9 Maggio 2024

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    Mediterraneo, l’inverno più caldo degli ultimi 40 anni: nel Golfo di Napoli un grado in più

    Il Mar Mediterraneo è sempre più caldo. Nell’inverno appena trascorso la temperatura media del golfo di Napoli ha registrato per la prima volta un aumento di circa 1° C rispetto alla media degli ultimi 7 anni, toccando i 15,5°C. Le temperature in crescita sono confermate anche in superficie in quasi tutti i mari italiani e, in particolare, nell’Adriatico, con valori superiori al grado rispetto alla media 2020-2022. Questi dati sono stati rilevati nell’ambito del progetto MedFever – che riunisce ENEA, associazione MedSharks, l’azienda Lush, Università Sapienza di Roma, OGS, Guardia Costiera e un gruppo di subacquei volontari – e confermati dal sistema previsionale ENEA MITO sulla circolazione marina del Mediterraneo.Per controllare la temperatura del Tirreno e monitorare l’impatto del cambiamento climatico sull’ecosistema marino e sui processi di dinamica costiera, i ricercatori di MedFever, insieme a un team di subacquei-sentinelle, hanno creato una vera e propria rete di un centinaio di sensori-termometro posizionati fino a 50 metri di profondità, sia a largo che sotto costa, in 15 punti di osservazione nel Tirreno: Isola del Giglio (Toscana), Nettuno (Lazio), Capri, Palinuro e Vico Equense (Campania), Reggio Calabria e Scilla (Calabria); Capo Peloro e Porticello (Sicilia), Capo Figari, Mortoriotto e Santa Teresa di Gallura (Sardegna). A questi punti di osservazione, si sono recentemente aggiunte anche tre stazioni coordinate dai nuclei subacquei della Guardia Costiera, al largo di Portofino (Liguria), lungo la Costiera Amalfitana (Campania) e nel Golfo di Cagliari.

    Crisi climatica

    Mediterraneo sempre più caldo: aumento record delle temperature fino a 4 gradi

    di redazione Green&Blue

    11 Gennaio 2024

    “Le osservazioni MedFever sono estremamente importanti poiché ‘guardano’ non solo la superficie del mare ma anche ciò che accade sul fondo delle aree costiere”, sottolinea Eleonora de Sabata, di MedSharks e coordinatrice del progetto. “In questo contesto che potremmo definire emergenziale, – aggiunge – il supporto dei diving center è fondamentale sia per la gestione della rete di misure, senza le quali il progetto non potrebbe proseguire, ma soprattutto per l’osservazione quotidiana dello stato di salute dell’ecosistema marino. Il contributo di ogni individuo, dalla comunità scientifica ai cittadini appassionati di mare, è fondamentale per monitorare e proteggere le nostre preziose risorse acquatiche”.

    La rete di sensori di rilevazione della temperatura di MedFever è stata calibrata presso il Centro Ricerche ENEA di Santa Teresa (La Spezia). Inoltre, ENEA ha messo in campo anche il modello di circolazione del Mediterraneo MITO, sviluppato e gestito dal Laboratorio di Modellistica climatica e impatti, in grado di fornire previsioni su temperatura, salinità e velocità delle correnti marine con un dettaglio spaziale fino a poche centinaia di metri. 

    Nello specifico, il trend risulta anche peggiore: negli ultimi quarant’anni le temperature medie dei fondali del Golfo di Napoli sono aumentate di circa 1,5° (da 14 a 15,5° C), se all’aumento di un grado registrato da MedFever si abbina il confronto con i dati storici della Stazione Zoologica Anton Dohrn. Anche in questo caso il dato è confermato da MITO sia per quanto riguarda la superficie che per la rapidità con la quale il calore si trasferisce ai fondali, specialmente nelle aree costiere. Il raffronto con i dati del sistema previsionale ENEA, infatti, ha consentito di rilevare che soprattutto nei mesi invernali, a causa dei venti che soffiano sulla superficie marina, si innescano processi di mescolamento verticali che riscaldano tutta la colonna d’acqua sottostante, con conseguente aumento dei rischi per gli ecosistemi. In particolare, il sistema MITO rileva a 100 metri di profondità nel golfo di Napoli anomalie di circa + 0,5 °C, in accordo con i dati dei sensori di MedFever, e punte di circa + 1 °C nel Tirreno, nel canale di Sicilia e nello Ionio centrale. 

    “Questi dati confermano l’allarme sulle temperature dell’aria e del mare lanciato ieri dal Servizio UE Copernicus, che ha rilevato che, dopo febbraio e marzo 2024, anche aprile è stato globalmente il mese più caldo mai registrato al mondo”, sottolinea Ernesto Napolitano del Laboratorio ENEA di Modellistica climatica. “Sulla stessa scia anche la temperatura superficiale marina media globale che ad aprile è stata di 21,04°C, valore più alto mai registrato per questo mese, di poco sotto i 21,07°C registrati a marzo 2024, la più alta di qualsiasi mese nella storia dei dati, anche superiore a quella di agosto 2023 (20,98°C). Aprile è stato anche il 13esimo mese di seguito in cui la temperatura globale della superficie del mare è stata la più alta mai registrata in quel mese. Questi cambiamenti non sono solo numeri ma segnalano che ci troviamo agli inizi di un processo più ampio e che tali fenomeni accadranno in modo sempre più frequente”, conclude Napolitano. LEGGI TUTTO

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    Ora la scienza ci dice quanto fa bene al mondo l’agroecologia

    Fa bene al pianeta, perché punta su sistemi di coltivazione e allevamento diversificati. Evitando l’utilizzo di fertilizzanti, pesticidi e antibiotici. E fa bene all’uomo, in termini di sicurezza alimentare e apporti nutrizionali. Ma ora, a quanto pare, l’ultimo semaforo verde per l’agroecologia arriva dai suoi impatti benefici su larga scala dal punto di vista sociale ed economico. Come a dire: coltivare così non costa di più, in termini di prospettiva.

    La normativa

    “Lo stop alle rinnovabili sulle aree agricole serve per le elezioni, non all’agricoltura”

    di Fiammetta Cupellaro

    08 Maggio 2024

    Per la prima volta, uno studio ha passato in rassegna i processi di implementazione di pratiche agroecologiche in tutto il mondo, partendo da 13 mila articoli, pubblicati tra il 2000 e il 2022, nei quali sono stati analizzati parametri differenziati come il reddito, il lavoro e i costi di produzione. Il risultato? “I dati dimostrano con chiarezza la fattibilità dell’agroecologia da una prospettiva sociale ed economica, nel 51% dei casi abbiamo individuato risultati favorevoli in termini di reddito, produttività ed efficienza”, spiegano gli autori della ricerca, un team della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e dell’ISARA (Institut supérieur d’agriculture Rhône-Alpes) di Lione, con il sostegno e al Centro di conoscenza per la sicurezza alimentare e la nutrizione globale del Centro comune di ricerca della Commissione europea (JRC). Lo studio – pubblicato su Agronomy for Sustainable Development (qui il .pdf) –  sottolinea dunque gli effetti tendenzialmente positivi su reddito, ricavi, produttività ed efficienza.

    Le idee

    Cosa vuol dire una filiera del cibo sana

    di Francesco Sottile*

    16 Ottobre 2023

    “Proprio così. – annuisce Paolo Bàrberi, co-autore della pubblicazione, docente di Agronomia e coordinatore del gruppo di ricerca di Agroecologia alla Scuola Superiore Sant’Anna – Il nostro lavoro ha dimostrato che, già a livello di pratiche agricole, l’agroecologia è spesso più conveniente dell’agricoltura convenzionale per una serie di parametri socio-economici.  E se allarghiamo il campo all’intera filiera agro-alimentare, la convenienza appare ancora più evidente. Infatti – prosegue – i sistemi agroecologici sono spesso caratterizzati da filiere corte o cortissime, in cui il produttore trattiene in tasca, per così dire, gran parte del valore aggiunto non “regalandolo” agli intermediari o al distributore finale”.Ma lo studio non nega l’incertezza legata alle sfide aperte per requisiti e per costi della manodopera, che “richiedono politiche appropriate per sostenere gli sforzi agroecologici”, sottolinea Ioanna Mouratiadou, ricercatrice dell’ISARA e autrice principale dello studio. Anche perché i risultati sociali ed economici dipendono in larga misura da fattori quali l’ambiente geografico, la scala temporale della transizione o le condizioni agricole.

    Consumi

    Cosa dice l’etichetta della carne su benessere animale e sostenibilità

    di Cristina Nadotti

    18 Aprile 2024

    La ricerca evidenza, peraltro, come i risultati più significativi siano stati ottenuti nel Sud del mondo, in sistemi che utilizzano l’agroforestazione, la combinazione tra alberi, colture annuali e allevamento, o la consociazione, la coltivazione contemporanea di due o più colture sullo stesso terreno. O ancora l’assenza o la riduzione della lavorazione del terreno come pratiche agroecologiche.”In più – annota Bàrberi – molti produttori agroecologici trasformano il prodotto o nelle loro aziende o sfruttando strutture co-gestite con altri agricoltori, ottimizzando i costi e creando valore aggiunto. Tutto questo permette loro sia di restare più facilmente sul mercato che di rappresentare un volano di crescita economica per un intero territorio”.Ai decisori politici vengono dunque consegnati dati nuovi che colmano l’assenza di prove scientifiche consolidate sull’argomento e parrebbero incoraggiare la cosiddetta transizione agroecologica. Una transizione che i ricercatori definiscono “necessaria con urgenza per realizzare sistemi agricoli e alimentari veramente sostenibili, dalla scala locale a quella globale”.

    Intervista

    “L’agroecologia ci aiuterà a tagliare le emissioni”

    di Pasquale Raicaldo

    01 Dicembre 2023

    “I nostri sono risultati che dimostrano come le proteste degli agricoltori, in corso in tutta Europa, pur esprimendo un disagio reale, siano dirette verso l’obiettivo sbagliato. – segnala Bàrberi – La transizione agroecologica, sostenuta dal ‘Green Deal’dell’Unione Europea, può in effetti migliorare il reddito degli agricoltori. Questi ultimi e i loro sindacati dovrebbero quindi abbracciare questa transizione senza timori, sapendo che porterà benefici per loro, per l’ambiente e per la società in generale”. Bàrberi è tra i massimi esperti in Italia di agroecologia: il suo approccio si distingue per la ricerca partecipativa. “Scendiamo in campo con gli agricoltori, dialoghiamo con loro, comprendiamo esigenze e difficoltà e individuiamo soluzioni ad hoc per ciascuna realtà, lontani dalle logiche della standardizzazione agricola, che come sappiamo ha generato importanti criticità”. LEGGI TUTTO

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    Alghe marine al posto della plastica: gli imballaggi green di una startup californiana

    Saranno le alghe del mare a far sparire per sempre la plastica dall’invasione sulla terra? A esserne convinti sono gli scienziati che hanno lavorato alla bio resina TPSea, una tecnologia all’avanguardia sviluppata da Sway, startup californiana nata nel 2020 che ha dedicato i primi anni di vita alla ricerca e sviluppo di questo materiale super innovativo. Si tratta di una resina termoplastica a base di alghe marine, ovvero un ingrediente 100% vegetale, compostabile in casa e privo di microplastiche, ricavato da una coltura oceanica rigenerativa in grado di ricostituire gli ecosistemi e sostenere le comunità costiere.Gli imballaggi sono la prima causa di rifiuti in plastica monouso al mondo, di cui gli involucri alimentari rappresentano da soli il 30%. “Oceani puliti, biodiversità abbondante ed economie costiere fiorenti si intrecciano con il successo di Sway mentre acceleriamo la produzione dei nostri prodotti nel 2024 – ha commentato Julia Marsh, CEO e cofondatrice di Sway – . Crediamo che i materiali di uso quotidiano debbano contribuire a rifornire il Pianeta, dal mare al suolo. Il lancio dei nostri materiali termoplastici a base di alghe rappresenta un progresso tangibile verso un futuro più circolare”.

    Rifiuti

    Via libera al nuovo regolamento per gli imballaggi in plastica nella Ue

    di Cristina Bellon

    24 Aprile 2024

    Il packaging biodegradanile a base di alghe marine

    Oltre il 90% dei materiali inquinanti che finisce nei mari e negli oceani è plastica. Ogni giorno otto milioni di pezzi di plastica confluiscono nei nostri oceani, e danneggiano irreparabilmente alcuni degli ecosistemi marini più importanti al mondo. La plastica è stata trovata nei fondali marini, in cima alle montagne, incastrata nelle barriere coralline e lungo gli argini delle foreste di mangrovie. Un rapporto della Pew Charitable Trusts stima che la plastica rischia di quadruplicare entro il 2050, con conseguenze gravissime per i nostri oceani (e non solo). Gran parte del problema risiede negli imballaggi, tra le plastiche più difficili da sostituire, a causa della sua sottigliezza e versatilità. In questo contesto si colloca la soluzione ideata da Sway, startup fondata a  Berkeley (California) da Julia Marsh (CEO), Matt Mayes (COO) e Leland Maschmeye, che ha creato sostituti compostabili a base di alghe del mare al posto degli imballaggi in plastica.

    La startup ha studiato una tecnologia rivoluzionaria che, per la prima volta, consentirà alle alghe del mare di sostituire la plastica flessibile su larga scala. Rappresentando una categoria completamente nuova di resina biopolimerica, la resina di alghe termoplastiche di Sway (dal nome TPSea), ad oggi in attesa di brevetto, è un ingrediente al 100% di origine biologica, compostabile in casa e privo di microplastica, ottenuto da una coltura oceanica rigenerativa in grado di ricostituire gli ecosistemi e sostenere le comunità costiere.

    La tecnologia di Sway è progettata per integrarsi con i sistemi di produzione di plastica più diversificati evitando l’inquinamento da monouso, grazie all’innovativo materiale di bioresina TPSea usato per produrre sacchetti, buste per la vendita al dettaglio e involucri alimentari per marchi di consumo.

    Il vertice

    L’addio al carbone nel 2035 e lo stop all’inquinamento da plastica sul tavolo del G7 sull’ambiente

    di Luca Fraioli

    29 Aprile 2024

    L’azienda cleantech ad oggi lavora con allevatori di alghe che operano in tutto il mondo, dall’Alaska al Cile, attraverso un processo che non rimuove la pianta alle radici ma la taglia solo in superficie. Lavorare in diversi Paesi permette a Sway di non dover dipendere da una singola area geografica o fornitore. Tutti gli allevatori sono selezionati secondo i rigorosi standard ambientali e sociali imposti dalla Aquaculture Stewardship Council. La startup di Julia Marsh, imprenditrice con un passato da designer con la passione per l’ecosostenibilità, ha attirato l’attenzione di molti investitori ed ha di recente chiuso un round di investimenti di circa 5 milioni di dollari con il fondo d’investimento Valor Siren Ventures, specializzato in tecnologie green, soprattutto nel mondo del retail e del cibo. Tra l’altro, Sway sta già sviluppando progetti pilota con numerose aziende nel mondo della moda, del footwear e della cosmesi con l’obiettivo di offrire ai consumatori un prodotto completamente carbon-negative su larga scala.

    L’azienda di San Francisco ha debuttato per la prima volta con la sua collezione di alghe termoplastiche a gennaio a Parigi, in occasione di Biofabricate 2024, il principale incontro degli innovatori, dei marchi e degli investitori del mondo che guidano la transizione verso un futuro sostenibile e a base vegetale. Lo scorso anno, Sway si è aggiudicata il primo posto al Tom Ford Plastic Innovation Prize powered by Lonely Whale, un premio che ha contribuito a convalidare il prodotto e il modello di business in termini di scala, costi, prestazioni, degrado biologico e impatto ambientale e sociale. Questo lancio ha accompagnato il successo del finanziamento da 5 milioni di dollari di Sway, guidato da Third Nature Investments e che include investimenti anche da parte di altri investitori allineati al settore della eco sostenibilità. I fondi sosterranno direttamente la scalabilità del portafoglio prodotti di Sway e catalizzeranno l’adozione da parte di marchi di moda, cibo e articoli per la casa. LEGGI TUTTO

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    Le strade fantasma stanno uccidendo le foreste tropicali

    Ci sono strade non mappate. Non se ne trovano tracce sulle cartine geografiche o nei piani relativi allo sviluppo infrastrutturale, eppure ci sono. C’è chi, come il team di ricercatori che arriva dall’Australia e dall’Indonesia, le chiama “strade fantasma” e ne ha scoperte a bizzeffe passando in rassegna i dati satellitari delle isole del Borneo, Sumatra e Nuova Guinea. Queste strade, scrivono chiaramente dalle pagine di Nature, sono una vera e propria minaccia per le foreste tropicali.La prova è nelle informazioni messe insieme dai ricercatori che hanno passato in rassegna i dati satellitari accessibili grazie a Google Earth relativi a 1,42 milioni di km quadrati di zone forestali sparse tra Borneo Sumatra e Nuova Guinea. Non lo hanno fatto da soli – ovviamente, considerata la mole del lavoro – ma servendosi dell’aiuto di alcuni collaboratori volontari, grazie a cui hanno mappato e digitalizzato le strade (fantasma o meno) per poi confrontarle con quelle segnalate ufficialmente e reperibili all’interno di due database di infrastrutture stradali. Il risultato sono state mappe per nulla sovrapponibili: quelle manuali, realizzate grazie alla collaborazione con i volontari, erano molto più fitte di quelle ufficiali.Misurandone la lunghezza totale, i ricercatori hanno stimato un’abbondanza stradale dalle 3 alle 6,6 volte rispetto a quella registrata nei database. Queste strade fantasma, spiegano, si trovano all’interno di piantagioni, come quelle di olio da palma, all’interno di foreste o in terreni agricoli. Non è la prima volta che si studia il fenomeno. Dati simili sono già stati collezionati per esempio per le isole Salomone o l’Amazzonia brasiliana, ha ricordato William Laurence, dalla James Cook University, tra gli autori, ma il nuovo studio mette in risalto la dimensione del problema. Anche ammettendo eventuali ritardi nell’aggiornamento delle mappe ufficiali, considerato che le discrepanze sono notevoli.Scoprire nuove strade “fuori mappa” significa che molto probabilmente ci si trova di fronte a strade o illegali o quanto meno informali, scrivono gli autori, la cui costruzione ha avuto verosimilmente un impatto notevole sull’ambiente circostante. Gli scienziati hanno infatti dimostrato che la creazione delle strade solitamente precede la perdita delle foreste. “Lo sviluppo stradale non regolamentato – ha commentato Laurence – sta innescando drammatici aumenti dei disagi ambientali dovuti ad attività come il disboscamento, l’estrazione mineraria e il trasporto di legname”. E tutto questo rischia di rompere (indiscriminatamente) equilibri ecologici, crearne dei nuovi.Ma l’aspetto ambientale non è che una parte del problema: l’esistenza di strade fantasma, non dichiarate, potrebbe essere collegata infatti anche a pratiche illegali, come il traffico di droga o anche lo sfruttamento illegale della terra per l’accaparramento di risorse, come terreni e miniere, suggeriscono gli autori. “Molte strade vengono costruite in modo informale o illegale, soprattutto nelle nazioni a basso reddito dove il governo è spesso ostacolato dalla corruzione e da un’inefficace applicazione della legge – si legge nel paper – Queste ‘strade fantasma’, invisibili sulle mappe stradali ufficiali, rappresentano una delle minacce dirette più moleste per le foreste tropicali e i loro abitanti, animali selvatici ed esseri umani”. LEGGI TUTTO