3 Marzo 2024

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    Lemuri, pipistrelli, cavallucci marini: animali uccisi dalla superstizione

    Tra i più sfortunati c’è l’aye aye, un singolare lemure notturno del Madascar. Ha un dito più lungo degli altri: stratagemma ingegnoso di Madre Natura, gli serve per procacciarsi larve e insetti. Eppure, sull’isola africana, c’è ancora chi è pronto a giurare che la sua presenza sia presagio di morte o malattia. E che quel dito possa addirittura uccidere chi ne sia indicato: anche per questo in alcuni villaggi la maledizione viene combattuta nel modo più brutale possibile: uccidendolo ed esponendolo su un palo. Quanto basta perché l’aye aye figuri oggi tra le 25 specie di primati più a rischio.

    Aye aye (foto: Martin Harvey/WWF)  LEGGI TUTTO

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    L’uomo è la bestia? Storia della convivenza quasi mai pacifica con la fauna selvatica

    Passeggiando in un bosco, cinquant’anni fa in Italia, era un colpo di fortuna imbattersi in un cervo, un capriolo o perfino in un cinghiale. Del lupo neanche a parlarne. La maggior parte delle popolazioni di grandi mammiferi italiani, infatti, erano ridotte ai minimi storici: il capillare sfruttamento agricolo e la considerevole diffusione degli insediamenti urbani e industriali che hanno caratterizzato il nostro Paese a partire dal XIX secolo, avevano profondamente alterato il territorio e ridotto gli habitat naturali. A questo si erano sommati il prelievo venatorio eccessivo, che aveva decimato le popolazioni di ungulati, e la persecuzione diretta dei grandi carnivori, in conflitto con le attività umane. 

    Oggi la situazione è decisamente cambiata e molte specie sono espansione numerica e spaziale. Quali sono stati i principali fattori che hanno contribuito a questa ripresa? Quale il ruolo delle azioni di conservazione? Cosa ci attende nei prossimi anni? Queste sono alcune delle domande cui hanno cercato di rispondere i principali esperti italiani riuniti al convegno “I grandi mammiferi tra reintroduzioni e ritorni spontanei: rileggere la storia, scrutare il futuro”, tenutosi il 2 febbraio a Sesto Fiorentino. L’evento, organizzato dal Gruppo di esperti per la conservazione e la gestione dei grandi mammiferi dell’Associazione Teriologica Italiana (ATIt), ha provato a ricostruire le tappe di questo ritorno e guardare alle sfide future che queste specie dovranno affrontare, prima fra tutte quella del riscaldamento climatico.All’inizio degli Anni ’70, la nuova coscienza ambientalista che si andava formando nel nostro Paese entra in una fase più matura. Le associazioni ambientaliste, costituite pochi anni prima, crescono e le battaglie che fino ad allora avevano riguardato più la gestione del territorio e la salvaguardia del paesaggio, si estendono e si diffonde un’attenzione più generale verso l’ambiente naturale e gli animali che fino ad allora erano stati oggetto della sensibilità di pochi. In parallelo, con le prime leggi nazionali e comunitarie per la tutela della fauna, in quegli anni nasce e inizia a diffondersi anche nel nostro paese la biologia della conservazione, una nuova disciplina scientifica che ha lo scopo di arginare l’impatto antropico sugli ecosistemi e prevenire l’estinzione delle specie. È in questo contesto che vengono realizzati ripetuti interventi di reintroduzione degli ungulati italiani, il cui obiettivo era quello di riportare le specie nei luoghi in cui si erano estinti a causa dell’azione umana. Interventi spesso privi di una adeguata pianificazione e frutto più di iniziative estemporanee che di strategie generali di conservazione delle specie, per le quali si sarebbe dovuto attendere almeno altri due decenni.Gli ultimi cinquant’anni sono stati davvero movimentati per quanto riguarda i grandi erbivori, catturati, traslocati, introdotti in tutto il paese, non sempre con lo scopo di tutelare la specie. Se cervi e caprioli, ridotti a poche centinaia negli anni Cinquanta, sono tornati ad abitare boschi, colline e montagne grazie a decine di operazioni di reintroduzione continuate lungo il corso dei decenni successivi, il cinghiale, come spesso capita, fa storia a sé.Nonostante la forte riduzione dell’area di presenza nel secondo dopoguerra, la specie non si è mai estinta sul territorio italiano e, anche in quelle aree in cui risultava assente, non è mai stata reintrodotta a scopo di conservazione ma sempre in previsione dello sfruttamento venatorio. Sfogliare i vecchi archivi per ricostruire la storia di queste operazioni ha permesso agli esperti di sfatare alcuni falsi miti e a comprovare i risultati delle moderne indagini genetiche. La maggior parte dei cinghiali traslocati nel corso di centinaia di immissioni, ad esempio, è risultata di origine italiana: i famosi animali dell’est Europa venivano infatti utilizzati quasi esclusivamente per “rinsanguare” animali italiani catturati e tenuti in recinto per le successive immissioni.Ancora diverso è il caso di due animali iconici delle nostre montagne, lo stambecco alpino e il camoscio appenninico, che hanno una storia molto simile che riguarda la caccia, la casata reale dei Savoia e l’istituzione delle prime aree protette italiane. In entrambi i casi, infatti, la tutela fu accordata a fine Ottocento per riservare alla nobiltà l’opportunità di prelevare gli ultimi animali superstiti, dopo che le prime armi da fuoco avevano praticamente estinto le popolazioni. Il passo successivo fu, nel 1922-23 la creazione dei parchi nazionali del Gran Paradiso e d’Abruzzo. Le strade delle due specie poi si dividono. A partire dagli Anni 60-70 lo stambecco è stato riportato in tutto l’arco alpino con decine di reintroduzioni, talvolta realizzate con una manciata di individui. Il camoscio appenninico, sceso a soli 40 esemplari nel dopoguerra, a partire dagli anni 90 è stato il protagonista di una delle operazioni di conservazione di maggiore successo in Italia, iniziata con le reintroduzioni nei parchi nazionali della Majella e del Gran Sasso-Monti della Laga, e arrivata oggi a contare circa 4.000 animali in 5 differenti popolazioni.Le traslocazioni di ungulati non hanno però riguardato solo le specie autoctone della nostra Penisola. In più di un caso gli spostamenti di questi animali fatti dall’uomo hanno favorito l’espansione di specie esotiche o hanno portato alcune specie in luoghi dove non sono mai esistite ne sarebbero mai potute arrivare spontaneamente, mettendo a rischio la salute della biodiversità locale e la sopravvivenza degli endemismi floristici. Così cervi e daini sono comparsi a Marettimo, nelle Egadi, i mufloni sardi sulle alpi e perfino sull’isola di Montecristo, il cervo sika, originario dell’Asia, sull’appennino settentrionale e un piccolo nucleo di ammotraghi, specie tipica del nord Africa, è comparso sulle montagne del Beigua, in Liguria. 

    Se la storia recente degli ungulati italiani, nessuna specie esclusa, può essere considerata un successo, nel caso dei grandi carnivori la situazione è molto diversa a seconda della specie considerata. Il lupo ha oggi ricolonizzato la quasi totalità della penisola italiana ma, malgrado leggende metropolitane dure a morire, in questo caso la ripresa della popolazione non è legata a traslocazioni o reintroduzioni, ma è stata favorita da un insieme di cause: le norme che ne vietavano l’uccisione, il ritorno delle sue prede selvatiche e lo spopolamento delle aree rurali. Gli stessi fattori stanno oggi favorendo la diffusione spontanea da est dello sciacallo dorato. Questo “piccolo lupo” negli ultimi decenni è stato protagonista di un’incredibile espansione naturale che, a partire dai primi avvistamenti all’inizio degli anni 80, lo ha portato a conquistare tutta l’Italia settentrionale e parte di quella centrale.L’orso bruno marsicano resta ancora gravemente minacciato dalla esigua dimensione della popolazione, che conta una cinquantina di esemplari, ma negli ultimi anni, a fatica, sta iniziando a espandere la sua area di presenza anche al di fuori dello storico areale del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, che fino ad oggi ha protetto la specie dall’estinzione. Sulle Alpi, come ormai è risaputo, l’orso è scampato all’estinzione grazie alla reintroduzione dal 1999 di 10 animali provenienti dalla Slovenia. Al di là delle recenti controversie di natura sociale, dal punto di vista della biologia della conservazione il progetto (tecnicamente si tratta di un’immissione, perché due o tre orsi ancora erano presenti in Trentino) è stato un grande successo e la specie consta oltre cento individui distribuiti su un’ampia area delle Alpi centro-orientali.A conti fatti, la specie che se la passa peggio è la lince. Portata all’estinzione all’inizio secolo passato, negli Anni ’70 è stata oggetto di reintroduzioni in tutti i paesi dell’arco alpino. La reintroduzione in Italia, realizzata nel 1975 nel Parco Nazionale del Gran Paradiso, si rivelò un fallimento a causa di una pianificazione inadeguata. Nei decenni successivi la lince ha più volte tentato la ricolonizzazione spontanea del nostro Paese a partire dai paesi confinanti ma senza riuscire a diffondersi stabilmente. Nell’ultimo decennio, però, le ripetute immissioni di animali condotte nell’ambito di progetti internazionali di conservazione e il timido affacciarsi in Italia di animali provenienti dalle popolazioni svizzera e slovena stanno portando nuove speranze per questo meraviglioso felide.Cosa ci riserva il futuro? Nel corso della giornata di Sesto Fiorentino sono emerse alcune priorità di azione per i grandi mammiferi: l’esigenza di un monitoraggio sistematico e rigoroso delle popolazioni sul territorio nazionale, l’urgenza di fare fronte all’espansione di alcune specie anche in contesti antropizzati, in aree rurali o urbane, la necessità di ampliare gli orizzonti della gestione faunistica, affiancando e incorporando le scienze sociali e la comunicazione alle nozioni ecologiche. 

    A chiusura dell’evento, una riflessione sulla recente introduzione illegale di castoro nell’Italia centrale ha messo tutti d’accordo su un aspetto: le reintroduzioni non possono prescindere da un’attenta pianificazione degli aspetti tecnici e da una valutazione preventiva delle conseguenze ecologiche, sociali ed economiche dell’intervento, fatta anche attraverso la consultazione delle popolazioni locali. 

    (Andrea Monaco, zoologo ISPRA e Laura Scillitani, biologa e Vicepresidente ATIt) LEGGI TUTTO

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    Flora e fauna selvatica protette dalla Cites, ma non dai governi

    Il 3 marzo si celebra la Giornata mondiale della fauna selvatica, per ricordare i molteplici benefici che la conservazione delle specie garantisce al benessere umano. Uno dei principali strumenti per proteggere animali e piante anche in Paesi che non hanno leggi avanzate come quelle europee è la Convenzione sul commercio internazionale delle specie di flora […] LEGGI TUTTO