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Idrogeno bianco, la nuova corsa ai giacimenti dall’Africa all’Italia

Per il suo ruolo strategico nel processo di transizione verso un’economia a zero emissioni, l’idrogeno viene spesso definito “il combustibile del futuro”. E il motivo è presto detto. L’idrogeno è in grado di immagazzinare e fornire grandi quantità di energia senza produrre emissioni di CO2. Il suo prodotto di scarto è semplicemente acqua.

L’idrogeno può costituire un elemento chiave per la decarbonizzazione di un settore particolarmente inquinante, come quello dei trasporti, responsabile attualmente di circa un quarto delle emissioni totali di gas a effetto serra dell’Ue. Ma può anche diventare un protagonista di primo piano nei settori hard to abate, ovvero quei settori ad alta intensità energetica per cui non esistono opzioni di elettrificazione scalabili, come l’industria dell’acciaio e del cemento

I colori dell’idrogeno

L’Unione europea ha deciso di puntare soprattutto sull’idrogeno verde. Uno degli obiettivi del piano REPowerEU, presentato dalla Commissione nel maggio 2022 dopo l’invasione russa dell’Ucraina con lo scopo di assicurare sicurezza ed indipendenza energetica all’Europa, è infatti quello di produrre internamente 10 milioni di tonnellate di idrogeno verde e importarne altre 10 milioni di tonnellate entro il 2030. Questa tipologia di idrogeno si ricava attraverso l’elettrolisi dell’acqua, ovvero il processo di scomposizione della molecola H2O in ossigeno e idrogeno gassoso. Si tratta di un processo particolarmente energivoro: nel caso dell’idrogeno verde viene impiegata energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili.

La storia

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“L’idrogeno può avere un ruolo molto importante se associato allo sviluppo delle energie rinnovabili”, spiega Chiara Boschi, ricercatrice dell’Istituto di Geoscienze e Georisorse del CNR. “Il surplus di energia prodotta, che non si può immettere nella rete elettrica, può essere utilizzato per la produzione di idrogeno verde. Quest’ultimo, una volta stoccato, può essere impiegato come vettore energetico nei momenti di maggiore domanda. L’idrogeno insomma può controbilanciare il carattere non programmabile di energie rinnovabili come il fotovoltaico e l’eolico”. Il problema principale dell’idrogeno verde al momento è il costo, che secondo Bloomberg NEF si aggira tra 4,50 e 12 dollari per chilogrammo. 

Attualmente a livello globale la tipologia più diffusa di produzione dell’idrogeno è invece quella che sfrutta il processo di steam reforming del metano. Un processo che rilascia CO2, contribuendo ad aggravare gli effetti del riscaldamento globale. Questo è il cosiddetto idrogeno grigio, che costa tra i 0,98 e i 2,93 dollari al kg. C’è poi l’idrogeno blu, più costoso di quello grigio (da 1,80 a 4,70 dollari al kg) ma meno inquinante: la produzione di idrogeno avviene sempre tramite steam reforming del metano, ma viene associata a sistemi di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica (CCS). 

Dove si trova l’idrogeno in natura

In questa classificazione a colori troviamo anche l’idrogeno bianco, che altro non è che l’idrogeno naturale. Pur essendo l’elemento più abbondante dell’universo, sulla superficie del nostro pianeta l’idrogeno si trova in minor proporzione allo stato elementare, ovvero sotto forma di molecola biatomica H2.  È invece comunemente legato ad altri elementi, come l’ossigeno (per formare l’acqua) o il carbonio (per formare gli idrocarburi). 

In realtà, l’idrogeno naturale è presente in determinati contesti geologici. Per esempio, nelle dorsali oceaniche i minerali delle rocce del mantello che affiorano sui fondali, in particolare l’olivina, si alterano a contatto con l’acqua e ossidando il ferro rilasciano idrogeno sotto forma di molecola H2. È quello che si chiama processo di serpentinizzazione. “Inoltre, la Terra produce idrogeno attraverso altre reazioni chimiche legate sempre all’ossidazione di rocce ricche di minerali di ferro, oppure grazie alla radiolisi dell’acqua (la scissione della molecola d’acqua in idrogeno e ossigeno causata dalla radioattività naturale, ndr) e alla maturazione della materia organica, per esempio in depositi di carbone”, prosegue Boschi.

Lo studio

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Se volessimo indicare simbolicamente una data di nascita dell’idrogeno bianco, questa è il 1987: nel villaggio di Bourakebougou, in Mali, durante delle attività di perforazione alla ricerca di acqua, a un centinaio di metri di profondità viene scoperto in maniera del tutto accidentale un giacimento di idrogeno naturale intrappolato nelle rocce del sottosuolo. Ad oggi quello di Bourakebougou è l’unico giacimento di idrogeno nativo sfruttato nel mondo: da poco più di un decennio ne produce circa 5 tonnellate all’anno, con una purezza del 98%, fornendo energia pulita ai villaggi della regione.

Lo scorso anno si è verificata un’altra scoperta fortuita, questa volta in Europa e precisamente nella regione francese della Lorena. I ricercatori del laboratorio GeoRessources dell’Università della Lorena e del CNRS (il Centro Nazionale di Ricerca Scientifica francese) stavano effettuando delle analisi in dei vecchi bacini carboniferi per valutare la possibilità di estrarre metano in loco e scendendo in profondità hanno rilevato percentuali sempre più elevate di idrogeno naturale. La stima degli esperti francesi (ancora da verificare) è che il giacimento lorenese possa contenere fino a 46 milioni di tonnellate di H?, pari a quasi la metà dell’attuale produzione mondiale di idrogeno in un anno. 

Una nuova “corsa all’oro”?

L’interesse per l’idrogeno bianco è in forte crescita. “La vera rivoluzione è che non si tratta di un vettore energetico come gli altri tipi di idrogeno a colori, ma di una risorsa pronta all’uso, una vera e propria fonte energetica a basso costo e a zero emissioni di carbonio”, sottolinea la ricercatrice del CNR. Nel mondo è dunque partita la caccia al tesoro e di conseguenza aumentano i player del settore, attirando investimenti sempre più consistenti.

La startup NH2E è stata la prima ad avviare un progetto pilota per l’esplorazione di idrogeno naturale negli Stati Uniti, più precisamente in Nebraska. Lo scorso luglio la start-up Koloma, con base a Denver, ha annunciato di aver ottenuto un finanziamento di 91 milioni di dollari per la ricerca di possibili giacimenti sempre negli Stati Uniti. Tra gli investitori c’è anche Breakthrough Energy Ventures, il fondo climatico lanciato da Bill Gates.

Tra le altre realtà  attive ci sono le australiane HyTerra e Gold Hydrogen, la britannica Earth Source Hydrogen e Hydroma, società con base a Montreal guidata dall’imprenditore africano Aliou Diallo, che sta sfruttando il già citato giacimento di Bourakebougou. Guardando all’Europa, l’azienda più intraprendente è la spagnola Helios Aragon, che è intenzionata a sviluppare il primo progetto di produzione di idrogeno naturale nel sito di Monzon (in Aragona): le trivellazioni esplorative potrebbero partire già entro la fine di quest’anno.

Tuttavia, i punti interrogativi sono ancora numerosi. A differenza del giacimento scoperto in Mali, in cui l’idrogeno è quasi puro, nella maggior parte dei casi l’idrogeno naturale si trova combinato a una miscela di altri gas. Per estrarlo occorrerebbero quindi appositi sistemi di purificazione, che potrebbero far aumentare i costi e complicare lo sfruttamento industriale di un eventuale giacimento. 

Resta ancora da capire, inoltre, il meccanismo di formazione dei serbatoi di idrogeno naturale e la velocità con cui si rigenerano. O ancora, i ricercatori si stanno chiedendo se sia possibile sfruttare un giacimento a lungo termine e migliorarne artificialmente la produzione. Domande a cui è necessario dare una risposta, se si vuole dare all’idrogeno naturale lo statuto di fonte energetica rinnovabile in grado di supportare la transizione ecologica

Uno sguardo all’Italia: il progetto NHEAT

Anche l’Italia partecipa alla corsa per l’idrogeno. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza riserva complessivamente 3,64 miliardi di euro per promuovere l’industria dell’idrogeno nel nostro Paese. Finanziato con i fondi PRIN-PNRR è il progetto NHEAT (Natural Hydrogen for Energy trAnsiTion), che ha preso il via alla fine del 2023 e vede coinvolti per i prossimi due anni ricercatrici e ricercatori dell’Istituto di Geoscienze e Georisorse e dell’Istituto dei Geologia ambientale e Geoingegneria del CNR, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università La Sapienza di Roma e con la sezione INGV di Palermo.

“In Italia – in particolare nell’area tirrenica – ci sono tutti gli ingredienti per la formazione di idrogeno naturale, soprattutto tramite l’ossidazione di minerali di ferro; ma la ricetta è ancora mancante”, spiega Boschi. Il progetto NHEAT prevede lo studio dell’esplorazione di idrogeno bianco in due aree, in Liguria e nel Lazio, caratterizzate da rocce serpentinitiche e rocce basaltiche molto ricche di minerali di ferro. “Utilizzeremo come “sentinelle” le zone di faglia perché sono aree preferenziali di fuoriuscita di gas e fluidi, al fine di individuare emissioni passate o presenti di H2 che ci riconducano a processi di formazione di idrogeno naturale in profondità. Lo scopo finale del progetto è proprio quello di migliorare la nostra conoscenza su tali processi”. La ricerca di nuovi serbatoi sfruttabili di idrogeno bianco è solo agli inizi, in Italia e nel mondo. Ma c’è da scommettere che ne sentiremo parlare molto nei prossimi anni.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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