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Gli agricoltori sono i più esposti ai danni del riscaldamento globale, ma le politiche green dell’Europa non sono il nemico

“Agli agricoltori la scienza del clima dice che la loro attività è fondamentale, ma che, soprattutto quella ‘industriale’, è anche fonte di preoccupazione per l’impatto sui cambiamenti climatici: il 37% delle emissioni di gas serra sono dovute alle coltivazioni intensive. Le proteste hanno senso se sono una richiesta di aiuto per far evolvere l’agricoltura nella direzione giusta. Altrimenti ci si presta solo a strumentalizzazioni e anzi si rischia di pagare un prezzo altissimo: se non si interviene chi coltiva la terra è tra i più esposti ai danni del riscaldamento globale“.

Riccardo Valentini conosce bene l’emergenza climatica (è tra i fondatori del Centro euromediterraneo su cambiamenti climatici) ma è anche un esperto di coltivazioni e boschi: insegna Ecologia forestale all’Università della Tuscia e nel 2019 è stato tra gli autori del Rapporto speciale su Cambiamenti climatici e il territorio pubblicato dall’Ipcc. “Fino ad allora”, spiega Valentini, “il riscaldamento globale era associato solo ai combustibili fossili. Noi segnalammo quanto sia importante il contributo della produzione del cibo”.

Professor Valentini, ma allora è sbagliata la protesta degli agricoltori contro le politiche green dell’Euorpa?“Io penso che sia del tutto fuori luogo, soprattutto se a protestare sono le piccole aziende. In questi anni la Ue, con provvedimenti come il Green Deal o il Farm to Fork, ha voluto proprio proteggere l’agricoltura di qualità che consuma meno energia ed è più sostenibile. Temo che la protesta, confondendo diversi piani, rischi di minare gli interessi dell’agricoltura sostenibile, che è quella che fa meglio sia alla salute delle persone che a quella del Pianeta. Perché si può mangiare bene senza intaccare la Terra”.

Eppure gli agricoltori, anche i piccoli, si sentono vessati da Bruxelles. L’esempio ricorrente in questi giorni è l’obbligo di lasciare incolto il 4% dei terreni di ogni azienda…“Non è un obbligo. Se lo si fa si può accedere ai fondi europei, altrimenti no. Ma è vero che c’è un problema di erogazione dei fondi. Le Regioni italiane, per la loro burocrazia, non riescono a erogare tutti soldi destinati agli agricoltori da Bruxelles. E molti rischiano il fallimento, perché magari hanno dovuto anticipare di tasca loro. Ma questo non ha a che fare con le politiche green dell’Unione, è molto più un problema di malgoverno locale”.

Sull’altro lato della barricata, si fa notare che l’agricoltura è uno dei settori più sovvenzionati con denaro pubblico. È giusto?“Dobbiamo entrare nell’ottica che l’agricoltore non produce più solo cibo, ma servizi per la società: clima, aria, acqua. E io, per esempio, sono felice di pagare con le mie tasse quegli agricoltori virtuosi che erogano questi servizi e manutengono il paesaggio. Anzi, io penso che le proteste dovrebbero insistere su questo punto”.

Cioè ancora più soldi pubblici?“Se mi si chiede di non usare i concimi chimici perché altrimenti inquino, è giusto che mi si dia un aiuto economico per adottare sistemi più sostenibili. Non è che le limitazioni siano state messe perché la Ue è cattiva, ma perché si vuole proteggere la salute degli europei. Non si può inquinare. E però gli agricoltori vanno aiutati a non farlo”.

Non c’è rischio che così i prodotti agricoli extraeuropei diventino più competitivi in fatto di prezzi per i consumatori?“Personalmente sono favorevole a una border tax e al protezionismo alimentare. L’Europa è all’avanguardia, deve far pagare una tassa a chi vuole far entrare prodotti che sono stati ottenuti a costi inferiori perché non rispettano le normative europee”.

Ma questo non significa un carrello della spesa ancora più caro per gli europei?“La Ue è un mercato da mezzo miliardo di persone. Una border tax comporterebbe forse un aumento dei prezzi, ma anche un maggior consumo di prodotti europei, con una spinta all’occupazione interna e alla redistribuzione della ricchezza. La verità è che dobbiamo credere nell’Europa, che con una moneta e una mercato interno forti può dettare le regole”.

L’allora ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, parlando del settore automotive, ebbe a dire che con certe politiche climatiche si rischiava “un bagno di sangue”, riferendosi e chiusure di aziende e perdite di posti di lavoro. Può valere anche per l’agricoltura?“È il tema centrale della transizione ecologica. Ma invece che mettersi di traverso, andrebbe chiesto più denaro pubblico per farla. Chi, di fronte a nuove opportunità, rimane fermo viene superato dagli altri: è sempre successo nella storia dell’umanità. E oggi vale per l’automotive come per l’agricoltura. Meglio scendere in piazza per rivendicare più soldi. Ricordo anche che l’Italia è già molto avanti su questo cammino. Perché la nostra agricoltura è fondamentalmente sana e di qualità. I prodotti di punta, come l’olio d’oliva e il vino sono ormai sostenibili. Per questo è assurdo che si vada contro l’Europa, quando Bruxelles ci considera un modello per il futuro”.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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