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“Così produciamo il riso biologico e facciamo anche a meno della plastica”

“È una falsità affermare che il riso biologico è più buono di quello normale, sotto il punto di vista sensoriale e culinario, poiché la differenza sostanziale è nella quantità di residui chimici dovuti alla lavorazione. Nel bio sono assenti, in quelli convenzionali la legge prevede soglie da rispettare. Lo stesso vale per i relativi terreni”, confida a Green&Blue uno dei produttori leader del settore, Giovanni Vignola di Riso Vignola. “Il mio avo Giovanni Vignola ha fondato l’azienda nel 1880 a Balzola (AL); mio figlio sarà la sesta generazione. Coltiviamo tutte le varietà di riso italiane Arborio, Carnaroli, Originario e tanti altri, che lavoriamo per i nostri marchi e per conto terzi. Oggi la priorità è nella cura della coltivazione e l’innovazione industriale che assicura la qualità biologica”, sottolinea l’imprenditore.

Al netto dei cosiddetti test alla cieca, che in Vignola si fanno costantemente per valutare anche la concorrenza, quel che dovrebbe far riflettere è quanto sia poco noto alla maggioranza dei consumatori il mercato del riso. Così come le implicazioni sulla sostenibilità ambientale e la salubrità del prodotto. “Il 70% della produzione italiana, biologico e convenzionale, viene esportato all’estero. Il riso bio in Italia ha un volume di affari di circa il 2%, contro 7- 8% della Francia e addirittura il 9-10% della Germania. In pratica da noi manca ancora la sensibilità sul tema biologico e certamente non hanno aiutato gli scandali del periodo pre-Covid”, sottolinea Vignola. Il riferimento è al periodo 2018 quando una maxi operazione per la tutela agroalimentare, attuata dai nuclei speciali dei Carabinieri, ha fatto emergere una frode nazionale senza precedenti. Basta un dato: sembrava che vi fossero 30mila ettari di risaie biologiche; oggi sono poco più di 6mila, di cui mille di Vignola.

Risaie mature (Vignola) 

“Biologico” però è un attributo complesso, quasi mistico se osservato dalla finestra di un condominio di città. “La coltivazione biologica si ottiene tramite l’impiego di sostanze naturali, quindi fertilizzanti organici privi di chimica addizionata. E ovviamente lo stesso vale per prevenire l’insorgenza di agenti infestanti, come le malerbe. Noi pratichiamo il bio da oltre 20 anni e nel rispetto della Legge 834 dell’Unione Europea “, assicura Vignola. 

Come si produce un riso biologico

Coltivazione e industria della trasformazione vanno di pari passo e quando si parla di bio vi è bisogno di qualche accortezza in più. Vignola sperimenta con successo da anni la tecnica della pacciamatura verde, un metodo antico che prevede la creazione di un grande erbaio da 80 centimetri di spessore a protezione del terreno dove viene coltivato il riso. In primavera viene “abbattuto”, poi si inonda con l’acqua e dopo una decina di giorni “si semina a spaglio come 50 anni fa”. Secondo l’imprenditore è “un sistema straordinario che dà una biodiversità eccezionale”, una sorta di cappotto vegetale, che stimola e protegge il terreno, anche dalle malerbe. E così si ottiene un prodotto naturale senza contaminanti. Dopodiché quando avviene la raccolta “una derrata biologica va protetta e quindi stoccata in ambiente idoneo”. Il riso è poroso e può assorbire facilmente elementi esterni, ed è qui che un approccio biologico fa nuovamente la differenza

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Giovanni Vignola racconta che pur rimanendo dentro ai confini della legalità si possono trovare residui chimici nel 30-40% dei prodotti convenzionali. Il bio riduce questa soglia a zero. Dopodiché verrebbe da chiedersi dove avviene questa sorta di contaminazione. “La produzione convenzionale italiana è di circa 7 tonnellate di riso per singolo ettaro, mentre quella biologica si ferma a circa 3,5 tonnellate per ettaro. Lo scostamento è dovuto all’impiego di concimazione chimica, i fosfati insomma, e all’uso dei diserbanti“. Il riso una volta raccolto ha bisogno – prima del confezionamento – di essere depurato da eventuali insetti (vivi e morti) e relative uova che spesso si annidano nella lolla che avvolge i chicchi. Per alcune realtà la chimica è un metodo economico e veloce, ma ha il difetto di lasciare residui persistenti nel tempo.

(foto: Riso Vignola) 

Il trattamento naturale per confezionarlo

“Nel 95% dei casi bisogna intervenire e noi abbiamo individuato un metodo efficiente e naturale per tutto il riso, non solo quello bio. È una rinaturalizzazione”, assicura Vignola. “In pratica disponiamo di un sistema di autoclavi dove possono essere posizionati dieci bancali con sopra i big bag (grandi contenitori da 1.000kg l’uno, ndr.) di materiale intrecciato, di fatto traspirante. Una volta chiuso tutto viene iniettato un gas inerte, CO2, e aumentata la pressione a 20 – 22 bar. In questo modo le molecole attraversano ogni strato e quando intercettano una parte molle la estirpano. In circa due ore di trattamento si ottiene un chicco pronto per il confezionamento. Dopodiché basta rimuovere dalla superficie interna dell’autoclave la sostanza organica residuale e ripetere il ciclo con altri sacchi”.

Il primo vantaggio è che l’uso di gas inerte non contamina in alcun modo il chicco e il secondo è che si può sfruttare un confezionamento basato su carta FSC (Forest Stewardship Council, a salvaguardia delle foreste), invece che quello plastico con il sottovuoto. “Per altro il nylon polietilene che vediamo oggi a partire dal 2030 dovrebbe essere bandito dall’Unione Europea perché è quasi impossibile riciclarlo. La soluzione è quindi la carta oppure in prospettiva plastiche alternative ancora oggetto di sviluppo”, dice Vignola.

Nel tempo è stato anche ottimizzato l’impianto e grazie a un sistema di recupero della CO2 l’efficienza è massima: il residuo è solo del 5% di gas ma anche questo viene correttamente depurato e usato per i confezionamenti che richiedono l’atmosfera modificata. “È un ciclo virtuoso, sia che si tratti di riso bio nostro che di riso convenzionale per conto terzi, come le private label di Carrefour, Coop, Unes, Agorà e altri marchi della grande distribuzione”. L’alternativa al sistema di Vignola è un insufflaggio di CO2 molto dispersivo che obbliga a un trattamento di 20 giorni. “È un concetto di scarsa sostenibilità, non solo per l’ambiente ma anche sotto il punto di vista economico”, conclude Vignola. “Davvero, abbiamo una produzione bio autentica. La mia soddisfazione è che siamo oggetto di studio da parte di due Università, Torino e Milano. Il nostro è un laboratorio a cielo aperto”.


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/ambiente/rss2.0.xml


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