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Ci vestiremo con capelli e alghe per rispettare l’ambiente

Per affrontare un problema enorme come la crisi climatica ci vuole anche creatività. E quale settore se non quello della moda ha nella creatività proprio uno dei suoi elementi più caratteristici? L’industria del fashion ha un impatto per nulla trascurabile sull’ambiente. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), contribuisce per una percentuale compresa tra il 2 e l’8% alle emissioni globali di gas a effetto serra. Non solo, è anche responsabile del 9% delle microplastiche disperse negli oceani e consuma circa 215mila miliardi di litri di acqua all’anno. 

La coltivazione del cotone, per esempio, che è tra le fibre tessili naturali più utilizzate a livello globale insieme alla lana e il lino, ha bisogno di molta acqua ed è associata a un massiccio utilizzo di pesticidi. Le fibre sintetiche, come il poliestere e il nylon, sono invece realizzate con polimeri ottenuti da derivati del petrolio e ad ogni ciclo di lavaggio rilasciano microplastiche nell’ambiente. Per non parlare dell’industria conciaria e della pelle, che, oltre a richiedere un elevato consumo di acqua e a produrre una grande quantità di rifiuti speciali, viene spesso accusata dagli ambientalisti di aggravare la piaga della deforestazione in Amazzonia.

Longform

L’industria della moda può diventare sostenibile?

10 Marzo 2023

Insomma, la sostenibilità è diventata un imperativo per il settore moda. Da qui l’impegno di diverse startup e aziende per mettere a punto nuove alternative più ecologiche rispetto ai materiali tradizionali. Le idee non mancano, e vanno dal riutilizzo di prodotti di scarto all’impiego di fibre vegetali fino a poco tempo fa considerate impensabili. 

La “forza” dei capelli

Ad Amsterdam una giovane designer ungherese, Zsofia Kollar, ha dato vita nel 2021 a Human Material Loop. Il suo obiettivo?  Recuperare da saloni di bellezza e negozi di parrucchieri i capelli umani tagliati per realizzare indumenti. Si stima che ogni anno soltanto in Europa vengano tagliati capelli per un peso complessivo di circa 72 milioni di chilogrammi. Quando non possono essere donati per fare parrucche, i capelli tagliati finiscono solitamente nell’indifferenziata per essere poi trattati nei termovalorizzatori o smaltiti in discarica.

(foto: Human Material Loop) 

Uno spreco inaccettabile agli occhi di Kollar, che ha deciso di sfruttare in maniera originale le innumerevoli proprietà dei capelli umani. Questi ultimi hanno un rapporto resistenza-peso simile all’acciaio: una chioma di capelli, si legge sul sito di Human Material Loop, potrebbe addirittura tenere sospesi in aria due elefanti adulti (circa 12 tonnellate). Questo grazie alla cheratina che conferisce ai capelli non solo robustezza, ma anche elasticità. Tra le altre virtù dei capelli c’è anche la capacità di assorbire materiali oleosi, tanto che vengono utilizzati perfino per realizzare particolari tappeti che aiutano ad arginare le fuoriuscite di petrolio. Solo per citare un esempio, sono stati usati in occasione del disastro della piattaforma Deepwater Horizon nel 2010.

Quanti riusi per un capello: nasce la filiera del riciclo

08 Gennaio 2021

Il filato ricavato dai capelli umani, dopo un processo di pulizia e trattamento, avrebbe caratteristiche molto simili alla lana, stando a quanto riporta la startup, con il vantaggio di essere completamente cruelty free. L’ostacolo principale è rappresentato dai costi. Per quanto i capelli tagliati siano una materia prima sostanzialmente gratuita, il processo di raccolta e lavorazione può essere molto dispendioso. Intervistata dal quotidiano The Washington Post, Kollar ammette che il materiale creato con i capelli umani sia attualmente più costoso della lana, del cotone o del poliestere, ma aggiunge che, una volta raggiunta la produzione su vasta scala, sarà in grado di offrire un prezzo molto competitivo. Se il modello di business di Human Material Loop avrà successo, il suo obiettivo è quello di produrre 550mila tonnellate di tessuto all’anno entro il 2034.

La pelle dai funghi, tra luci e ombre

Quella di MycoWorks, startup che ha sviluppato un biomateriale ottenuto da filamenti di micelio (l’apparato vegetativo dei funghi) in grado di sostituire la pelle di origine animale, è la tipica storia da Silicon Valley: partita da un piccolo garage a San Francisco, è riuscita a costruire un impianto di produzione in South Carolina ed è arrivata a convincere un marchio dell’alta moda del calibro di Hermès. Il gruppo francese ha infatti presentato nel 2021 una borsa interamente realizzata con il materiale brevettato da MycoWorks. Materiale che replica l’aspetto e la consistenza del pellame, conservandone le caratteristiche di resistenza e durevolezza, con il vantaggio di essere completamente a base vegetale. L’unica nota dolente, anche in questo caso, è la scarsa accessibilità. Lo stilista californiano Nick Fouquet ha lanciato una linea di cappelli fatti con il tessuto sostenibile creato da Mycoworks: il prezzo di un singolo cappello supera gli 800 dollari.

Mycelial (foto: MycoWorks) 

A fare da contraltare alla parabola ascendente di MycoWorks c’è però l’esperienza fallimentare di Mylo, la pelle vegana sviluppata dall’azienda biotech Bolt Threads. Il meccanismo è lo stesso: anziché dagli animali, il pellame viene ottenuto dal micelio dei funghi coltivati in impianti di agricoltura verticale alimentati con energia rinnovabile. Inizialmente l’entusiasmo per Mylo era alto, tanto che colossi come Adidas e Stella McCartney hanno scommesso sul biomateriale a base di micelio. Ma poi qualcosa si è inceppato, e nel luglio 2023 Bolt Threads ha fermato la produzione di Mylo per scarsità di investimenti. Le motivazioni sono state messe nero su bianco in un comunicato diffuso dall’azienda americana: “nonostante i nostri intensi sforzi, l’attuale scenario macroeconomico ha reso sempre più difficile garantire il capitale necessario per sostenere l’espansione di tecnologie emergenti”. 

Tessuti viventi grazie alle alghe

Dagli Stati Uniti ci trasferiamo in Israele. Qui ha sede la startup Algaeing, fondata nel 2016 da Renana Krebs, che vuole utilizzare le alghe per creare fibre tessili sostenibili. In principio, l’azienda aveva ottenuto dalle alghe un colorante naturale, biodegradabile e applicabile su ogni tipo di tessuto, che sostituisse le tinture chimiche. La ricerca si è poi focalizzata anche sullo sviluppo di fibre cellulosiche a base di alghe, la cui produzione fosse a spreco zero e carbon negative (cioè, in grado di contribuire alla cattura di CO2 dall’atmosfera). Le alghe sono fornite da un’altra azienda israeliana, Algatech, che le coltiva in fattorie verticali alimentate ad energia solare.

(foto: Algaeing) 

Qualcosa di simile è stato sperimentato anche in Canada, dove la designer Roya Aghighi, in collaborazione con un gruppo di ricercatori dell’Università della British Columbia, ha ideato un tessuto vivente e biodegradabile chiamato Biogarmentry. Indossarlo significa prendersi cura di una pianta, a detta della sua creatrice. Gli abiti realizzati con questo materiale, simile al lino, sono infatti costituiti da una particolare tipologia di alga unicellulare (Chlamydomonas reinhardtii) e da dei nanopolimeri in grado di avviare autonomamente la fotosintesi clorofilliana, trasformando l’anidride carbonica in ossigeno. 

Economia circolare made in Italy

Anche in Italia ci sono giovani realtà che si stanno adoperando per rendere più sostenibile l’industria tessile in maniera originale. Nata a Catania nel 2014 da un’idea di Adriana Santanocito e Enrica Arena, la startup Orange Fiber ha realizzato e brevettato dei tessuti ecosostenibili di alta qualità a partire da sottoprodotti della lavorazione delle arance, una delle colture simbolo del territorio siciliano. Orange Fiber ha saputo in breve tempo conquistare l’attenzione di importanti case di moda, avviando già nel 2017 una collaborazione con Salvatore Ferragamo e più di recente con lo storico brand di sartoria napoletana Marinella.

(foto: Orange Fiber) 

Dal trentino arriva invece Vegea, che ha creato un innovativo tessuto vegetale a basso impatto utilizzando come materia prima le vinacce, ovvero ridando valore agli scarti dalla produzione vinicola. Le potenzialità legate a questo tipo di tessuto sono davvero notevoli, considerando che l’Italia è il secondo produttore di vino al mondo (l’anno scorso il primato è stato perso in favore della Francia). Anche Vegea, che è nata nel 2016, può vantare collaborazioni prestigiose, come quelle con H&M, Stella McCartney e la casa automobilistica Bentley, che ha scelto di utilizzare il tessuto ecologico a base di uva per gli interni di alcune delle sue auto.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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