11 Maggio 2024

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    Dalla salvaguardia della natura ai progetti europei: i campi di volontariato per l’estate 2024

    Svegliarsi sull’isola di Lampedusa e occuparsi delle tartarughe marine. Osservare, fotografare la schiusa delle uova. Fare snorkeling con un biologo marino nelle acque delle isole Eolie avvistando tonni e pesci spada. Veleggiare su una barca storica scoprendo le isole dell’arcipelago toscano. Sembra una vacanza, ma sono i campi di volontariato aperti ai partecipanti dai 14 anni in su. Occasioni per trascorrere giorni non solo di svago e di contatto con la natura, ma anche per compiere azioni concrete per la natura. Le proposte sono molte, sia in Italia sia all’estero. E che la formula funzioni lo dimostrano i dati: secondo Openpolis i giovani di 18 e 19 anni sono la classe anagrafica più attiva nell’associazionismo per i diritti e la cura dell’ambiente (2,9% del totale). E se gli under 25 sono la fascia di popolazione più coinvolta nell’associazionismo per la pace e per i diritti civili, l’1,6% delle persone con almeno 14 anni nel 2022 hanno partecipato a riunioni di organizzazioni ecologiste o sociali. 

    Quando il lavoro è una vacanza

    Sono comunque 10 anni che la scelta di partire e partecipare ad un campo di volontariato si è consolidata tra i giovani e per molti di loro si tratta della prima esperienza di viaggio in autonomia. Un’ascesa rallentata solo nei due anni segnati dalla pandemia, ma che oggi è tornata a crescere. Alcune proposte sono gratuite, per altre che prevedono vitto e alloggio è richiesto un contributo. In tutti i campi di volontariato si condividono spazi e regole precise. Sono molte, noi ne abbiamo scelte alcune in Italia, tenendo presente che sono concepiti per tutte le età: campi per maggiorenni, quelli invece dedicati ai più giovani dai 14 ai 17 anni, campi misti dai 16 ai 26 anni e campi per famiglie con bambine e bambini a partire dai 4 ai 13 anni, accompagnati da adulti. 

     Legambiente, dall’isola d’Elba a Lampedusa

    Il programma delle attività di Legambiente è molto vasto. Ecco quache iniziativa. Dal 15 giugno e fino al 31 agosto sono previsti i campi di volontariato in barca a vela. Dai 14 anni c’è la possibilità di imbarcarsi come volontario su un’imbarcazione storica per l’isola d’Elba e l’arcipelago toscano. Dal 20 luglio fino al 3 agosto e poi dal 10-24 agosto sono invece attivi i campi di volontariato all’interno del progetto Sasso di Castalda: work&walk, sostenuto dalla Regione Basilicata. I volontari lavoreranno sui sentieri dell’Oasi faunistica del Cervo attraverso attività di pulizia, sistemazione di percorsi e cartellonistica e manutenzione generale (staccionate, tabelle, ecc) al fine di migliorarne la fruizione.  LEGGI TUTTO

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    Annalisa Metta: “Basta retorica del verde: il paesaggio urbano ha bisogno di natura, non di greenwashing”

    Annalisa Metta è architetta, dottoressa di ricerca in Progettazione dei Parchi, Giardini e Assetto del Territorio, professoressa ordinaria in Architettura del Paesaggio presso il Dipartimento di Architettura dell’Università Roma Tre. La sua ricerca, da anni, si rivolge ad approfondimenti teorico-critici ed esperienze applicate, tutti inerenti il progetto paesaggistico, a diverse scale spaziali e temporali, con particolare attenzione allo spazio pubblico. Dal 2018 membro del Consiglio Direttivo di IASLA – Società Scientifica Italiana di Architettura del Paesaggio, Annalisa Metta nel 2022 ha pubblicato per DeriveApprodi Il paesaggio è un mostro. Città selvatiche e nature ibride.

    Selvatico, per lei, è il modo con cui il paesaggio può essere ancora mitico, misterioso, seducente. Porta con sé scoperta, occasione, possibilità, turbamento: “Mi riferisco – spiega – a tutte le forme di vita, umane e non umane, che si svolgono al di fuori della domesticazione e che per questo manifestano comportamenti indipendenti e imprevedibili, in un mondo, quello che abitiamo, in gran parte governato da protocolli che escludono le difformità, le anomalie, gli imprevisti”. L’ossessione umana per la prevedibilità implica spesso la semplificazione dei paesaggi, che invece per Metta sono simili a dei “mostri”.

    Imprendibili, sfuggenti e talvolta ambigui: così sono i nostri paesaggi – sottolinea – e così siamo noi. I paesaggi sono la manifestazione della nostra presenza nel mondo e per questo ci assomigliano: grandezze e fragilità, desideri e inadeguatezze, valori nobili e meschinità, potere, disuguaglianze, amore e violenza. Sono magnifici e allo stesso tempo terribili: doppi, ambivalenti, contraddittori. E poi i mostri sono creature umane e non umane: sirene, sfingi, centauri, angeli, l’uomo-ragno o cat-woman. E cosa sono i paesaggi se non la combinazione di elementi umani e non umani?

    Questa lettura critica riguarda anche la retorica ecologista: “specialmente se sostenuta dal marketing, l’impostazione aritmetica quantitativa riduce il paesaggio urbano al dominio della pura prestazione ecologica e, per quanto possa apparire paradossale, lo allontana dalla natura, che si rimpiange e ci si inganna di venerare. Siamo ossessionati dalla quantità di alberi da piantare nelle nostre città per i benefici che possono portarci. Ma alberi, insetti, rapaci, anfibi, ecc. dovrebbero avere posto in città non perché ci servono, ma perché hanno diritto di vivere, di vivere con noi, non di vivere per noi”. 

    Come sfuggire a questa retorica?

    Cominciando, ad esempio, a smettere di usare la generica parola verde, che è appunto solo uno standard quantitativo, per indicare gli spazi aperti della città.

    Uno dei capitoli del libro Il paesaggio è un mostro si intitola “Il verde è il nuovo beige”, proprio in riferimento a una sorta di beigewashing, in cui si spiega il verde è diventato un colore di sfondo, un “grande classico” che rassicura e concilia: “una salsa, speziata quanto basta, da spalmare in ogni dove. Il rischio è di oggettivare la natura, nella fattispecie la vegetazione, considerandola un talismano per curare le nostre nevrosi, di fatto trascurandone gli aspetti forse meno piacevoli, gli appassimenti, ad esempio, e ignorando che la natura ha molti colori, compreso il marrone, che è il colore delle foglie secche e della terra nuda. Credo che un modo per sfuggire al greenwashing, cioè alla reificazione consensuale della vegetazione, sia ammettere che essa è viva e imperfetta, proprio come noi. Che è verde, ma anche marrone”.

    Presidente di Giuria al concorso “Avventure Creative” dell’edizione 2024 del Festival del Verde e del Paesaggio lo scorso aprile all’Auditorium Parco della Musica di Roma, dedicato al verde in città e al paesaggio urbano, Annalisa Metta ha premiato il progetto vincitore, Garden-in, di Federica Pedone e Maria Minnucci. Il progetto ha come obiettivo la creazione di un’area dedicata alla natura visibilmente fruibile dal finestrino della propria vettura: “L’idea creativa – spiega Metta – non solo ha posto questioni ambientali importanti, immaginando di costruire un paesaggio che nel tempo possa essere abitato da molte forme di vita diverse, ma ha considerato il punto di vista dall’automobile, definendo perciò un paesaggio in movimento, non solo per le trasformazioni cui andrà incontro, ma anche perché potrà interagire con il movimento di chi lo osserva. È così che i nostri paesaggi ci parlano di nuovi desideri e di nuove visioni, di futuro”. LEGGI TUTTO

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    La noce di mare peggio del granchio blu: così minaccia il pescato nella Laguna di Venezia

    Non c’è solo il granchio blu. Anzi, a “sollevare” l’invasore alieno più iconico di tutti dalle sue responsabilità nella concorrenza con la pesca locali è, stando all’ultima ricerca di un team del dipartimento di biologia dell’università di Padova, un’altra specie invasiva. Che qui, nella Laguna di Venezia, è arrivata in tempi non sospetti (le prime osservazioni risalgono al 2010), facendo assai meno rumore. Si tratta di Mnemiopsis leidyi, meglio conosciuta come noce di mare: spesso scambiata per una medusa, è in realtà uno ctenoforo. Gelatinoso e quasi trasparente, lungo pochi centimetri. Originario dell’Atlantico, è arrivato dalle nostre parti attraverso l’acqua di zavorra delle navi: un grande classico, per le specie invasive.

    Biodiversità

    Le specie aliene costano al Pianeta 423 miliardi di dollari all’anno

    di Cristina Nadotti

    04 Settembre 2023

    E invasiva la noce di mare lo è per davvero: l’ultima ricerca di università di Padova e Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale di Trieste, pubblicata sulla rivista internazionale Hydrobiologia, fa luce sulla sua diffusione nella Laguna di Venezia, dove la sua presenza è cresciuta esponenzialmente a partire dal 2014. Favorita, neanche a dirlo, dall’aumento della temperatura delle acque in un ambiente che va registrando forte cambiamento, complice l’intenso traffico navale – generalmente considerato un vettore d’introduzione di specie aliene – e le molteplici attività umane.

    Ma perché la noce di mare ha minacciato e minaccia la pesca costiera? Per due motivi essenziali: per un effetto diretto, attraverso l’intasamento nelle reti dei pescatori, e uno indiretto, essendo la noce di mare una vorace predatrice di plancton e di larve di specie particolarmente ricercate perché ritenute pregiate per la pesca. “Proprio così. – annuisce Filippo Piccardi, dottorando nel programma europeo PON ricerca e innovazione all’Università di Padova, primo autore dello studio – Come le più temibili specie invasive che minacciano i nostri ecosistemi, le noci di mare hanno una riproduzione estremamente efficiente: essendo organismi ermafroditi simultanei (presentando dunque entrambi gli apparati riproduttori, maschile e femminile, ndr), un individuo, con condizioni ambientali favorevoli, può produrre fino a 14 mila uova al giorno. A questo ci si collega la loro dieta generalista, che consente loro di mangiare una grande varietà di prede, dallo zooplancton a uova e larve di pesci e molluschi”. Insomma, la loro competizione nella catena trofica minaccia le specie ittiche autoctone. “E i pescatori veneti si lamentano anche dell’impatto diretto sulla pesca tradizionale, in quanti grandi quantità di questi animali vanno ad intasare e ostruire del tutto le reti impedendo al pesce di entrare”, aggiunge Piccardi. 

    Editoriale

    L’invasione delle specie aliene è colpa nostra

    di Piero Genovesi*

    24 Ottobre 2023

    Il risultato? Un calo del pescato lagunare di quasi il 40%, nel periodo 2014-2019, che lo studio mette in connessione diretta con il boom di diffusione di Mnemiopsis leidyi. “E questo progetto interdisciplinare nasce proprio dalla collaborazione fra i ricercatori della sede di Chioggia dell’Università di Padova e i pescatori lagunari – dice Piccardi – sono stati loro i primi a vedere l’intruso in Laguna e a subirne le conseguenze”. Si tratta di un primo esempio di quantificazione dell’impatto di una specie invasiva sulla piccola pesca lagunare. “E il rischio di queste invasioni biologiche è quello della perdita totale di una tradizione di pesca lagunare quasi millenaria che utilizza attrezzi estremamente sostenibili”, aggiunge il biologo. Il riferimento è soprattutto al cogollo, attrezzo da pesca quasi in disuso, ideale proprio per la pesca in laguna e nelle acque basse costiere: generalmente calato in prossimità della riva, si sostiene per mezzo di un palo di ancoraggio, ben visibile a pelo d’acqua. Nello studio la modellazione statistica ha chiarito come l’esplosione demografica della noce di mare sia coincisa con un aumento significativo della temperatura delle acque lagunari e abbia connessioni con il calo, sempre più evidente, del pescato lagunare.

    Biodiversità

    Granchio blu, parte il primo monitoraggio scientifico della specie aliena in laguna

    di Fiammetta Cupellaro

    17 Agosto 2023

    “Non vi è dubbio, del resto, che specie invasive come noce di mare e granchio blu siano una tragedia ambientale e sociale che va affrontata cercando strategie di mitigazione e adattamento sostenibili, che rispettino cioè anche gli ecosistemi locali. – aggiunge Alberto Barausse dell’Università di Padova, che ha coordinato lo studio – Ecosistemi che, come mostra la ricerca, con la loro capacità di autoregolarsi nel lungo periodo sono la nostra principale protezione contro le specie invasive”. Già, ma basterà? Per quanto riguarda la specie più iconica tra quelle invasive, il granchio blu, il ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste ha riconosciuto nelle scorse settimane “la diffusione eccezionale nei territori dell’Emilia Romagna e del Veneto”. Il focus è proprio “sui danni causati alle produzioni della pesca e dell’acquacoltura e di quelli subiti da strutture aziendali, impianti produttivi e infrastrutture”. Danni per i quali Coldiretti chiede la nomina di un commissario straordinario, con l’avvio di campagne intensive di cattura, con incentivi per i pescatori e un “ripristino” degli habitat lagunari. LEGGI TUTTO

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    La palma super resistente che ha invaso il Nord Italia

    Un frammento di spiaggia al cospetto dei ghiacciai. Con la bella stagione, passeggiando nei boschi sulle Alpi, si potrebbero incontrare diverse palme. Non sono molto alte e formano piccole isole di macchia tropicale all’interno della foresta. Queste piante, in realtà, non sono del tutto fuori luogo. Al contrario: originarie di una vasta area che dalla Cina centrale e dal Giappone raggiunge le pendici dell’Himalaya nel Sudest asiatico, possono resistere a temperature invernali che solo di rado si toccano oggi sulle nostre montagne. La palma di Fortune (Trachycarpus fortunei), così come si chiama questa specie, è stata (ed in parte lo è ancora) un classico dei giardini esotici nei climi più freddi. Nel suo ambiente naturale può crescere oltre di duemila metri di altitudine. In Europa è stata introdotta a fine Ottocento per l’adattabilità al clima dell’Italia settentrionale dove si può coltivare all’aperto, e senza cure incessanti, anche nelle aree alpine.

    Tutorial

    Giardino all’ombra: cosa piantare in aiuole e balconi al fresco

    di Gaetano Zoccali

    12 Agosto 2023

    Fino a dieci anni fa era un fantasma e rimaneva confinata nei giardini domestici ma con l’aumento delle temperature è evasa ed ha iniziato a colonizzare le aree naturali più vicine. Dall’anno scorso in Svizzera, dove è così comune che viene chiamata palma del Ticino, è diventata un’emergenza ecologica mentre in Italia si diffonde, per il momento, a un ritmo meno sostenuto.La palma di Fortune è stata inserita nell’elenco delle specie di Atlas Flora Alpina, un progetto di cooperazione internazionale avviato nel 2022 per documentare l’intera vegetazione alpina a cui collaborano centri di ricerca e istituzioni di Austria, Francia, Germania, Italia, Slovenia e Svizzera. Nell’ultimo censimento, effettuato nel 2004, questa pianta non era ancora registrata.

    Biodiversità

    L’agricoltura intensiva ha trasformato una pianta selvatica in erba infestante

    di Sandro Iannaccone

    22 Dicembre 2022

    “La palma è segnalata ormai in molti boschi termofili, dove ci sono temperature più miti, lungo tutta la fascia meridionale delle Alpi dal Piemonte al Friuli-Venezia-Giulia. – spiega Alessio Bertolli, botanico e vicedirettore della Fondazione Museo civico di Rovereto, partner italiano di Atlas Flora Alpina – La pianta è presente nei giardini da più di un secolo e ha sempre avuto un carattere invasivo ma fino alla prima metà degli anni Duemila non si era naturalizzata grazie alla selezione naturale praticata dagli inverni più rigidi. La recente esplosione di questa specie è con ogni probabilità dovuta a un clima più caldo”.Anche se in Svizzera ci sono esemplari che resistono alla neve e al gelo prolungato rischiando così di sostituire la flora autoctona. “Non siamo ancora in questa fase ma di sicuro la palma di Fortune sta occupando una nicchia ecologica importante nel sottobosco dove crescono spontanee specie importanti come il corniolo o il filadelfo. – prosegue Bertolli – Rispetto a queste piante, la palma non perde le foglie in autunno e prosegue la fotosintesi continuando così a crescere saturando l’ambiente”. Questa avanzata di piante alloctone sempreverdi favorita dall’effetto serra ha un nome preciso: si chiama laurofillizzazione. I danni maggiori li subiscono i boschi di latifoglie decidue come i querceti di roverella e farnia o le comunità di carpino nero e orniello.

    Biodiversità

    Il poligono del Giappone, la pianta infestante che cresce lungo l’Arno

    di Fabio Marzano

    16 Gennaio 2023

    Malgrado la pessima reputazione, nel 2017 diversi esemplari Trachycarpus fortunei sono stati piantati nelle aiuole di piazza Duomo a Milano per un progetto di restyling delle aree verdi. Una scelta originale ma che aveva sollevato più di un dubbio tra gli esperti. In realtà la palma, inserita nella lista nera delle piante invasive sia in Lombardia che in Piemonte, può essere acquistata in vivaio senza tanti problemi. “Spesso la diffusione di queste alloctone parte anche dai lavori di rotazione del giardino. – prosegue il botanico – La palma di Fortune, come il poligono del Giappone e altre di questa categoria, ha capacità riproduttive straordinarie e colonizza tutto lo spazio disponibile fino a quando il proprietario non decide di liberarsene contribuendo, in forma involontaria, alla loro propagazione”.

    21 marzo – Giornata internazionale delle foreste

    L’ailanto, il pino nero e altre storie di alberi “sbagliati”

    di Fabio Marzano

    20 Marzo 2021

    Un caso simile, in cui l’invasione biologica è dovuta a un errore umano, è quello dell’ailanto, un albero infestante e bestia nera per qualsiasi area verde. Nell’Ottocento è stato importato dall’Asia per offrire un’alternativa alle foglie di gelso bianco, attaccate da un’epidemia, per l’alimentazione dei preziosi bachi da seta. Peccato che il succedaneo offerto agli insetti non fosse di loro gradimento. Una volta eliminati gli alberi la specie, che può clonarsi per talea, si è comunque diffusa a un ritmo inarrestabile. LEGGI TUTTO