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Da sole 57 aziende sono responsabili dell’80% delle emissioni globali: la classifica

Mentre i cittadini vengono bombardati da raccomandazioni sulle scelte sostenibili per l’ambiente, sulla necessità di impegnarsi per un mondo più green e unirsi alla lotta alla crisi climatica, c’è un dato impressionante che ci riporta con facilità alla realtà delle cose: la stragrande maggioranza delle emissioni globali di CO2, circa l’80%, è riconducibili a sole 57 società. Parliamo di Stati, entità pubbliche, oppure di partecipazioni statali e di industrie quasi tutte collegate a combustibili fossili come carbone, petrolio, gas e alla produzione di cemento.

Quasi sessanta società che dall’Accordo di Parigi (2015) in poi  hanno continuato senza sosta ad emettere, alcune ampliando anche la propria produzione. Cinque dozzine di imprese – fra le quali anche l’Adnoc di cui il presidente della Cop28 è amministrato delegato, oppure l’italiana Eni – che hanno contribuito secondo i dati aggiornati del progetto Carbon Majors a impattare ulteriormente sul riscaldamento del Pianeta. 

Economia

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12 Marzo 2024

Il rapporto pubblicato in questi giorni da InfluenceMap è un aggiornamento, rispetto agli ultimi dati del 2017, del progetto Carbon Majors, grande database di dati che tiene traccia della produzione di combustibili fossili e analizza le emissioni di 122 società considerate dei veri e propri “motori” della crisi climatica. Nell’Accordo di Parigi del 2015 i governi mondiali si erano impegnati a ridurre fortemente i gas serra attraverso politiche di decarbonizzazione eppure, dimostra il report, la maggior parte dei produttori di combustibili fossili ha aumentato sia la produzione sia le relative emissioni dal 2015 al 2022 rispetto agli anni precedenti all’Accordo.

Nel dettaglio il 65% degli enti statali e il 55% delle aziende del settore privato hanno aumentato la produzione. Due le principali classifiche stilate grazie al database aggiornato. La prima riguarda la Top 10 degli “enti storici”, ovvero gli Stati e le aziende tracciati a livello di emissioni secondo i dati che vanno dal 1854 al 2022.

Al primo posto tra queste ci sono la Cina del carbone per un totale di  276,458 di milioni di tonnellate di CO2 equivalente e il 14% delle emissioni globali, seguita da quella che è considerata l’ex Unione Sovietica (6.8%) e poi da Saudi Aramco (3,6%), Chevron (3%) ed Exxonmobil (2,8%). Gazprom  (2.3%), National Iranian Oil Co (2.2%), BP (2,2%), Shell (2,1%) e Coal India (1,5%). L’Eni è al 33° posto (0,45%).

L’altra top ten riguarda invece le dieci compagnie principali per emissioni da dopo l’Accordo di Parigi e fino al 2022: in questo caso ai primi posti si trovano Saudi Aramco al 4.8%, Gazprom 3.3%, Coal India 3%, National Iranian Oil Co 2.8% e Rosneft 2.1%. Seguono CNPC (1,7%), Adnoc (1,7%), ExxonMobil (1,4%), Iraq National Oil Co (1,4%) e Shell (1,2%).

In generale le società di proprietà degli investitori rappresentano circa il 31% di tutte le emissioni, quelle statali sono collegate al 33%, mentre gli stati nazionali rappresentano il restante 36%.

Ci sono poi alcune società di proprietà degli investitori, come ExxonMobil, Shell, BP, Chevron e Total energies, che negli ultimi sette anni sono state tra i maggiori contributori a livello di emissioni climalteranti anche se a preoccupare sono forse ancor di più le emissioni legate ai produttori statali, soprattutto nel settore asiatico del carbone. Secondo il creatore di Carbon Majors, Richard Heede, “è moralmente riprovevole che le aziende continuino ad espandere l’esplorazione e la produzione di combustibili derivanti dal carbonio nonostante la consapevolezza ormai da decenni che i loro prodotti siano dannosi”.

Nonostante il quadro preoccupante  e un contesto in cui gli scienziati indicano la necessità di una immediata decarbonizzazione per tentare di rallentare la crisi climatica, va però anche sottolineato come la maggior parte delle società presenti nelle classifiche abbiano fissato obiettivi di emissioni zero che passano per investimenti, ad esempio, nel mondo delle energie rinnovabili, oppure nell’addio (anche se graduale) al carbone.

Una direzione però non sufficiente secondo Daan Van Acker di InfluenceMap secondo il quale gli enti in classifica si stanno muovendo “nella direzione sbagliata per la stabilità climatica.  La nuova analisi di InfluenceMap mostra infatti che questo gruppo non sta rallentando la produzione, con la maggior parte degli enti che aumentano la produzione dopo l’Accordo di Parigi. Questa ricerca fornisce dunque un collegamento cruciale per costringere questi giganti dell’energia a rispondere delle conseguenze delle loro attività”.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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