15 Aprile 2024

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    Record di caldo in Costa d’Avorio: a rischio la produzione di cacao

    Da gennaio l’Africa occidentale sta battendo i record di calore attribuiti al fenomeno meteorologico El Niño: in Costa d’Avorio, le ondate di calore stanno distruggendo l’agricoltura, che rappresenta un quarto del Pil e più della metà dei posti di lavoro. Dopo le piogge dello scorso anno, questa volta è il caldo estremo a compromettere il raccolto del primo produttore mondiale di cacao (quasi il 45%).Quest’anno “abbiamo osservato un forte caldo nel periodo gennaio-marzo”, con “un record di 41°C nel mese di febbraio” a Dimbokro (al centro), riferisce Daouda Konaté, direttore della meteorologia nazionale presso Sodexam, l’agenzia meteorologica ivoriana. In questo periodo dell’anno “le temperature normalmente variano intorno ai 35-36°C”.

    Crisi climatica

    El Niño contribuirà a temperature superiori alla norma tra marzo e maggio

    di redazione Green&Blue

    05 Marzo 2024

    La Costa d’Avorio non è l’unico paese della regione colpito. In Mali, la città di Kayes (sud-ovest) è soffocata sotto i 48,5°C all’inizio di aprile. Per la sua durata e intensità, il caldo elevato provoca uno stress idrico alle piante, spiega Siaka Koné, ingegnere agrario e direttrice della Scuola superiore di agronomia di Yamoussoukro, la capitale ivoriana. Quando hanno “colpi di calore, le quantità d’acqua fornite non saranno sufficienti per farli crescere correttamente e la fioritura non avrà luogo”, aggiunge. Ora, se “non ci sono fiori”, “non ci sono frutti”. Inoltre, osserva che la temperatura del suolo aumenta come quella dell’aria e crea “una maggiore evaporazione dell’acqua”.Secondo Daouda Konaté, da pochi mesi il primo vicepresidente africano dell’Organizzazione meteorologica mondiale, “quest’anno è speciale a causa del El Niño”, un fenomeno meteorologico naturale che corrisponde a un notevole riscaldamento di una parte del Pacifico meridionale. Ma il caldo estremo è causato anche “dall’azione umana: i nostri consumi e la nostra industria”, assicura Nahounou Pierre Lautti Daleba, geoeconomista, membro della Ong Giovani Volontari per l’Ambiente della Costa d’Avorio.

    Crisi climatica

    Sicilia, Messico, Tenerife: è già emergenza idrica. Le misure e i rischi

    di Giacomo Talignani

    01 Marzo 2024

    Se l’Africa emette solo il 7% delle emissioni globali di gas serra dalla metà del XIX secolo, secondo il sesto rapporto dell’Ipcc, si sta riscaldando più velocemente di altri continenti. Le temperature sono aumentate di +1,4°C, rispetto a +1,1°C a livello globale. Ad esempio, la Costa d’Avorio emette quasi 100.000 milioni di tonnellate di CO2 equivalente all’anno, ovvero lo 0,0019% del totale mondiale. L’obiettivo è però ridurre le proprie emissioni del 30,41% e ripristinare parte delle foreste, il 90% delle quali sono scomparse dal 1960. Secondo le previsioni del governo ivoriano, il cambiamento climatico potrebbe “comportare una perdita annua del Pil compresa tra il 3 e il 4,5% tra il 2020 e il 2030”. LEGGI TUTTO

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    L’inutile bellezza della biodiversità alla luce dell’evoluzione

    Un articolo apparso su “Green&Blu” giorni addietro titolava “Sciacallo dorato appeso nel Parco delle Dolomiti: un gesto di odio verso una specie non pericolosa”. Questa volta il bracconaggio non c’entra; dopo che lo sfortunato esemplare di Canis aureus era stato investito accidentalmente, qualcuno ha pensato bene di appendere il corpo al cartello di “benvenuto” del Parco delle Dolomiti. Avevo già scritto di questo animale trattando il problema delle “specie aliene”, quella categoria di minacciosi invasori di cui fa parte anche il “lupo dorato” (preferisco chiamarlo così). Questo lupetto è infatti originario dell’Asia, ed è arrivato in Italia non a causa di qualche maldestro ripopolamento ma attraversando i Balcani sulle proprie zampette. L’avevo descritto in questi termini: “Un piccolo lupo che si comporta come una volpe ma con un nome infelice che non può che accrescere i guai che sarà destinato a incontrare nei suoi nuovi territori, che sono anche i nostri”.

    La questione delle specie aliene è un buon esempio di come la prospettiva evolutiva offra spunti per una migliore comprensione del fenomeno e del problema biodiversità. Se però, da un lato, ciò aiuta a capire più a fondo le cose, dall’altro le complica, in quanto trasforma un compito già difficile (tutelare la biodiversità) in un’impresa titanica: tutelare la biodiversità non soltanto cercando soluzioni congeniali alle nostre capacità tecnologiche, ma anche tenendo conto di quei vincoli naturali che da sempre abbiamo aggirato per poter progredire, oltre che sopravvivere. Ma perché fare riferimento a una teoria che guarda al passato quando, per fronteggiare il problema della biodiversità, abbiamo a disposizione l’IA e la geoingegneria?

    Nel 1973, il genetista ucraino Theodosius Dobzhansky, uno dei padri fondatori del Neodarwinismo e tra i principali evoluzionisti del Novecento, scrisse un saggio intitolato Niente in Biologia ha senso se non alla luce dell’Evoluzione.  È comprensibile che questa affermazione appaia esagerata a chi è meno addentro alle pieghe della teoria evolutiva; e che, di conseguenza, appaia tale anche l’idea che la prospettiva evolutiva possa dare un senso diverso alla biodiversità e alle strategie adottate per la sua tutela. Però è così che stanno le cose. Per esempio, da un punto di vista evolutivo, l’invasione di territorio da parte di specie “alloctone” non è quella grave minaccia per la biodiversità che l’attuale narrazione ecologista ci porta a credere; la nostra percezione è spesso distorta da come ci viene presentata la biodiversità: una “nostra” risorsa. Da questa prospettiva astorica e antropocentrica le specie aliene appaiono come una minaccia per la biodiversità nel momento in cui entrano in competizione con noi nello sfruttamento di quelle specie che abbiamo trasformato in prodotti agricoli e di allevamento.

    Anche il fatto che l’uomo è da sempre il principale responsabile della diffusione accelerata di specie aliene assume un senso particolare alla luce della teoria evolutiva e delle sue implicazioni. Circa un decennio dopo l’uscita del saggio di Dobzhansky, un altro evoluzionista di rilievo, Richard Dawkins, evidenziava la pervasività dei meccanismi evolutivi con la sua “teoria del fenotipo esteso”. Secondo Dawkins, l’evoluzione ha affinato in alcune specie la capacità di utilizzare a proprio vantaggio i comportamenti di altre specie, come se quest’ultime fossero un loro “organo”, ovvero un’estensione del loro “fenotipo”. In quanto vettore rapido e a lunga gittata, l’uomo e i suoi comportamenti sono il perfetto fenotipo esteso per molte specie invasive in cerca di modi efficienti per diffondersi in nuovi territori.

    Invadere nuovi territori fa dunque parte del gioco evolutivo da cui emerge la biodiversità. Questo dovrebbe suggerirci che la biodiversità non andrebbe considerata “in salute” quando in un territorio il numero di specie rimane invariato, o quando non vi sono nuovi competitori. La biodiversità prende vita proprio dalla possibilità che nuove specie sfidino quelle autoctone ricreando nuovi equilibri. Non vi è dubbio che, per colpa dell’uomo, i ritmi ai quali avviene la competizione tra specie autoctone e invasori mette alla prova la capacità di un ecosistema di stabilizzarsi attorno a nuovi equilibri; ma è anche evidente come ciò possa costituire un problema più per la nostra economia agricola che per la biodiversità.

    Questo non toglie certo rilevanza al problema delle specie aliene, ma ci aiuta a mettere a fuoco un altro punto: l’agricoltura e gli allevamenti sono il nostro fenotipo esteso, un’appendice antropica più che una componente naturale; pertanto, e per quanto economicamente importanti, non vanno confusi con il problema della biodiversità, che spesso contribuiscono ad accentuare. Si pensi a quanto sta avvenendo e avverrà nei prossimi decenni nei paesi con vasti territori in zone sub-tropicali (Africa, Brasile, Sudest Asiatico), dove la povertà e la crescita demografica vanno a braccetto e l’unica soluzione nell’immediato sembra essere quella di trasformare le foreste vergini in terreni agricoli.

    Questo scenario da solo dovrebbe bastare a convincerci della necessità di trovare un compromesso tra ciò che sappiamo fare meglio nell’immediato (la prospettiva antropica o geo-ingegneristica) e ciò che invece avrebbe senso fare ma non è nelle nostre corde (la prospettiva evolutiva, o di attenzione ai vincoli naturali). Il problema è che non sembra esserci consapevolezza della necessità di un tale compromesso nelle direttive contenute nei vari documenti strategici redatti ai fini della tutela dell’ambiente e della biodiversità. In questi report l’ambiente è visto come un insieme di “servizi ecosistemici” (ecosystem services), descritti come quelle parti dell’ambiente più essenziali alla nostra esistenza e per questo meritevoli di protezione; come se fosse possibile isolare delle entità naturali dall’interezza della rete ecosistemica.

    Indipendentemente da quanto abbia senso questa concezione riduzionistica (storicamente poco affine alla biologia), basare la tutela della biodiversità sul suo essere per noi una risorsa indispensabile non è la migliore delle strategie. Così come non lo è quella di insistere sul fatto che animali come il lupo o l’orso non sono pericolosi per l’uomo, né di ostacolo alle sue attività. Questo tipo di “messaggio educativo”, al fine di sensibilizzare chi uccide oppure oltraggia gli animali appendendoli ai cartelli dei parchi, è inefficace semplicemente perché è falso. Gli animali selvatici hanno tutto il diritto di essere pericolosi, come quando, seguendo la loro natura, difendono sé stessi, il territorio e la prole.

    L’idea che a una specie debba essere concesso di occupare un territorio perché è “amica” dell’uomo o perché non rappresenta un qualche tipo di insidia non ha alcun senso alla luce dell’evoluzione: questo di certo sarebbe il pensiero di Dobzhansky. Sta a noi ora decidere se tenerne conto oppure no. Se ne teniamo conto, ancora una volta la prospettiva evolutiva ci mette davanti a una sfida più ardua di quella preventivata: la “molla culturale” per tutelare la biodiversità non dovrebbe essere una forma di deterrenza, vale a dire la paura di perdere una risorsa necessaria alla nostra sopravvivenza (per quanto questa sia importante); dovrebbe essere invece il conseguimento di un senso di rispetto per la biodiversità in quanto tale, ovvero per la sua universale unicità e “inutile” bellezza.

    Senza questa trasformazione culturale, fondata più sulla conoscenza del mondo naturale in cui viviamo che sulla nostra conoscenza tecnologica, non vi può essere una reale trasformazione in chiave ecologica della nostra società.  

    Domenico Ridente – Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria (IGAG, CNR) LEGGI TUTTO

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    Cos’è l’agricoltura cellulare, nuova frontiera del cibo sostenibile sulla Terra e nello spazio

    Entro il 2050, l’aumento della domanda globale di cibo del 50%, parallelamente ai cambiamenti climatici, potrebbe causare la riduzione dei raccolti fino al 30%, secondo quanto emerso al recente World Economic Forum. Necessari, quindi, sistemi produttivi alternativi. Una delle risposte possibili, proviene dalle attività del Laboratorio Biotecnologie della Divisione Biotecnologie e agroindustria di Enea, che da anni svolge studi su produzioni vegetali, e che ha sviluppato un “prototipo” di cibo vegetale, con l’obiettivo di offrire alimenti più sani e sostenibili, contrastando gli effetti del climate change sul suolo, di conseguenza sulla salute e qualità delle piante. 

    “La plant cell agriculture è un metodo per la produzione di alimenti a partire da colture cellulari vegetali. Le cellule vegetali, infatti, possono essere prelevate dalle piante, ad esempio dalle foglie di insalata, ed essere moltiplicate in condizioni controllate per ottenere una coltura di cellule che può presentare proprietà benefiche simili o migliorative rispetto alla pianta d’origine” spiega Silvia Massa, ricercatrice del Laboratorio di Biotecnologie dell’Enea. 

    “La nostra dieta, infatti, per essere salutare ha bisogno di alimenti vegetali freschi proprio perché da questi acquisiamo molecole importanti e necessarie alla nostra salute, come antiossidanti o vitamine, che non potremmo acquisire naturalmente in altro modo perché non siamo in grado di produrle da soli”, evidenzia ancora la ricercatrice Enea. LEGGI TUTTO

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    Perché la plastica sia davvero biodegradabile bisogna fare una corretta raccolta differenziata

    La plastica biodegradabile è una grande conquista, ma sebbene come applicazione industriale risalga agli anni ’60 ancora oggi si staglia nell’immaginario popolare come qualcosa di risolutivo e magico. “In realtà si intende che il materiale può essere degradato ad opera di microorganismi o batteri e quindi che si produca una mineralizzazione. In pratica le molecole complesse iniziali diventano semplici e si ottiene alla fine del ciclo CO2 e acqua. Questo è quello che vorremmo per tutti i composti che finiscono nell’ambiente, perché l’impatto diventa quasi nullo”, spiega Monica Passananti, ricercatrice e professoressa associata presso il Dipartimento di chimica dell’Università di Torino.Il problema è che molti pensano che una busta, un piatto o una forchetta in plastica biodegradabile non facciano danni se abbandonati all’aria aperta. Non è così. Prima di tutto a prescindere dai materiali c’è un problema di ordine meccanico: che si tratti di un pezzo intero o frammenti la fauna rischia il soffocamento. Poi c’è il tema del degradamento intermedio: a seconda dei polimeri si potrebbe manifestare tossicità in caso di ingerimento.

    Riciclo

    La sostenibilità dei cosmetici inizia dal packaging

    dalla nostra inviata Fiammetta Cupellaro

    29 Marzo 2024

    Dopodiché è bene chiarire che un oggetto in plastica può essere solo biodegradabile, oppure contemporaneamente biodegradabile e compostabile. Nel primo caso si ha una decomposizione, magari anche in pochi giorni o settimane, grazie all’azione di microrganismi e batteri abbinata ad agenti atmosferici naturali; il risultato è che i microrganismi si nutrono del materiale di cui sono costituite queste plastiche e producono come scarti principalmente anidride carbonica e acqua. Nel secondo caso il processo può essere ancora più veloce e si ottiene del vero e proprio compost, ovvero una sostanza ricca di proprietà nutritive che può agire da concime. A volte il compost può essere “prodotto” direttamente in casa, più comunemente c’è bisogno di un processo industriale. In ogni caso questo tipo di plastica si getta nell’umido.Marco Vesari, presidente del consorzio Biorepack – il primo sistema europeo di responsabilità estesa del produttore (Epr) dedicato agli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile – cita come esempio le bioplastiche certificate EN13432 ( biodegradabil e compostabili) “ideate e sviluppate per rispondere alle esigenze del mondo agroalimentare e come strumento capace di favorire la raccolta dei rifiuti organici”. In pratica quelle che da ormai un decennio si trovano nei supermercati, nei mercati rionali, nei reparti dell’ortofrutta e che sono caratterizzate dalla presenza di un logo specifico. 

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    di Cristina Nadotti

    29 Febbraio 2024

    La biodegradabilità è davvero efficiente solo grazie alla differenziata

    La raccolta differenziata rimane una delle chiavi di tutto poiché la corretta separazione dei materiali garantisce non solo una maggiore purezza di ciascuna raccolta ma anche il massimo dell’efficienza. “Dal punto di vista del trattamento successivo i percorsi di plastiche convenzionali e bioplastiche compostabili sono molto diversi. Le prime sono destinate a impianti di riciclo meccanico o chimico. Le altre sono invece destinate al riciclo organico, insieme al resto dei rifiuti umidi”, ricorda Vesari. “Il ruolo di Biorepack si inserisce proprio in quest’ultimo ambito: all’interno del sistema CONAI, il nostro Consorzio si occupa di erogare ai Comuni e ai soggetti convenzionati le risorse economiche necessarie a coprire i costi di raccolta, trasporto e riciclo delle bioplastiche compostabili. Tali risorse sono garantite dal contributo ambientale obbligatorio pagato dalle imprese della filiera delle bioplastiche consorziate con Biorepack”.L’impegno della filiera è fondamentale perché come sottolinea la professoressa Passananti “ci vogliono delle condizioni specifiche per una biodegradabilità davvero efficiente: batteri, microrganismi, una temperatura superiore ai 50°, un alto livello di umidità, presenza di ossigeno o meno, ecc.. Condizioni controllate insomma, che in un ambiente normale non ci sono. Quindi senza il rispetto di questi parametri i tempi possono allungarsi”. La biodegradazione può avvenire in ambienti molto diversi e una plastica che risulta biodegradabile nel terreno può non esserlo in un altro ambiente. 

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    Inquinamento da microplastiche, perché New York vuole abolire le capsule per il bucato

    di Dario D’Elia

    23 Marzo 2024

    Sempre secondo la ricercatrice vi sono diversi studi che confermano che una delle plastiche biodegradabili più usate, a base di acido polilattico (PLA), in formato di bottiglia può durare in acqua di mare più di un anno senza degradarsi. “Quindi sicuramente rispetto a un polimero classico che vive anche cent’anni, la scala temporale è più bassa, ma la tempistica comunque rimane lunga”. L’arco temporale è importante anche perché vi sono plastiche biodegradabili che derivano da combustibili fossili, come il Polibutirrato (PBAT), e altre da materiali rinnovabili. “L’importante è quindi fare corretta informazione, bisogna rispettare il ciclo della raccolta differenziata. E quindi usare i contenitori per la plastica o per l’organico a seconda dei casi”. E in tal senso secondo Vesari i cittadini stanno rapidamente prendendo confidenza anche con le bioplastiche compostabili, nonostante siano materiali innovativi introdotti in tempi ben più recenti rispetto a molti altri imballaggi.”Ovviamente c’è ancora molto da fare dal punto di vista comunicativo per aumentare tale consapevolezza. Ma i risultati nel trattamento della frazione organica dei rifiuti raggiunti da parte di alcuni territori dimostrano che il binomio bioplastiche compostabili-scarti umidi è la soluzione migliore. Ad esempio la città di Milano riesce ad avviare a riciclo l’87% dei rifiuti organici generato in ambito cittadino. Per fare un confronto: altri Stati, anche di lunga tradizione nella raccolta differenziata come Olanda e Germania, intercettano ancora oggi appena il 16% dello scarto di cucina”, conclude il presidente di Biorepack. 

     

    Microplastiche e nanoplastiche ancora più pericolose?

    Un altro tema oggi di studio da parte della ricercatrice è quello relativo alle micro (da 1 mm a 1 micron) e nano plastiche (sotto il micron) e come interagiscono con l’ambiente circostante. “Soprattutto le nanoplastiche, a seguito del degrado delle plastiche, arrivano a esporre superfici elevatissime. Una busta di plastica può arrivare a coprire circa dieci campi da tennis. Le molecole reagiscono prima alla superficie, se c’è più superficie aumenta la probabilità di un maggior numero di reazioni chimiche soprattutto con processi di ossidazione. Il problema è che le micro e nano plastiche assorbono facilmente altri inquinanti e li possono quindi trasportare in giro”, spiega la ricercatrice.

    Gli studi sono ancora in corso ma il timore è che le nanoplastiche possano perturbare notevolmente gli equilibri degli ambienti. Insomma le piccole molecole generate dalle reazioni potrebbero alimentare batteri e microrganismi, già presenti, alterando le condizioni di equilibrio e generando effetti collaterali sconosciuti. LEGGI TUTTO