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    Il valore “nascosto” dell’apicoltura per la biodiversità: le api come sentinelle ecologiche

    Piccole equilibriste e testimoni silenziose dell’equilibrio ambientale. Il lavoro delle api è impercettibile, ma prezioso per la salvaguardia dell’armonia degli ecosistemi naturali e della biodiversità. Di fiore in fiore, svolgono un ruolo strategico per conservare la flora, tanto che circa l’84% delle specie di piante e l’80% della produzione alimentare in Europa dipendono in larga misura dall’impollinazione ad opera delle api ed altri insetti. Ma nel vecchio continente, le api continuano a morire.

    Secondo l’Istituto di apicoltura dell’Università di Berna l’incremento delle morti invernali sta pericolosamente passando da picchi di appena il 10% al 40%. L’urbanizzazione crescente, l’espansione delle monoculture, l’aumento delle malattie e altri fattori di stress ambientale sono le cause più frequenti. Ma non solo. In Italia gli apicoltori segnalano da tempo significativi eventi di moria, particolarmente intensi anche in primavera, a causa dei trattamenti massicci con pesticidi sui terreni agricoli. Il Consorzio Nazionale Apicoltori (Conapi) con il Dipartimento di Scienze e Tecnologie agro-alimentari dell’Università di Bologna monitora dal 2017, all’interno del progetto “Api, Orti e Verde Urbano”, lo stato di salute delle api in Italia e, attraverso queste, l’uso di pesticidi e metalli pesanti sui terreni agricoli. Uno studio che fa delle api delle vere e proprie sentinelle ecologiche.

    Pesticidi

    Se si confrontano i dati degli ultimi sette anni presi in esame colpisce che le api erano tornate in salute solo nel periodo della pandemia. Nel 2020 e nel 2021 la presenza dei contaminanti era infatti calata. Ripresa l’attività antropica, si torna ai livelli precedenti. Nel 2023 i dati mostrano un notevole incremento del numero di residui di pesticidi e della loro tipologia: dal 20,8% di campioni positivi con un solo tipo di pesticida (glifosate) del 2022 al 54,5% con 7 pesticidi diversi.

    Metalli pesanti

    Diminuisce, invece, la presenza dei metalli pesanti: nei sette anni le percentuali con valori inferiori alla soglia di riferimento e quelli che la superavano sono risultate entrambe intorno al 34%. Circa il 31% sono stati i valori intermedi. Nel 2020 è stato rilevato il più basso livello di presenza dei metalli pesanti in tutte le città prese in esame (14% di valori anomali contro il 53% del 2019 e il 46% del 2022). I metalli pesanti maggiormente riscontrati sono stati rame, piombo, cromo, ferro e nichel.

    L’apicoltura

    In questo contesto, l’apicoltura riveste un ruolo importante non solo per la produzione del miele, ma anche per la salvaguardia dell’ecosistema naturale e dell’agricoltura. Sul territorio nazionale la “filiera del miele” conta oltre 72.000 apicoltori che gestiscono circa 1,8 milioni di alveari. L’Italia è custode di un patrimonio di biodiversità che non ha eguali: produce più di 60 varietà di miele, da quelli dop a quelli speciali in barrique o aromatizzati, dal tiglio agli agrumi, dall’eucalipto all’acacia.

    Gli ultimi dati dell’Osservatorio nazionale miele segnalano però un calo della produzione significativo nel 2022, a causa della forte siccità: 23 mila tonnellate, rispetto ai 30 milioni di chili raggiunti nell’ormai lontano 2010. Un’armonia da ricostruire insomma, legata a un filo sottilissimo, dove anche un impercettibile battito d’ali può fare la differenza. LEGGI TUTTO

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    La filiera del vino punta sull’innovazione per una crescita più sostenibile

    Di fronte alle sfide poste dal clima, dal contesto economico e dalle tensioni geopolitiche, l’agricoltura e, nello specifico, il comparto vitivinicolo hanno puntato su innovazione e sostenibilità per preservare la loro competitività e favorire una solida crescita in linea con gli obiettivi della transizione ecologica. Investire in tecnologia e in tecniche di coltivazione e produzione d’avanguardia permette di aumentare la redditività, riduce l’impatto ambientale delle attività e migliora quello sociale. Un impegno che le aziende agricole considerano prioritario, come mostrano i dati del rapporto 2024 di ‘AGRIcoltura100’ realizzato da Reale Mutua e Confagricoltura: negli ultimi due anni, il 69,5% delle imprese hanno effettuato investimenti in tale ottica, con la spinta più forte da parte delle realtà con il maggior livello di sostenibilità. E tra queste figurano le aziende vitivinicole.

    Come evidenzia un altro studio pubblicato da Ismea – “L’innovazione come motore della competitività e della sostenibilità della filiera vitivinicola: l’approccio delle cooperative” – le realtà del vino hanno promosso l’innovazione a più livelli, da quello di prodotto e processo al piano tecnologico, fino all’ambito gestionale e organizzativo. L’indagine fa notare che circa tre aziende vitivinicole su quattro (il 74% dei rispondenti) hanno realizzato investimenti innovativi nel quinquennio 2017-2021, e il 78% delle organizzazioni ha detto di essere pronto a investire in innovazione nei prossimi cinque anni. Decisioni basate anche sulla convinzione che il progresso tecnologico e tecnico è un fattore che favorisce la sostenibilità ambientale, economica e sociale.

    Più nel dettaglio, questo impegno finanziario ha riguardato l’introduzione in azienda di nuove soluzioni agritech e di applicazioni di agricoltura digitale; ancora l’impiego di sensoristica per il monitoraggio e la gestione delle colture, e per l’ottimizzazione degli input; l’utilizzo di sistemi di controllo da remoto o di prossimità con l’uso di droni, robot e altri macchinari per l’automazione; oltre all’adozione di software gestionali amministrativi e di supporto alle attività tecniche e agronomiche. Gli investimenti hanno riguardato anche l’uso di nuove tecniche di lavorazione del suolo, l’irrigazione, la concimazione, la gestione dei reflui aziendali o l’introduzione di nuove varietà, oltre all’attivazione di canali di vendita diretta, fisici e on line. E infine, alcune realtà si sono dedicate anche allo sviluppo di modelli basati su reti di impresa, avviando in azienda piani di ricerca e sviluppo.

    Produzione sostenibile

    Il report di AGRIcoltura100 misura il livello di sostenibilità di un’impresa agricola attraverso un indice che considera 260 variabili raggruppate in quattro aree: sostenibilità ambientale, sostenibilità sociale, gestione del rischio e delle relazioni nel territorio e nella filiera, qualità dello sviluppo. Alla nuova edizione hanno partecipato 3.132 aziende, un panel in crescita rispetto al 2020 quando si contavano 1.850 realtà. Negli ultimi quattro anni è stato registrato un progressivo incremento di sostenibilità da parte delle aziende del settore: più nel dettaglio, le organizzazioni che si caratterizzano per un livello elevato di sostenibilità sono più della metà del totale, e sono aumentare dal 48,8% del 2020 al 55,3% del 2023. Tra queste, quelle di livello più alto sono cresciute dal 16,5% al 20%. Le imprese al livello base sono invece diminuite dal 20% al 12,1%. E come rileva lo studio, la viticoltura figura tra i comparti produttivi che presentano la quota maggiore di imprese ad alto livello di sostenibilità (66%), insieme all’ortivo (68,7%) e alla frutticoltura (61,8%).

    L’innovazione è uno dei fattori che fa da traino alla crescita della sostenibilità tra le aziende agricole. Sono diverse infatti le iniziative messe in campo dalle imprese per ridurre l’impatto sull’ambiente delle proprie attività, tra cui il monitoraggio dei consumi elettrici, la riduzione della plastica e degli imballaggi, l’adozione di tecniche di lavorazione del terreno a basso impatto e di mantenimento del cotico erboso per garantire la biodiversità e ridurre l’erosione; e ancora l’impiego di metodi di fertilizzazione conservativi della sostanza organica, e di macchine agricole e carburanti a bassa emissione. E la maggiore sostenibilità ambientale e sociale si riflette positivamente anche sui conti aziendali: nelle imprese ad alto livello di sostenibilità gli indici di produttività sono del 40% superiori, la redditività è doppia e la quota di aziende che sperimentano una fase di crescita è tripla rispetto a quelle che hanno un livello di sostenibilità base.

    La ricerca di Ismea – presentata nel corso di Vinitaly – fotografa l’innovazione nella filiera vitivinicola, illustrando la tipologia di attività e iniziative realizzate dalle aziende coinvolte nell’indagine. Gli investimenti hanno riguardato soprattutto gli ambiti di prodotto-processo (47% dei rispondenti) e tecnologico (34% dei rispondenti); mentre solo il 18% ha dichiarato di aver investito in innovazioni gestionali e organizzative. Nel dettaglio, a livello di prodotto e processo, le attività hanno riguardato la sperimentazione di nuove tecniche di concimazione e/o protezione delle colture (57%), la lavorazione del suolo (46%), l’irrigazione e la gestione delle risorse idriche (45%), nuove varietà (25%). In ambito tecnologico, e in particolare in riferimento alle soluzioni agritech e alle applicazioni di agricoltura digitale, la componente legata ai farm management system è prevalente (28%), come pure quella relativa ai software gestionali per lo svolgimento di pratiche amministrative/legali (20%); altre tecnologie importanti riguardano l’introduzione di sistemi installati sui mezzi che integrano Gps/Rtk (16%) e la sensoristica/IoT per la gestione delle produzioni vegetali in pieno campo, come ad esempio centraline meteo per la raccolta di dati climatici, sensori in campo per registrare la bagnatura fogliare oppure la presenza di fitopatie (23%), i sistemi di monitoraggio da satellite o remote sensing (5%).

    Tuttavia, ci sono realtà della filiera vitivinicola che non hanno investito in innovazione: tra i fattori che hanno ostacolato questo processo, uno dei principali (45% delle risposte del campione) è la ridotta dimensione dell’azienda (impresa familiare o pmi). Altre criticità riscontrate sono legate alle difficoltà di accesso ai fondi pubblici (locali, nazionali e comunitari), all’eccessiva onerosità dei piani di ammortamento, e ancora ai dubbi riguardo la reale efficacia degli investimenti e all’andamento del settore merceologico di riferimento.

    Sviluppo rurale e tutela ambientale

    La crisi climatica e le tensioni geopolitiche rappresentano una difficile sfida per il settore agricolo, con implicazioni negative in termini di produttività, prezzi, domanda dei consumatori e reddito per gli agricoltori. In particolare, come sottolinea il report “Short-team outlook for Eu agricultural markets” pubblicato a maggio, per quanto riguarda il comparto vitivinicolo, tra il 2023 e il 2024 l’Unione europea registrerà un calo della produzione di vino del 10% (circa 143 milioni di ettolitri, il dato più basso dal 2017-18) su base annua a causa di condizioni meteorologiche avverse. Lo studio sottolinea la “diminuzione significativa” della produzione di vino in Italia (-23%) e Spagna (-21%): un calo che nella Penisola è dovuto alle frequenti piogge nelle regioni dell’Italia centrale e meridionale, e alle conseguenti malattie fungine delle viti. Per la Spagna, invece, le cause del trend negativo devono essere rintracciate in eventi climatici, in particolare siccità e alte temperature nella regione produttiva di Castilla-La Mancha.

    L’importanza della filiera del vino non risiede solo nel suo valore economico, ma anche negli effetti positivi sull’ambiente e nel territorio in cui opera. Dal punto di vista finanziario, in Italia il settore vanta una produzione annua di 45,2 miliardi di euro (tra impatto diretto, indiretto e indotto), 303.000 occupati e un valore aggiunto di 17,4 miliardi di euro, sottolinea uno studio dell’Osservatorio Uiv-Vinitaly: il comparto vale l’1,1% del Pil nazionale. Inoltre, l’industria del vino in Europa favorisce lo sviluppo delle aree rurali: le regioni vinicole subiscono meno declino demografico e le vigne si dimostrano essere il 37% più produttive rispetto ad altre colture permanenti, secondo uno studio realizzato da PwC e pubblicato a marzo 2024 per l’European Committee of Wine Companies (Comité Vins – Ceev). Dal punto di vista ambientale, infine, il rapporto sottolinea che gli oltre 3,2 milioni di ettari di vigneti dell’Unione europea contribuiscono a promuovere la sostenibilità nel continente, favorendo la biodiversità, la conservazione del suolo, la gestione dell’acqua e la protezione antincendio. LEGGI TUTTO

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    Mobilità sostenibile, dalle auto agli aerei il futuro resta incerto

    L’obiettivo del Green Deal è fare dell’Europa il primo continente climaticamente neutro al 2050. Declinato nel settore dei trasporti, questo significa che le emissioni nette di gas serra (GHG) prodotte da aerei, navi, veicoli pesanti e auto dovrebbero diminuire del 90% entro i prossimi 26 anni. Il problema è che questo obiettivo, secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, al momento resta un miraggio: perché i trasporti sono l’unico grande settore economico dell’Ue in cui le emissioni sono aumentate negli ultimi 30 anni.

    I dati dell’Agenzia, pubblicati lo scorso ottobre nel rapporto “Greenhouse gas emissions from transport in Europe”, fotografano l’ultimo miglio della curva ascendente: dopo sei anni di crescita costante delle emissioni nei trasporti, si legge nel documento, c’è stato un calo nel 2020 in Europa causa pandemia, poi le emissioni sono riprese a crescere dell’8,6% nel 2021 e del 2,7% nel 2022. E sicuramente continueranno a farlo fino al 2024. Le previsioni dell’Agenzia avvertono che di questo passo, senza misure aggiuntive a livello europeo, le emissioni nei trasporti raggiungeranno al 2030 la quota del 2007, con un balzo del 32% rispetto ai livelli del 1990. Solo due anni dopo, cioè nel 2032, inizieranno a scendere.

    In questo scenario, è vero che i trasporti sono diventati più efficienti. La maggior parte delle automobili, dei camion, delle navi e degli aerei emette una minore quantità di biossido di carbonio per chilometro rispetto a prima. Tuttavia, secondo l’Agenzia, tutti questi progressi non sono stati sufficienti a compensare l’aumento del volume dei trasporti merci e passeggeri. Trasporti che, ad oggi, sono responsabili complessivamente di circa un quarto delle emissioni totali di gas a effetto serra dell’Ue. Di queste emissioni, quasi tre quarti derivano dal trasporto su strada e più della metà proviene dalle automobili.

    Sui veicoli pesanti, responsabili del 25% delle emissioni prodotte dal trasporto stradale in Europa, un passo in avanti è stato fatto di recente con l’approvazione da parte del Consiglio europeo di un nuovo regolamento che introduce misure più stringenti per il settore: riduzione del 45% delle emissioni di CO2 a partire dal 2030 (in aumento rispetto al 30% previsto dalle norme attuali); del 65% a partire dal 2035; e del 90% a partire dal 2040. Tutti target che si applicheranno agli autocarri medi, a quelli pesanti di peso superiore a 7,5 tonnellate e agli autobus interurbani. Per gli autobus urbani, invece, le nuove norme introducono un obiettivo di emissioni zero entro il 2035, con un target intermedio del 90% entro il 2030. Peccato che l’Italia abbia votato contro il via libera definitivo al nuovo regolamento, unendosi a Polonia e Slovacchia, mentre la Repubblica Ceca si è astenuta.

    Sulle auto invece la sfida green sembra più complicata, anche a livello legislativo. A farlo capire è la Corte dei conti europea che ha analizzato in un’indagine le emissioni di CO2 prodotte nei 27 Paesi membri, evidenziando che “gli obiettivi” comunitari sulle “emissioni per le autovetture nuove non saranno raggiungibili finché mancheranno prerequisiti importanti”. La premessa dei revisori dei conti Ue è che le emissioni reali prodotte dalle auto tradizionali, che costituiscono ancora quasi tre quarti delle immatricolazioni di veicoli nuovi, “non sono diminuite”. Anzi: negli ultimi dieci anni, le emissioni dei veicoli diesel sono rimaste costanti, mentre quelle delle vetture a benzina sono calate in modo marginale (-4,6 %). Il progresso tecnologico in termini di efficienza del motore è stato poi controbilanciato dall’aumento della massa dei veicoli (in media circa +10 %) e della potenza dei motori (in media +25%). E per le auto ibride le emissioni reali di CO2 tendono a essere molto superiori a quelle registrate in laboratorio. Per “cambiare marcia”, la soluzione sarebbe quella di incentivare l’uso dei veicoli elettrici, i soli che possano “aiutare l’Ue ad avvicinarsi a un parco auto a zero emissioni” entro il 2035. Ma gli ostacoli, avverte la Corte, restano molti e di difficile risoluzione. Tra i principali “l’accesso alle materie prime per produrre un numero sufficiente di batterie”, “l’inadeguatezza delle infrastrutture di ricarica” e “i costi iniziali più elevati delle auto elettriche”.

    Rispetto all’industria automotive, il futuro sembra ancora più incerto per i trasporti aerei e marittimi. Qui, ravvisa l’Agenzia, i progressi tecnologici sono più lenti e più costosi. Con il risultato che le emissioni cresceranno invece di diminuire nei prossini anni. Per due motivi: nel primo caso, dopo lo shock pandemico, l’attività del traffico aereo, che pesa oggi circa il 13% sulle emissioni totali dei trasporti, è aumentata del 24% nel 2021, del 48% nel 2022 e tutto lascia presagire che raggiungerà i livelli del 2019 entro il 2025, forse già alla fine del 2024. Nel secondo caso, il traffico marittimo già oggi movimenta il 90% delle merci in volume e il 70% delle merci in valore a livello globale. Il problema è che la svolta “sostenibile” della flotta mondiale richiede tempi più lunghi rispetto ai diktat europei. Con l’aggravante che questa svolta è appena iniziata: solo l’1% delle navi utilizza combustibili diversi dal petrolio e derivati. LEGGI TUTTO

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    La moda si riscopre lenta

    In Francia l’Assemblea nazionale ha di recente approvato una proposta di legge che intende ridurre l’impatto ambientale del fast fashion, imponendo un sovrapprezzo ai marchi che venderanno nel Paese i loro capi. La scelta non sorprende, se si considera che l’industria della moda è seconda solo al settore petrolchimico per impatto ambientale ed è responsabile dell’8% delle emissioni globali di CO2. Inoltre, consuma e inquina più del 20% dell’acqua per usi industriali (solo l’agricoltura fa peggio). Il 70% dei tessuti è composto da derivati del petrolio e solo l’1% di questi viene riciclato.

    In questo contesto, spicca il ruolo in negativo giocato dal fast fashion, la moda usa e getta basata sull’offerta di collezioni che si rinnovano a forte velocità, che ha alimentato negli ultimi anni un ciclo incessante di produzione e consumo, portando all’uso smodato di materie prime e al forte incremento nella produzione di rifiuti. A questo proposito, un’indagine di Greenpeace rivela che ogni anno soltanto nell’Unione europea vengono gettate via 5 milioni di tonnellate di vestiti e calzature (circa 12 chili per persona) e l’80% di questi finisce in inceneritori, discariche o nel sud del mondo. Inoltre, il 25% dei capi di abbigliamento prodotti in tutto il mondo rimane invenduto e meno dell’1% dei vecchi abiti viene usato per produrre nuovi vestiti.

    Questo spiega il farsi strada dello slow fashion, o moda lenta, un movimento che incoraggia l’acquisto di vestiti non destinati a morire nel giro di una stagione, ma che possono essere indossati più a lungo, prodotti attraverso processi sostenibili. La stessa industria ha iniziato a interrogarsi negli ultimi anni su come introdurre politiche green, investendo nella ricerca su materiali, lavorazioni, smaltimento dei rifiuti, riciclo e riuso. Sono diverse le aziende, soprattutto tra i grandi gruppi, che hanno sposato la filosofia della moda lenta, riducendo il numero di collezioni annuali; promuovendo il riciclo di materiali e limitando il consumo di risorse; optando per tessuti naturali e certificati e puntando su una produzione etica che rispetta i diritti umani.

    La strada da percorrere per rendere il settore moda realmente sostenibile è però ancora lunga e occorre fare di più, anche per arginare il rischio di greenwashing (una strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività). Un ruolo importante è rivestito dalla normativa messa in campo a livello europeo che intende favorire una reale sostenibilità nel settore e tutelare i consumatori dalla pubblicità green ingannevole.

    La “Eu strategy for sustainable and circular textiles”, lanciata nel marzo 2022, mira a rendere i prodotti tessili più durevoli, riparabili, riutilizzabili e riciclabili. Nell’ambito della strategia, di recente il Parlamento europeo ha dato il via libera definitivo al testo del Regolamento Ecodesign (Espr) che impone la progettazione ecocompatibile dei prodotti sul mercato europeo e il divieto di distruzione dell’invenduto. Sempre il parlamento europeo ha da poco dato il via libera al Supply Chain Act che prevede, a partire dal 2027, per tutte le aziende europee (con più di 1000 dipendenti e un fatturato superiore ai 450 milioni di euro) l’obbligo di prevenire e far cessare, laddove presenti, eventuali impatti negativi della propria catena di approvvigionamento sui diritti umani e sull’ambiente. Tra le norme già in vigore spiccano la Corporate sustainability reporting directive, che obbliga le aziende quotate a rendere conto del proprio impatto ambientale attraverso la pubblicazione di report di sostenibilità, e il Regolamento sulla deforestazione (Eudr) che impone alle imprese una rigorosa due diligence per verificare che le materie prime impiegate non provengano da attività di deforestazione. LEGGI TUTTO

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    La rigenerazione urbana è una questione di sostenibilità

    Meno emissioni inquinanti nell’ambiente, inclusione sociale e migliore vivibilità dei quartieri. La rigenerazione urbana ha impatti positivi sulla sostenibilità a vasto raggio e questo facilita la ricerca di fondi pubblici in grado di innescare un circolo virtuoso di energie sul territorio.

    Tema centrale per il Pnrr

    La capacità di impattare a vasto spettro sui bisogni della comunità ha reso la rigenerazione urbana uno dei temi centrali del Pnrr, tanto da prevedere 3,4 miliardi di euro per progetti di questo tipo, entro il 2026. In particolare, i fondi pubblici si concentrano sul sostegno ai Comuni che attraverso il rifacimento di piazze e quartieri portano avanti piani in grado di ridurre le situazioni di emarginazione e degrado sociale nonché di migliorare la qualità del decoro urbano, oltre che del contesto sociale e ambientale.

    Gli investimenti finanziabili riguardano diverse tipologie di azione, come: manutenzione per il riutilizzo e la rifunzionalizzazione di aree pubbliche e strutture edilizie pubbliche esistenti a fini di pubblico interesse, compresa la demolizione di opere abusive eseguite da privati in assenza o totale difformità dal permesso di costruzione e la sistemazione delle aree di pertinenza; miglioramento della qualità del decoro urbano e del tessuto sociale e ambientale, anche attraverso la ristrutturazione edilizia di edifici pubblici, con particolare riferimento allo sviluppo di servizi sociali e culturali, educativi e didattici, o alla promozione di attività culturali e sportive; infine interventi per la mobilità sostenibile.

    Per l’archistar Renzo Piano, più che grandi opere infrastrutturali, che pure sono necessarie, la priorità per le città italiane oggi è integrare le periferie dismesse nei contesti urbani, portando la bellezza nelle aree degradate per frenare i fenomeni di marginalizzazione sociale generati da crescenti disparità di reddito e di accesso alle opportunità di crescita e di carriera.

    La sfida è smettere di consumare suolo

    Secondo il primo Rapporto nazionale sulla rigenerazione urbana, curato da Scenari Immobiliari con Urban Up Unipol, nell’ultimo decennio in Italia sono stati rigenerati 312 kmq, con un valore aggiunto di circa 160 miliardi di euro. Circoscrivendo l’analisi a Milano e Roma, in questo arco di tempo hanno ricevuto un valore aggiunto di circa 25 miliardi di euro.

    Ma i principali effetti sono di là da venire, grazie alla crescente sensibilità delle istituzioni e dell’opinione pubblica verso il tema e all’evoluzione della tecnologia. Gli analisti stimano che da qui a metà secolo la rigenerazione urbana riguarderà 920 Kmq di superficie rigenerabile in Italia, sviluppando 2.300 miliardi di fatturato e creando 100 mila posti di lavoro, indotto comprese.

    La vera sfida, spiegano gli autori dello studio, è stoppare il consumo di suolo e ottimizzare il verde esistente in modo da una parte di ridurre le emissioni, dall’altro di creare intorno agli spazi naturali piazze nelle quali le comunità tornano protagoniste, contribuendo a superare le marginalità. Con benefici a vasto spettro, dal contrasto all’inquinamento alla riduzione della criminalità. LEGGI TUTTO

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    Accelera la copertura delle colonnine per la ricarica

    Passi in avanti importanti sul fronte delle infrastrutture per la mobilità elettrica. Secondo quanto rilevato dall’associazione Motus-E, il primo trimestre si è chiuso con 54.164 punti di ricarica nella Penisola, in progresso del 31,5% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, mentre nell’arco di due anni il numero dei punti di ricarica è praticamente raddoppiato, da 27.857 a 54.164 unità. Intanto il parco di veicoli circolanti ha toccato quota 226.799. Quanto alle autostrade, i punti di ricarica sono arrivati a 942 unità, dalle 559 di marzo 2023 e le 150 di due anni prima. Nell’85% dei casi, le infrastrutture sono del tipo veloce (in corrente continua, cioè dai 50 kW in su) e il 61% supera addirittura i 150 kW di potenza.

    Netta prevalenza per la corrente alternata

    Quanto alle potenze, l’83% delle colonnine funziona in corrente alternata (fino a 49 kW, quindi ideali per la ricarica durante le ore notturne), mentre il restante 17% è in corrente continua. In merito alla distribuzione geografica, circa il 58% delle infrastrutture si trova nel Nord Italia, il 19% nel Centro e il 22% nel Sud e nelle Isole. Guardando alle singole regioni, al primo posto c’è la Lombardia (10.158 colonnine), davanti al Piemonte (5.841) e al Veneto (5.167). Mentre tra le città guida Roma (4.006), seguita da Milano (3.246) e Napoli (2.679 punti).

    Secondo il presidente di Motus-E, Fabio Pressi, a fronte di un’infrastruttura così ampia, sostenuta finora quasi esclusivamente da investimenti privati, “la progressiva crescita del circolante elettrico avrà un ruolo chiave anche per preservare e ampliare il vantaggio economico della ricarica elettrica rispetto alle alimentazioni tradizionali, maggiormente esposte alle tensioni geopolitiche internazionali”. Inoltre ricorda che la presenza delle colonnine è destinata a crescere ulteriormente dopo la recente entrata in vigore del regolamento europeo Afir, che fissa una serie di target “per accelerare ulteriormente la creazione nel Vecchio Continente di un network per la ricarica a uso pubblico sempre più denso e moderno”. Quanto all’Italia, invece, si attendono i nuovi bandi per l’assegnazione delle risorse destinate dal Pnrr alla installazione di nuove colonnine.

    Obiettivi di sostenibilità ancora lontani

    Non fermarsi nella copertura del territorio è la parola d’ordine per l’Italia e non solo. Secondo uno studio dell’Acea (Associazione europea dei produttori di automobili), tra il 2017 e il 2023 le vendite di auto elettriche nell’Ue sono cresciute tre volte più velocemente rispetto all’installazione di punti di ricarica. Guardando in prospettiva, l’Ue avrà bisogno di ampliare la dotazione infrastrutturale di otto volte entro la fine di questo decennio per raggiungere gli obiettivi che la stessa si è data in termini di emissioni di CO2.

    “Il gap infrastrutturale” rischia di ampliarsi in futuro, in misura molto maggiore di quanto stimato dalla Commissione europea”, è l’allarme lanciato dal direttore generale di Acea, Sigrid de Vries. Lo scorso anno in tutta l’Ue sono stati installati poco più di 150 mila punti di ricarica pubblici, portando il totale a poco meno di 630 mila. “Un facile accesso ai punti di ricarica pubblici è una condizione essenziale per decarbonizzare il trasporto stradale”, ha aggiunto l’esperto. LEGGI TUTTO

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    Road to Green&Blue Festival 2024: in onda il documentario “I sentieri della sostenibilità”

    Un viaggio in quattro tappe, da Roma a Milano passando per Firenze e Bologna, per rispondere alle grandi curiosità e ai grandi interrogativi che stanno accompagnando la rivoluzione sostenibile. Un documentario per raccontare storie e tendenze che ambiscono a scrivere e a reinventare il futuro della sostenibilità italiana, dall’agroalimentare alla mobilità, dalla moda all’architettura. Non solo quattro grandi città da visitare, ma anche territori da esplorare alla ricerca di visioni, esperienze e progetti animati dalle due grandi forze di cambiamento dei nostri tempi: l’ambiente e l’innovazione. LEGGI TUTTO