Giugno 2024

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    Da Venezia l’appello al mondo: “Educhiamo alla tutela degli oceani”

    VENEZIA. Educare i bambini e i ragazzi alla tutela dell’oceano. Ad amare e preservare quell’immenso patrimonio blu che, pur rappresentando il 70% della superficie del pianeta, è tra gli ecosistemi più a rischio inquinamento, minacciato dal riscaldamento globale. Non poteva che partire da Venezia, dove il mare è l’identità stessa della città, proprio nel Giornata mondiale degli oceani l’appello perché l’educazione all’oceano rientri nei programmi scolastici di tutto il mondo. Non solo a scopo pedagogico, ma per avviare quella svolta culturale che il cambiamento climatico ci impone. A piccoli e adulti. 

    Con questo obiettivo 130 tra esperti e delegati degli Stati membri dell’Unesco si sono riuniti nella città della laguna per siglare la Venice Declaration for Ocean Literacy un documento collettivo che in dieci punti racchiude raccomandazioni concrete per riequilibrare la relazione tra oceano ed esseri umani. Siglato a Venezia inizia oggi il suo viaggio: prossima tappa il 2 luglio a New York dove verrà condiviso con tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite che si riuniranno per definire il programma della terza conferenza dell’Onu sull’Oceano. Poi il documento sarà protagonista a giugno 2025 a Nizza, dove è prevista la conferenza co-ospitata dai governi di Francia e Costa Rica. 

    Max Sirena, Magdalena Landry e Lorenzo Bertelli  LEGGI TUTTO

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    La Nato studia il clima nell’Artico: “Con mari più caldi cambia la nostra capacità di difesa”

    TROMSO (Norvegia) – Nel fiordo riparato del porto di Tromso non c’è un’onda a far muovere la nave Alliance. Il nome è straniero, ma sul ponte sventola la bandiera italiana e sono 44 uomini della Marina militare a prepararsi per salpare, insieme a 12 ricercatori, verso il fronte polare del Mare di Barents, una regione in cui le masse d’acqua atlantiche e quelle artiche si incontrano senza mescolarsi. Fino al 12 luglio, la campagna artica della Alliance sulla geofisica marina sarà una delle più importanti per monitorare gli effetti del cambio climatico sugli oceani e per raccogliere dati indispensabili alle strategie di sicurezza della Nato.

    Idrofoni e misuratori di salinità al posto delle armi

    La nave Alliance è un’unità polivalente di ricerca (NATO Research Vessel – NRV) che svolgerà nell’Artico attività condotte dal Centro di Ricerca e Sperimentazione Marittima (CMRE), per conto dell’Organizzazione Scientifica e Tecnologica (STO) della NATO. Sulla nave, dipinta di bianco e non di grigio al contrario delle unità da guerra, non ci sono armi, ma avanzati strumenti per ricerche e sperimentazioni soprattutto nel campo dell’acustica subacquea. LEGGI TUTTO

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    Erica Pozzi e le erbe selvatiche: “Raccogliamole in modo consapevole”

    Erica Pozzi, 35 anni, vive a Val Seriana (in provincia di Bergamo), ama il mondo delle erbe selvatiche nelle loro molteplici proprietà e tutela il loro habitat: nella sua pagina Instagram Gli Orsini, racconta uno spaccato di natura alpina e prealpina poco conosciuto. “Sono nata in una zona urbana in provincia di Milano. – racconta Pozzi – Dopo la laurea in Scienze dell’educazione, con una tesi in educazione ambientale, ho deciso di trasferirmi nel centro Italia, dove ho vissuto alcuni anni in campagna. Una volta tornata al Nord, ho scelto di vivere tra le montagne e la città. Ho iniziato a raccogliere qualche specie di pianta selvatica in Umbria, circa dieci anni fa, ma al mio rientro in provincia di Bergamo è nata la passione vera e propria. In quel periodo ho avuto la fortuna di poter trascorrere da sola molto tempo nei boschi e nei prati e si è risvegliata la mia curiosità”.

    Nella sua attività lavorativa, Erica Pozzi si occupa della raccolta conservativa di piante selvatiche ed è coinvolta in diversi progetti di educazione e divulgazione ambientale. “Collaboro – spiega Pozzi – con l’orto botanico di Bergamo, alcuni parchi naturali, una fattoria didattica e sono una guida ambientale escursionistica: organizzo corsi ed escursioni alla scoperta delle piante selvatiche di collina e montagna. Seguo anche la parte di trasformazione culinaria ed erboristica a livello didattico: organizzo corsi di cucina selvatica, infusi e tisane”..Il suo lavoro varia molto in base al meteo e alla stagione. “In primavera  – prosegue – se non ho attività o corsi, sono in raccolta a seconda di cosa cresce nei boschi e nei prati. A casa cerco di approfondire le trasformazioni, confrontandomi anche con colleghe e colleghi. Il periodo da febbraio a ottobre è quello più intenso, poi d’inverno mi riposo e penso ai progetti dell’anno successivo”. LEGGI TUTTO

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    Agli oceani dobbiamo la vita, ma stiamo perdendo la loro ricchezza

    Da mari e oceani dipende la nostra vita. Non è una boutade ma una certezza scientifica consolidata. Provo a fare una breve sintesi che giustifica quest’ affermazione e che forse la maggior parte di noi conosce, ma non tiene a mente quando si parla di mare. In primo luogo, la vita sulla Terra è nata in mare poco più di 3 miliardi di anni fa. Senza quelle prime forme di vita microscopiche non ci sarebbe stata nessuna altra forma di vita superiore. Sono stati i microorganismi degli oceani circa 1,5 miliardi di anni fa a creare l’atmosfera ricca di ossigeno che respiriamo. Ancora oggi le piante e le alghe del mare producono circa il 50% dell’ossigeno del Pianeta. 

    L’uomo dipende dal mare anche per la propria alimentazione. Il mare produce circa il 30% delle proteine del Pianeta e dal pescato dipende la sopravvivenza di oltre un miliardo e 200 milioni di persone. Il mare accumula il 90% del calore prodotto dall’effetto serra e assorbe oltre il 30% dell’anidride carbonica prodotta in eccesso dalle attività umane. Si tratta di un enorme climatizzatore, che raccoglie il calore d’estate e lo ridistribuisce in inverno mitigando il freddo eccessivo. Il mare mitiga i cambiamenti climatici. Gli oceani contengono circa il 98% dell’acqua del Pianeta e le piogge che bagnano i nostri raccolti derivano dall’evaporazione dell’oceano Atlantico. L’acqua che in futuro irrigherà le terre sempre più desertificate dai cambiamenti climatici (incluso il nostro mezzogiorno) sarà l’acqua di mare desalinizzata. 

    Quasi il 90% dei trasporti globali di merce passa dal mare, con navi sempre più grandi, e la rete dei commerci tra continenti sarà sempre di più dipendente dal mare. Dal mare estraiamo anche materie prime, metalli preziosi e rari, oltre a idrocarburi, e lo faremo sempre di più in futuro, essendo la maggior parte dei depositi ancora da sfruttare in fondo al mare. Dal mare estraiamo molecole speciali prodotte da una biodiversità evoluta in 3 miliardi di anni con cui possiamo fare diagnosi mediche, produrre nuovi farmaci antitumorali e prodotti di bellezza. 

    Dal mare passa una parte rilevante dell’economia (con oltre 54 miliardi di valore aggiunto) e dell’occupazione (quasi il 4% del totale). Il solo Mediterraneo sostiene un flusso di più di 400 milioni di visitatori all’anno, e i 130 milioni che vengono in Italia contribuiscono largamente all’economia del nostro Paese. Il 52% di questi turisti vengono per il mare e vogliono bagnarsi in acque pulite e ricche di vita. 

    Ma il mare non è come le terre emerse, non ha confini: il tonno pescato in Sicilia non arriverà in Atlantico, e viceversa; le acque contaminate nei fondali in Mediterraneo si spostano verso l’Atlantico, le plastiche rilasciate nel Nilo arrivano sulle nostre coste; le specie aliene tropicali dell’Oceano Indiano, passando per il Canale di Suez, invadono il Mediterraneo alterandone la biodiversità e il funzionamento. 

    Su questi temi di interesse universale si concentra la Giornata Mondiale degli Oceani che cade l’8 giugno. Stiamo già perdendo molti dei benefici che gli oceani hanno reso all’Uomo dalla sua comparsa sulla terra. La pesca a livello globale sta diminuendo in modo allarmante, a partire dal 1995 ogni anno peschiamo un milione di tonnellate di pesce in meno. Nel Mediterraneo abbiamo “spremuto” quasi tutte le specie di interesse commerciale e il 70% di queste è largamente sovra-fruttato. 

    Le tecnologie di pesca industriale sono sempre più efficaci per pescare ma dannose per l’ambiente. Lo strascico ara il fondale come un aratro su un campo di grano, raccogliendo tutti gli organismi che vivono sul fondo dei mari e allo stesso tempo distruggendo gli habitat e desertificando il mare. Ogni anno distruggiamo una superficie pari all’1,3% degli oceani, un’estensione superiore a quella dell’intero Mediterraneo e abbiamo già distrutto il 30% degli habitat marini costieri del nostro paese. 

    Questi dati spiegano il rischio che corriamo se continuiamo a maltrattare il mare e sottolineano la nostra responsabilità di porre rimedio a questa situazione. Non è finita qui, ulteriori minacce incombono, il Pianeta blu è sempre più oggetto di attenzioni geo-politiche per la definizione di nuove strategie globali. Circa il 50% degli oceani è al di fuori delle aree di giurisdizione nazionale, incluse le zone di utilizzo economico esclusivo (oltre le 200 miglia, circa 400 km da costa), quindi non appartiene a nessuno. 

    La tentazione da parte delle grandi potenze di reclamare queste aree di nessuno, e quindi di impossessarsene sarà sempre più forte. Il Trattato globale sull’Alto Mare approvato dalle Nazioni Unite nel 2023 rappresenta un passaggio fondamentale per prevenire queste tensioni poiché ha creato un quadro normativo unitario per la gestione e conservazione della biodiversità marina che servirà a frenare le attività dannose per gli oceani al di fuori dei confini nazionali. Ma non riusciremo ad evitare nuovi conflitti se non ci adopereremo per una gestione globale condivisa. 

    Il Trattato sull’Alto Mare potrà imporre anche la cessazione di attività di pesca e la moratoria per l’estrazione mineraria nei fondali marini. Ma questo non basta, siamo ancora lontani dagli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni unite sulla Biodiversità che impegna tutti i Paesi a proteggere e conservare almeno il 30% degli oceani (con il 10% strettamente protetto) e a garantire il restauro del 30% delle aree degradate entro il 2030. L’Unione europea in questi anni è stata una forza straordinaria a livello globale per il raggiungimento di questi obiettivi. Ha dato l’esempio di come si può e si deve fare per arrivare a una gestione sostenibile delle risorse di mari e oceani. Ma serve una fase nuova in cui non solo si cerchi la pace ma si prevengano anche nuovi conflitti.Roberto Danovaro è professore di Biologia Marina all’Università Politecnica delle Marche e presidente Fondazione Patto con il Mare per la Terra. LEGGI TUTTO

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    Se in Sicilia il grano non cresce più

    La crisi climatica fa sempre più paura ma solo a chi la soffre veramente. E cosa vuol dire soffrirne? Vuol dire vedere il frutto del proprio lavoro venir meno, vuol dire guardarsi intorno e rendersi conto che è a rischio il mettere insieme il pranzo con la cena per la propria famiglia, gli studi dei propri figli, il loro futuro. E poi, alla fine, anche il futuro degli esseri umani sul pianeta. La stragrande maggioranza di noi sente la crisi climatica, la avverte, ma è ancora ben distante da soffrirne seriamente. Se si innalzano le temperature a dismisura, si accendono di più i climatizzatori; se arrivano le calamità che creano impedimenti e danni, si ricorre ai bonus e agli aiuti (se arrivano) per mitigare e, quasi mai, compensare le reali perdite. Ma ci si rialza, ci si arrangia, si riprende. È un fatto di soldi, di investimenti. 

    Ma l’agricoltura no, la fertilità dei suoli no. Per quella non ci sono soldi che possano rimettere la strada nella giusta direzione. E quando la crisi raggiunge livelli senza precedenti, in quel momento si fa statistica e si comprende che non è la naturale oscillazione degli eventi. In Sicilia il grano non cresce più, è già parzialmente secco con oltre due mesi di anticipo rispetto ai tempi della mietitura tradizionale. La spiga è vuota, gli agricoltori continuano a prenderne alcune in mano e a sgranarle, nella speranza di vedere qualcosa di utile. Qualcuno ambisce, almeno, a rifare il seme investito nello scorso autunno, cioè quel paio di centinaia di chili ad ettaro che possano servire almeno per la prossima stagione. È un disastro, senza precedenti a memoria di chi ha già superato i cinquant’anni. Una siccità che ha messo a nudo le carenze strutturali e infrastrutturali della rete regionale. Ma anche la migliore infrastruttura non può compensare una crisi climatica devastante. Si parla di dissalazione (con costi energetici ignorati), si riprendono studi sul riuso delle acque reflue, qualcuno guarda alle specie tropicali senza rendersi conto che temperature e acqua non sono sempre così dipendenti l’una dall’altra. Qui siamo in una condizione in cui per l’acqua si attiva la competizione tra agricoltura e comunità. Acqua per gli agrumi e per la vite o acqua per le abitazioni e per i cittadini? Qual è la risposta corretta? 

    In un contesto come questo vediamo gli agricoltori di fronte a scelte complesse e dobbiamo probabilmente impegnarci di più a star loro accanto e non lasciarli soli. Come scegliere oggi tra tenere la barra dritta sperando in un futuro diverso o cedere alle sirene di chi propone l’installazione di pannelli fotovoltaici al suolo? Di fronte ad un’agricoltura sempre più in difficoltà, come trovare argomenti efficaci per impedire il consumo di suolo e la distruzione di un paesaggio agrario che è anima del nostro Paese? Qualcuno parla della trasformazione della Sicilia da granaio a batteria d’Italia, si sentono le voci di impianti da record europei se non mondiali. Si fa presto a tenere alta la confusione, tra fotovoltaico, agrivoltaico, eolico a terra, a mare, e via discorrendo. Si sta in barricata gli uni (i favorevoli) contro gli altri (i contrari). Mai però che ci si fermi a fare valutazioni coerenti e sistemiche. Abbiamo bisogno di transizione energetica ma anche ecologica, dobbiamo tutelare il nostro paesaggio e, come abbiamo recentemente scritto nell’articolo 9 della Costituzione, “la biodiversità, l’ambiente e gli ecosistemi”.Tutto questo come si sposa con l’installazione a terra di un pannello? E perché i pannelli devono andare al suolo prima di averli diffusi in modo capillare sui tetti e nelle aree industriali? Molte risposte sono ancora da cercare, fuori dalla visione spinta da interessi di parte e provando solo a guardare gli interessi in modo sistemico, incluso quelli della natura e degli ecosistemi. A cominciare dal dare valore alla biodiversità che oggi è fonte di resilienza. Le varietà siciliane di grano duro, quelle della tradizione più che antiche, quelle lungamente abbandonate per far posto ai tanti quintali ad ettaro, soffrono ma sono ancora verdi, manifestano un maggiore adattamento a condizioni climatiche estreme. Ci sono varietà tradizionali di ortaggi da aridocoltura, quasi dimenticate, che sanno attraversare un’intera stagione senza essere irrigate. C’è da rigenerare suoli devastati da un’agricoltura industriale, in serra con varietà ibride funzionali ad una spinta destagionalizzazione che non è mai stata sostenibile e lo è ancora meno oggi che l’acqua non c’è. C’è da rivedere un intero modello produttivo, guardando agli equilibri ecosistemici per poter considerare reali prospettive agricole. E investire le risorse in modo diverso, cercando di sostenere il rafforzamento degli agricoltori virtuosi che credono nei principi di agroecologia, di accompagnare la conversione di quelli che vogliono diventare virtuosi, e provando a leggere le reali esigenze di un territorio che vuole giocare il proprio ruolo pur rimanendo un’isola, circondata dal mare che è l’unico vero e determinante ponte che deve unire con le altre terre. Di altri non c’è necessità. LEGGI TUTTO

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    Nell’Artico scoperto un virus gigante che potrebbe rallentare la fusione dei ghiacci

    Quando il sole sorge nell’Artico dopo mesi di oscurità, la vita ritorna ad appropriarsi del paesaggio: gli orsi polari emergono dalle loro tane invernali, la Sterna paradisea torna in volo dal suo lungo viaggio verso sud e i buoi muschiati si dirigono verso nord. Oltre agli animali più conosciuti, esiste una serie di esseri viventi che si risveglia in questo periodo. Pur non avendo la stessa visibilità e il fascino, queste creature svolgono un ruolo fondamentale sia da un punto di vista ecologico, sia climatico. Stiamo parlando delle alghe che fioriscono sul ghiaccio in primavera, annerendolo e, di conseguenza, facendolo fondere più velocemente. Immaginate di indossare una maglia nera in una giornata assolata: si riscalderà rapidamente, al contrario di una bianca. A tale proposito, alcuni ricercatori potrebbero aver trovato un modo per controllare la crescita delle alghe nella neve, diminuendo l’impatto sulla fusione del ghiaccio e, di conseguenza, sull’innalzamento del livello dei mari.

    Crisi climatica

    Il ghiaccio marino artico si sta riducendo a una velocità senza precedenti

    di redazione Green&Blue

    23 Febbraio 2024

    La scoperta è stata pubblicata sulla rivista Microbiome. “Non sappiamo molto sui virus, ma penso che potrebbero essere utili per alleviare la fusione del ghiaccio causato dalla fioritura delle alghe. Quanto siano specifici e quanto efficiente sarebbe, non lo sappiamo ancora.”, ha affermato la ricercatrice Laura Perini del Dipartimento di Scienze Ambientali dell’Università di Aarhus, autrice dell’articolo. I virus sono normalmente molto più piccoli dei batteri e misurano dai 20 ai 200 nanometri (un nanometro è un millionesimo di millimetro), mentre un tipico batterio misura 2-3 micrometri (un micrometro è “solo” un millesimo di millimetro). In altre parole, un virus normale è circa 1.000 volte più piccolo di un batterio. Questo, però, non è il caso dei virus giganti, che possono addirittura raggiungere dimensioni più grandi di quelle dei batteri. Ma i virus giganti non sono solo più grandi in termini di dimensioni. Il loro genoma è anche molto più grande di quello dei virus normali. I batteriofagi, ovvero i batteri che infettano i virus, hanno tra 100mila e 200mila elementi nel loro genoma, mentre sono circa due milioni e mezzo nel caso di virus giganti.I virus giganti furono scoperti per la prima volta nel 1981, quando i ricercatori li trovarono nell’oceano. Successivamente, virus giganti furono trovati nel suolo terrestre e persino negli esseri umani. Tuttavia, è la prima volta che vengono scoperti sulla superficie del ghiaccio e della neve dominata dalle microalghe, spiega Perini. “Abbiamo analizzato campioni di ghiaccio scuro, neve rossa e buchi di fusione (crioconite). Sia nel ghiaccio scuro che nella neve rossa abbiamo trovato tracce di virus giganti attivi. E questa è la prima volta che sono stati trovati su ghiaccio superficiale e neve contenenti un’elevata abbondanza di microalghe pigmentate”, afferma. “C’è un intero ecosistema che circonda le alghe. Oltre a batteri, funghi filamentosi e lieviti, ci sono protisti che mangiano le alghe, diverse specie di funghi che le parassitano e i virus giganti che abbiamo trovato, che le infettano. Per comprendere i controlli biologici che agiscono sulle fioriture algali, bisognerà studiare questi ultimi tre gruppi”, continua Perini.

    Clima

    L’Artico da bianco a blu, senza ghiaccio entro il 2050

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    05 Marzo 2024

    Per assicurarsi che il DNA virale non provenisse da microrganismi morti da tempo, ma da virus vivi e attivi, il team ha anche estratto tutto l’mRNA dal campione.”Nell’mRNA totale sequenziato dai campioni, abbiamo trovato gli stessi marcatori del DNA totale, quindi sappiamo che sono stati trascritti. Ciò significa che i virus sono vivi e attivi sul ghiaccio”, afferma Perini. Per utilizzare le ricette necessarie per creare proteine, i composti chimici che svolgono la maggior parte del lavoro nel virus, il virus deve trascriverle dal DNA a doppio filamento all’mRNA a filamento singolo, cosa impossibile nel caso dei virus normali ma atto che i virus giganti possono effettuare autonomamente, il che li rende molto diversi dai virus normali.”Continuiamo a studiare i virus giganti per saperne di più sulle loro interazioni e quale sia esattamente il loro ruolo nell’ecosistema. Entro la fine dell’anno pubblicheremo un altro studio scientifico con qualche informazione in più sui virus giganti che infettano una microalga coltivata che prospera sulla superficie del ghiaccio di la calotta glaciale della Groenlandia”. LEGGI TUTTO