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Inquinamento da microplastiche, perché New York vuole abolire le capsule per il bucato

Le capsule e i fogli di detersivo impiegati per lavatrici e lavastoviglie hanno un impatto ambientale controverso poiché sono notoriamente biodegradabili, ma potrebbero rilasciare microplastiche nell’ambiente. Ne è convinto il consigliere municipale Democratico James Gennaro che a New York ha recentemente presentato una legge denominata Pods Are Plastic, come a ribadire che le capsule (in PVA o  PVOH, alcool polivinilico) sono pur sempre di plastica sintetica a base di petrolio e quindi ne dovrebbe essere vietata la vendita. La sua presa di posizione si basa su alcune evidenze scientifiche emerse da uno studio di un gruppo di ricercatori della Arizona State University, che nel 2021 ha polarizzato l’attenzione sulla letteratura scientifica dedicata al tema. 

Il successo delle capsule in PVA, tra pregi e presunti difetti

Negli ultimi dieci anni le capsule di detersivo trasparenti – che vengono usate da tantissime famiglie, anche in Italia – hanno avuto un grande successo commerciale. Questo si deve al fatto che sono più comode da usare e le relative confezioni sono più piccole rispetto ai comuni flaconi con liquido. Per di più, come ricorda la rivista specializzata Grist, le aziende hanno sempre assicurato la completa biodegradabilità del prodotto, tanto più che l’associazione di categoria American Cleaning Institute ribadisce che “il PVA si scompone in componenti non tossici, rendendolo un’alternativa più sostenibile alle plastiche tradizionali, quando viene esposto all’umidità e ai microrganismi”. Il problema, almeno negli Stati Uniti e quindi anche a New York, è che secondo i ricercatori dell’Arizona il 77% (circa 8mila tonnellate all’anno) del PVA che raggiunge gli impianti di trattamento delle acque reflue viene poi rilasciato intatto nell’ambiente. Il motivo è dovuto al fatto che in alcuni casi non ci sono i microrganismi giusti negli impianti e in altri il tempo di permanenza è troppo basso – al massimo una settimana contro gli ideali 60 giorni per una degradazione del 90%.

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La proposta di legge di Gennaro è stata fortemente criticata dalla American Cleaning Institute poiché il divieto al PVA appare non solo “non necessario” ma anche frutto di “una campagna di disinformazione condotta da Blueland”. Quest’ultima è la startup di New York che fin dalla sua nascita nel 2019 ha puntato tutto su un approccio green estremo, finanziando per altro la ricerca della Arizona State University che ha messo sotto accusa l’alcol polivinilico. Da tempo, fra i vari prodotti, offre una linea di compresse di detersivo a base vegana prive di PVA, parabeni, fosfati, ammoniaca, candeggina, ftalati, etc. Inoltre nel 2022 si è fatta promotrice insieme a diverse associazioni per l’ambiente di una petizione indirizzata alla U.S. Environmental Protection Agency per rimuovere il PVA dall’elenco delle sostanze chimiche sicure. Lo scorso anno l’agenzia per l’ambiente ha rigettato ogni richiesta sottolineando che la base dati sarebbe incompleta e che gli studi attuali confermano la sicurezza di questo composto chimico.

American Cleaning Institute ha rincarato la dose sottolineando che il PVA impiegato dalle capsule di detersivo è diverso da quello comune e si dissolve totalmente e in poche ore. “Non esiste alcuna prova scientifica che il tipo di PVA utilizzato per i detergenti diventi microplastica”, asserisce l’associazione.

In realtà i ricercatori concordano tutti su almeno un punto: la sorgente di diffusione di microplastiche più vicina ai cittadini è la lavatrice. Secondo uno studio del 2019 pubblicato su Nature si parla di 1,5 milioni di microfibre di plastica per chilogrammo di tessuto lavato, con conseguenti 200.000 – 500.000 tonnellate di microfibre disperse nel mare ogni anno. In pratica un terzo di tutte quelle che finiscono negli oceani sarebbero dovute all’abbigliamento. La soluzione? Acquistare indumenti realizzati con materiali naturali, dotare le lavatrici di filtri microplastici e/o adottare diverse strategie. Almeno in attesa di nuovi tessuti con filati più resistenti, come quelli oggetto di diverse ricerche, fra cui Microfibers: Environmental Problems and Textile Solutions della Rutgers University e University of Plymouth.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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