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Un esperto italiano per scongiurare il disastro ambientale nel mar Rosso

Dove c’è un relitto che minaccia l’ambiente, c’è lui. Luigi Alcaro, primo ricercatore dell’Ispra, fa parte del team di esperti che sta cercando di evitare il disastro ambientale nel mar Rosso. La Rubymar, colpita dai missili degli Houti yemeniti lo scorso 18 febbraio e affondata lo scorso due marzo, contiene oltre 200 tonnellate di carburante e 22mila di fertilizzanti. Sostanze che, a quanto risulta, finora sono rimaste rispettivamente nel serbatoio e nella stiva della portarinfuse che batte bandiera del Belize ma è di proprietà britannica. Alcaro è stato nominato dall’Emergency Response Coordination Centre della Commissione europea per supportare le autorità yemenite. Commissione Ue che si è mossa su spinta delle Nazioni Unite. Alcaro, tra gli altri casi, ha già fornito supporto per una petroliera affondata in Perù nel 2022 e una portacontainer che prese fuoco e colò a picco nello Sri Lanka nel 2021.

L’obiettivo numero uno, spiega Alcaro che sta fornendo supporto a distanza, è quello di portare la nave a terra e svuotarla di tutto: combustibile e carico. Ma sotto il tiro degli Houti, questa è un’utopia: “A oggi non se ne parla, non ci sono le condizioni di sicurezza per svolgere un’operazione di questo tipo”. Tuttavia Alcaro, insieme agli altri esperti, sta ipotizzando una serie di interventi per capire anzitutto cosa sta succedendo alla nave, se il carico sta già uscendo e cosa accadrebbe (e dove) in caso di rottura di serbatoi e cisterne in un’area dove c’è una abbondante presenza di coralli e mangrovie.

Anzitutto il carburante: “Duecento tonnellate di combustibile pesante (Fuel oil), più sessanta di diesel sono un carico importante ma non enorme: basta pensare che la Costa Concordia ne conteneva 2.200 al momento dell’incidente” spiega Alcaro, secondo il quale la priorità è capire “in che stato si trova il combustibile: secondo le schede di bordo dovrebbe essere solido perché il punto di fusione è a 27 gradi. Questa è una buona notizia perché, in caso di rottura del serbatoio, rimarrebbe lì sotto”. Ma l’informazione è tutta da verificare e purtroppo “nel passato è successo spesso che, quanto scritto dalle schede di bordo, sia stato smentito dai fatti”. Un precedente ingombrante è quello della Prestige affondata nel 2002 al largo della Galizia: “I documenti ufficiali sostenevano che il combustibile sarebbe rimasto allo stato solido alla temperatura di due gradi dei fondali atlantici dove è affondata: così la nave fu trainata al largo perché affondasse lì” ricorda Alcaro. Il resto della storia è vicenda nota: una marea nera che colpì tremila chilometri di coste spagnole, portoghesi e francesi. Ma come si fa a verificare un dato del genere? Analizzando la composizione chimico-fisica del combustibile. “Lo si potrebbe fare in due modi – continua l’esperto di Ispra – o recuperando un campione di olio direttamente dal relitto, con le questioni di sicurezza che questo comporta, oppure chiedere un campione al distributore che aveva rifornito la Rubymar”.

Poi c’è il rischio legato alla perdita del carico di fertilizzanti. Che di fatto non costituiscono un inquinante pericoloso, ma comportano comunque un potenziale disastro ambientale. Se le sostanze fuoriuscissero lentamente, dice Alcaro, non ci sarebbero problemi. Se il rilascio avvenisse tutto insieme si potrebbe assistere a un “bloom algale”: “Se in un mare con pochi nutrienti, come il mar Rosso, si aggiungesse improvvisamente un’enorme quantità di nutrienti, si stimolerebbe la produzione massiva di fitoplancton”, cioè alghe unicellulari che, nel momento in cui muoiono, “abbassano il livello di ossigeno nell’acqua provocando la morte di tutti gli organismi che vivono in quella zona”. Ecco perché il team di esperti sta pensando anche alla possibilità di mandare dei robot sottomarini per conoscere lo stato della nave e alla ricerca di eventuali rotture delle cisterne. Un’ipotesi di misure di “monitoraggio speditivo” in campo: misurare il ph delle acque intorno al relitto. “Il mare ha un ph intorno a 8, mentre quei fertilizzanti di 4 – conclude Alcaro – con delle misurazioni potremmo capire se c’è già una perdita e di quali dimensioni”.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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