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In Toscana le foreste affondano le radici nella storia

Con 1 milione e 151mila ettari di superficie boscata, la Toscana è in proporzione la regione più verde d’Italia, terza, dopo Liguria e Trentino-Alto Adige, per coefficiente di boscosità. In pratica, il 50% del suo territorio è coperto da foreste ed è straordinaria anche la varietà del miliardo e mezzo di alberi censiti, con specie tra le quali spiccano querce, castagni, faggi, lecci e tante conifere, che vanno dai pini domestici e marittimi sulla costa fino agli abeti bianchi e rossi dell’Appennino. Ogni toscano può, in pratica, contare su 2.800 ettari di foreste e, soprattutto, su uno straordinario meccanismo di compensazione di CO2?, indispensabile per contrastare il cambiamento climatico e garantire ecosistemi resilienti e ricchi di biodiversità. “Tale ricchezza ha radici lontane – spiega il colonnello Giovanni Quilghini, comandante del Reparto Carabinieri Biodiversità di Follonica ed esperto del settore – perché storicamente l’economia della regione si è basata sullo sfruttamento di prodotti legnosi e non legnosi, da cui è derivata una pianificazione dei boschi. Il paesaggio lo mostra bene, con la grande dorsale di Pratomagno, una sorta di anti Appennino; vista dall’alto, da Massa Marittima all’interno, la Toscana è un mare di bosco ininterrotto, con zone di conservazione speciale di estremo rilievo insieme a zone coltivate e copertura forestale”.

Tra le tradizioni storiche che hanno contribuito a fare della Toscana una regione di foreste ci sono la presenza degli ordini monastici e le politiche del Granducato. “Ordini monastici come i Camaldolesi e i Vallombrosani, di derivazione benedettina e fondati sul principio dell’ora et labora, hanno plasmato il territorio intorno agli eremi proprio con la coltivazione del bosco. In seguito, i principî per la gestione forestale, che erano parte integrante della regola monastica, sono stati ripresi dalla cultura forestale moderna e accademica, con studi di grande spessore soprattutto per la gestione delle faggete. Ci sono poi alcuni capisaldi storici, come il piano di riordino forestale voluto da Leopoldo II nel 1837, un intervento che testimonia la volontà di attingere a queste grandi risorse con giudizio. Un esempio di questa programmazione è stato, ai tempi, l’acquisto del bosco a Follonica da parte dell’amministrazione lorense, per evitare che il legname utilizzato per ottenere carbone fosse comprato senza regole”.

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06 Marzo 2024

Anche il neonato Stato Italiano, a fine Ottocento, dimostrò di tenere al suo patrimonio boschivo. “Già nel 1871 – conferma l’esperto – con l’istituzione del demanio forestale, 54mila ettari di foreste statali furono dichiarate inalienabili. Il Demanio Forestale ha rappresentato quindi la massima protezione e conservazione di quei territori che sarebbero poi divenuti il fulcro della politica ambientale nazionale: per una volta, infatti, quando si cominciarono a istituire le riserve naturali biogenetiche, l’Italia si trovò avvantaggiata”. Questi argini allo sfruttamento sfrenato hanno contribuito a mantenere la ricchezza della Toscana e di altre aree boschive in tutto il Paese: “Sia chiaro – sottolinea Quilghini – il bosco non ha bisogno di essere tagliato o “gestito” per essere sano e anche gli alberi caduti hanno una loro funzione. Diverso è considerare che la collettività possa aver bisogno di trarre dal bosco alcuni prodotti, come in passato si faceva principalmente per legna da ardere, carbone ed edilizia. Di recente, l’utilizzo del legno è tornato di grande interesse e quindi è di attualità il tema della gestione del bosco. Se vogliamo trarre dalle foreste dei prodotti dobbiamo puntare allora, appunto, a una gestione, e non a uno sfruttamento. La prima pone le basi per ottenere quel che ci serve lasciando però al bosco la possibilità di rigenerarsi, la seconda lo indebolisce. Oggi, poi, le conoscenze sono tali per cui se si parla di valore economico di un bosco non ci si limita a valutare quanto legname può dare, ma a considerare i servizi ecosistemici che fornisce, come quelli paesaggistici e ambientali per la compensazione di gas climalteranti e di inquinamento da polveri sottili. In ogni caso – conclude Quilghini – alcune aree vanno lasciate selvagge, perché solo studiando come si rigenera il bosco senza il nostro intervento possiamo progettare la gestione. Infine, ma è uno dei punti salienti quando si parla di gestione del patrimonio boschivo, non dobbiamo dimenticare che i tempi del bosco sono tempi che non coincidono con la durata della nostra vita. Per noi forestali è uno dei grandi crucci: progettiamo delle strategie, ma non siamo sicuri che riusciremo a vederne gli effetti”.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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