nuova base – denominata Qinling –  potrebbe anche migliorare le capacità di sorveglianza della Cina e darle un maggiore controllo sulle rotte marittime delle zone circostanti. La nazione più a rischio è la vicina Australia. Elizabeth Buchanan del National Security College dell’Australian National University ha affermato che il governo cinese “potrebbe non voler utilizzare questa stazione di ricerca per qualcosa di diverso dalla ricerca internazionale collaborativa per i prossimi 20 anni”. Tuttavia ha poi aggiunto: “E poi all’improvviso è una piattaforma che potrebbe facilitare la guerra, se quel giorno mai arrivasse.”

    Il vertice

    Militarizzati, sovrasfruttati e minacciati dal cambio climatico: a Parigi il primo summit per i Poli

    di Cristina Nadotti

    03 Novembre 2023

    La stazione, che sarà presidiata tutto l’anno, si trova nel Mare di Ross, privo di ghiacci, il che permette al personale di accedervi in qualsiasi periodo dell’anno, rendendola un punto strategico nel continente ghiacciato australe. Anche le altre stazioni cinesi in Antartide offrono opportunità strategiche. Per esempio, le navi che viaggiano lungo il Canale di Panama e di Suez si trovano ad affrontare sfide tra cui l’abbassamento del livello dell’acqua causato dalla siccità aggravata dai cambiamenti climatici. Ciò ha costretto i canali ad abbassare il limite massimo di profondità per le navi e ha portato anche a un calo del traffico marittimo. Il Passaggio di Drake, che si trova tra il Sud America e la stazione della Grande Muraglia cinese in Antartide, potrebbe diventare un percorso alternativo più popolare. Negli ultimi dieci anni, spiega ancora Elizabeth Buchanan, ha costruito infrastrutture in Cile e in alcune parti dell’Argentina, e “potrebbe rendere difficile il transito di altri navi, avendo il pieno controllo della navigazione o un numero maggiore di navi rispetto agli altri paesi per poter monitorare e bloccare il passaggio altrui”.Secondo l’ex capo della divisione antartica australiana, Tony Press, la costruzione della stazione Qinling da parte della Cina ha soddisfatto gli obblighi fondamentali del Trattato sull’Antartide per l’uso pacifico e la non militarizzazione, stando all’ispezione della base da parte dell’Australia nel 2020. Il trattato fu firmato da 12 nazioni nel 1959 durante la Guerra Fredda e designò il continente come una “riserva naturale, dedicata alla pace e alla scienza”, di fatto vietandone la militarizzazione.Tuttavia, una ricerca condotta da Anne-Marie Brady dell’Università di Canterbury ha scoperto diversi casi in cui la Cina non ha dichiarato l’utilizzo di personale militare in Antartide, compreso l’utilizzo di un esperto di logistica dell’Esercito popolare di liberazione (PLA) per allestire l’aereo BeiDou-2. Secondo Brady, il numero crescente di stazioni terrestri di ricezione satellitare a duplice uso in Antartide potrebbe aiutare Pechino a prepararsi per “l’interferenza di attacchi missilistici di precisione e per prendere di mira e comunicare con vari sistemi satellitari”. 

    Lo studio

    Il collasso dell’Antartide occidentale svelato da un polpo

    di Pasquale Raicaldo

    19 Gennaio 2024

    Con l’intensificarsi della concorrenza per le risorse marine nel Mar Cinese Meridionale, la Cina potrebbe anche anche trarre vantaggio dalla pesca in Antartide, secondo Daniel Bray, esperto di relazioni internazionali dell’Università di La Trobe. “È relativamente più facile per la Cina scendere nelle acque antartiche e pescare in quelle aree, compreso il krill, che è una fonte di cibo fondamentale per gli ecosistemi e per i medicinali”, ha affermato il dottor Bray. La Cina ha di recente intensificato la pesca del krill nel ricco ecosistema marittimo dell’Antartide, preoccupando ambientalisti e scienziati che chiedono controlli più severi.Gli esperti sostengono che la Cina potrebbe anche prepararsi per un momento in cui ci sarà una corsa per i minerali e le risorse, ma anche per rivendicazioni di sovranità nel caso in cui il Trattato sull’Antartide dovesse cadere. Il dottor Bray mette in guardia su una possibile corsa ai minerali, mentre altri sostengono che una delle risorse più importanti in Antartide resta l’acqua dolce. “Il continente ha grandi quantità di minerali, idrocarburi, petrolio e gas, e il 70% dell’acqua dolce della Terra è racchiusa in quel continente, quindi la Cina si posiziona per un lungo periodo”, ha detto il dottor Buchanan. Nel frattempo gli altri Stati restano a guardare, sperando forse che il baco finisca la sua seta, una sorta di torpore passivo che preoccupa più dell’invasione del continente ghiacciato. LEGGI TUTTO