Agosto 2024

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    Anche la montagna soffre di “overtourism”

    È sempre più frequente, in questo periodo, sentir parlare di “overtourism”: sono ogni volta di più le città che cercano di arginare il numero ormai insostenibile – per molte realtà – di turisti bramosi di esperienze e alla ricerca del bello, poiché il risultato è un ridotto livello della qualità della vita per i residenti, della qualità della visita per chi arriva e un ulteriore peggioramento della già grave emergenza abitativa. Non sono solo i grandi centri a risentire di questo problema, però: cosa succede se troppe persone visitano gli stessi posti, nello stesso periodo, in montagna?

    Nei luoghi più turistici è ormai impossibile trovare casa in affitto: sia per gli abitanti, sia per i molti lavoratori stagionali che nei mesi estivi e in quelli invernali vengono richiamati sul posto, per offrire servizi a chi sceglie queste località per le vacanze. La viabilità, inizialmente pensata per i residenti, non riesce a reggere il numero di mezzi che ora prendono d’assalto passi e paesini; diminuisce poi il potere d’acquisto degli abitanti a causa dell’incremento dei prezzi. Degrado ambientale, aumento del consumo idrico, dell’inquinamento e dei rifiuti, oltre al sovraccarico dei servizi pubblici sono altre criticità di cui tener conto.

    Turismo sostenibile

    Cos’è un rifugio, cos’è un bivacco e come vanno (e non vanno) utilizzati

    di Giulia Negri

    20 Luglio 2024

    Se si pensa alle escursioni, inoltre, cresce il carico di lavoro per il soccorso alpino – purtroppo molte persone si trovano in difficoltà per mancanza di preparazione o conoscenze – su alcuni sentieri si fa la fila, rendendo rischiosa la percorrenza nei tratti più stretti o accrescendo il pericolo di ferirsi con le pietre smosse. Il turismo è sempre più influenzato dalla cultura di massa: si sceglie dove andare in base a foto e reel visti sui social media, a quello che consigliano gli influencer, o per visitare un luogo dove è stato ambientato un film o una serie tv: come non pensare all’assalto al lago di Braies dopo che lì è stato girato “Un passo dal cielo”, o a quanti arrivano al lago di Sorapiss con abiti cittadini per i selfie di rito per poi rischiare di farsi male lungo il percorso.

    Se, quindi, da un lato, bisogna riconoscere gli effetti positivi del turismo, in particolare quelli economici, in parte quelli sociali, che si traducono in maggiori infrastrutture, dall’altro vanno considerati e mitigati i molti effetti negativi legati a un suo sviluppo eccessivo. Infine, può essere utile un’ultima riflessione: la salvaguardia dell’ambiente naturale determina la definizione di vincoli che limitano e disciplinano l’attività umana nei territori tutelati, di solito a favore delle altre specie viventi che li abitano. Nelle province montane la percentuale di territorio protetto è molto più elevata rispetto alle aree urbane, in parte perché queste zone si trovano in ambienti marginali, dove gli interessi economici umani sono meno invasivi e penetranti, in parte perché si è cercato un maggiore bilanciamento tra guadagno immediato e natura.

    Se, però, questo squilibrio continua a essere così ampio, il rischio di conflitto è alto: per chi vive in questi territori è accettabile che chi si trova in pianura si dedichi allo sfruttamento intensivo dell’ambiente ma si batta per la sua conservazione sui rilievi – bloccandone, quindi, anche lo sviluppo – per poterne godere (non solo, ma anche) quando va in vacanza? Andrebbero salvaguardate molto più di quanto avvenga ora le aree urbane e di pianura, incrementandone la qualità, in modo che gli abitanti possano ritrovare anche lì il contatto con la natura che viene quasi spasmodicamente ricercato, soprattutto dopo il Covid, in montagna. Una montagna a volte idealizzata e stereotipata, molto spesso non compresa, non conosciuta, non rispettata LEGGI TUTTO

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    Crociere, in 24 anni raddoppiate le dimensioni delle navi. Cinque volte più grandi del Titanic

    Quasi ogni anno viene varata la “nave più grande del mondo”. Come è accaduto quando Royal Caribbean, ha presentato la Icon of the Sea grande quanto un paese galleggiante, può ospitare quasi 10 mila persone tra equipaggio e passeggeri, c’è posto per 40 ristoranti e 7 piscine, un teatro e perfino un parco. Costruita in Finlandia nei cantieri a Turku, è alta 70 metri e lunga quasi 400, una stazza di 250 mila tonnellate. Per muovere un colosso simile sono necessari tre motori che a piena potenza consumano oltre 5 mila litri all’ora di gas naturale liquefatto (gnl), circa 100 mila al giorno. Un combustibile fossile considerato il più ecologico perché emette meno anidride carbonica rispetto al normale carburante marino. Ma, secondo gli esperti può riscaldare maggiormente il pianeta attraverso il rilascio di metano. Per non parlare del consumo di acqua che comunque deve rispettare una normativa internazionale molto rigorosa per il riciclo.

    Un’onda gigante che cresce
    C’è dunque un fenomeno che sta crescendo come un’onda in tutto il mondo, sempre più difficile da governare: il gigantismo delle navi da crociera. Tanto per farci un’idea, una nave come la Icon o la sorella “minore” Harmony of the Seas (scesa al secondo posto nella classifica “dimensioni”) è cinque volte più grande del Titanic. E questo nonostante, sia negli Stati Uniti che in Europa alcuni porti (come ad esempio Venezia e Amsterdam, ma adesso anche Barcellona ha annunciato un giro di vite) abbiano imposto restrizioni sul turismo delle crociere. Decisioni dovute alle preoccupazioni che riguardano sia l’affollamento che l’inquinamento. Sì perché oltre le dimensioni nave dopo nave aumentano anche le emissioni.

    Il rapporto di Transport & Environment
    Eppure, l’ipertrofia della cantieristica navale non sembra fermarsi. Come emerge nel nuovo rapporto redatto dalla Federazione europea per i trasporti e l’ambiente, principale organizzazione ambientalista indipendente Transport & Environment, le navi da crociera negli ultimi 24 anni hanno raddoppiato le loro dimensioni. La nave più grande del 2000 è stata la Voyager of the Seas della Royal Caribbean, con una stazza lorda (GT) di 137.276 tonnellate. Da allora, le dimensioni medie delle 10 navi più grandi sono raddoppiate, passando da 103.000 GT a 205.000 GT.
    Continuando così, spiegano gli autori dello studio di T&E nel 2050 le più grandi navi da crociera potrebbero raggiungere una stazza da 345 mila tonnellate. Otto volte più grandi del Titanic. “Le crociere di oggi fanno sembrare il Titanic una piccola barca da pesca” ha commentato Inesa Ulichina analista di spedizioni sostenibili intervistata dal The Guardian.

    Trasporti

    Italia, il Paese europeo con più inquinamento da navi da crociera

    di Jaime D’Alessandro

    16 Giugno 2023

    Con le dimensioni aumenta l’inquinamento
    Ma nel rapporto T&E gli esperti hanno lanciato l’allarme soprattutto sul fronte ambientale. Le navi da crociera hanno pompato il 17% in più di anidride carbonica nel 2022 rispetto al periodo precedente alla pandemia, e le emissioni di metano sono aumentate del 500% nello stesso periodo di tempo. T&E ha invitato i responsabili politici a istituire zone vietate alle crociere in acque con ecosistemi fragili e a stabilire regole più severe per la decarbonizzazione delle navi da crociera rispetto alle navi non di lusso. Ha anche suggerito una tassa globale sui biglietti delle crociere per aiutare a finanziare i paesi poveri alle prese con i danni causati dalla crisi climatica. “La rapida espansione del settore delle crociere e l’aumento delle dimensioni delle navi hanno un costo ambientale significativo”, sottlinea T&E.
    Nella sua tabella di marcia per raggiungere le emissioni nette zero entro il 2050, l’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) prevede che il 44% dell’energia necessaria per il trasporto marittimo internazionale provenga dall’ammoniaca, seguita dall’idrogeno (19%), dai biocarburanti (19%) e dal metanolo (3%).

    Trasporti

    Inquinamento e salute: 1,6 milioni di italiani vivono esposti alle particelle emesse dagli aerei

    di Fiammetta Cupellaro

    25 Giugno 2024

    20 miliardi di euro di investimenti in Italia
    Così mentre il rapporto viene pubblicato, in questa estate in cui la crisi climatica mostra chiaramente i suoi effetti, nei porti europei si vedono ormeggiare e salpare colossi del mare. Proteste ci sono state nei porti di Spagna, Francia e regno Unito, ma l’industria continua a crescere. Anche in Italia. E se nei prossimi cinque anni le compagnie a livello globale spenderanno 34 miliardi di euro per il varo di 55 nuove navi (per 121 mila posti letto), di queste 25 saranno costruite in Italia per un valore complessivo di 20 miliardi di euro. Più della metà saranno alimentate a gnl.
    L’Italia è infatti il paese che beneficia in misura maggiore del settore. Il giro d’affari è di 15,6 miliardi di euro. In Francia è di 7,7 miliardi e i posti di lavoro oltre 100 mila. Solo nel 2023 in Italia i croceristi sono stati 13,7 milioni. Obiettivo per il 2024: superare quota 14 milioni di passeggeri. E le navi? Sempre più grandi. LEGGI TUTTO

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    Scuola, mancano 20.000 lavoratori: “A rischio l’apertura a settembre”

    ROMA – Il sindacato Uil Scuola Rua si è messo a contare le assenze nel panorama scolastico italiano, e questa volta si è dedicato al “personale lavoratore”, che non contempla i centrali maestri e professori, piuttosto quelle figure – alti amministrativi, figure di segreteria, bidelli, tutti racchiusi nell’acronimo Ata –comunque necessari per aprire i portoni […] LEGGI TUTTO

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    Nel profondo degli oceani c’è una grande riserva di ossigeno

    Potrebbe essere tra le scoperte scientifiche più importanti dell’ultimo secolo, quella dell’“ossigeno buio”. In una pianura abissale del Pacifico ci sono conglomerati rocciosi della dimensione di una patata che producono ossigeno in assenza di luce, sovvertendo le leggi della natura conosciute. Ciò dimostra la capacità delle rocce di produrre energia geo-elettrica. Ad annunciarlo è uno […] LEGGI TUTTO

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    Greenwashing, quanta pubblicità ingannevole in alcuni marchi “green”

    Chissà se il giovane surfista Jay Westerveld, quando coniò per caso il termine “greenwashing” nel 1983, immaginasse la portata della sua intuizione…
    Si trovava in un resort delle Isole Fiji e di fronte all’indicazione data ai clienti di quel resort di non mettere a lavaggio gli asciugamani tutti i giorni, “al fine di proteggere il pianeta dall’inquinamento e ridurre lo spreco di acqua”, decise di verificare se la proprietà avesse veramente a cura l’ambiente o no. Scoprì che la proprietà del resort stava investendo per costruire nuovi edifici, non curandosi dei forti impatti negativi sull’ambiente, la biodiversità ed il territorio circostante e senza aver previsto alcuna azione di mitigazione di questi impatti, e capì che quel messaggio nel bagno della sua stanza, pur se corretto nel suo contenuto green, veniva però utilizzato a soli fini economici (riduzione dei costi per l’azienda) e non aveva nulla a che vedere con una vera attenzione all’ambiente.
    Intuì quindi, più di 40 anni fa, quello che sarebbe poi diventato uno dei maggiori pericoli per la transizione ecologica delle imprese e lo chiamò “green washing”: una pennellata superficiale di green, per coprire pratiche tutt’altro che ecologiche.

    Nei 40 anni successivi, con il crescere della crisi climatica e delle pressioni dello sviluppo economico sugli equilibri del pianeta e con la conseguente maggiore consapevolezza e sensibilità dei consumatori e dei cittadini per le questioni ambientali, la pratica del green washing è purtroppo divenuta una vera e propria strategia di marketing, sempre più diffusa, efficace e gratificante per le imprese in termini economici. Infatti, come disse Winton Churchill “Una bugia ha già fatto il giro del mondo prima che la verità abbia avuto la possibilità di infilarsi i pantaloni”.
    Moltissimi prodotti “dicono” di essere green, rispettosi dell’ambiente, amici della natura, etc., per non parlare di alcuni utilizzi disinvolti dei termini “net zero”, “carbon neutral”, in una sorta di giungla della comunicazione dove, in virtù del fatto che si tratti di un’attività libera, volontaria e non regolata, vince chi la spara più grossa. E, tutto ciò, come una beffa, paradossalmente crea un danno d’immagine a quelle imprese serie, che attuano concretamente la transizione ecologica, si impegnano per trasformare prodotti e processi riducendone gli impatti e si rifiutano di bluffare apertamente, pagando a caro prezzo la propria credibilità. E spesso si rifugiano nel c.d. green hushing (silenzio green).

    In questo scenario, la nuova Direttiva UE, c.d. Green Claims, emanata nel Febbraio scorso, segna finalmente, anche se molto in ritardo, uno spartiacque importante, definendo normativamente per la prima volta alcune forme di green washing che, una volta recepita la direttiva stessa da parte degli Stati membri (entro Marzo 2026) , potranno essere proibite dalle autorità nazionali come “pubblicità ingannevoli”, sulla base di un’analisi caso per caso.
    Non è possibile in quest’articolo affrontare tutte le tipologie di asserzioni ambientali sanzionabili secondo la Direttiva, e quindi ci concentriamo su tre aspetti: quello dei marchi di sostenibilità, quello delle compensazioni di gas serra (offsetting), e quello della comunicazione green delle imprese, rimandando la corposa parte dedicata dalla Direttiva alla circolarità dei prodotti (riparabilità, obsoloescenza programmata, riciclabilità etc.) ad un prossimo approfondimento.
    Per quanto riguarda i marchi di sostenibilità, che si riferiscono a prodotti, servizi o imprese, le disposizioni della Direttiva sono molto chiare. Per evitare che il cliente finale possa essere ingannato dal proliferare di marchi ambientali e di sostenibilità auto-prodotti senza una solida base scientifica (solo nel mondo dell’agrifood qualche anno fa, in un’indagine della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile ne abbiamo contati alcune centinaia), la Direttiva dispone che essi saranno permessi solo se si tratti di iniziative regolate da autorità pubbliche (si pensi ad esempio all’Ecolabel UE) o che si basino su “sistemi di certificazione”.

    Tali sistemi di certificazione devono però obbligatoriamente avere i seguenti connotati:
    i requisiti del sistema devono essere accessibili al pubblico; il sistema, nel rispetto di condizioni trasparenti, eque e non discriminatorie, deve essere aperto a tutti gli operatori economici disposti e in grado di conformarsi ai suoi requisiti; i requisiti devono essere stati elaborati dal titolare del sistema in consultazione con esperti riconosciuti e con gli stakeholders; il sistema deve stabilire procedure per affrontare i casi di non conformità ai requisiti e prevedere la revoca o la sospensione dell’uso del marchio di sostenibilità da parte dell’operatore economico in caso di non conformità ai requisiti; il monitoraggio della conformità dell’operatore economico ai requisiti del sistema deve essere oggetto di una procedura obiettiva ed è svolto da un terzo, la cui competenza e la cui indipendenza, sia dal titolare del sistema sia dall’operatore economico, si basano su norme e procedure internazionali, dell’Unione o nazionali.
    Con un calcolo basato solo sulla nostra percezione e non su statistiche reali, per le quali dovremo aspettare qualche anno, crediamo che almeno la metà dei marchi e delle certificazioni volontarie ad oggi esistenti non siano conformi a questi requisiti e quindi, se non si adegueranno, saranno proibiti come pubblicità ingannevole.
    Per quanto concerne invece le compensazioni delle emissioni di gas serra attraverso crediti volontari di carbonio (il c.d. carbon offsetting), il cui utilizzo a fini comunicativi è stato già oggetto di numerose critiche della stampa più attenta (ricordiamo ad esempio una importante e informatissima campagna del Guardian di due anni fa) e delle Autorità di regolazione della Pubblicità (come quella olandese e britannica, che hanno recentemente condannato alcune linee aeree per i claims di “voli a zero emissioni” grazie alle compensazioni) la Direttiva dice chiaramente che le asserzioni su prodotti e servizi del tipo “neutrale dal punto di vista climatico”, “certificato neutrale in termini di emissioni di CO2”, “positivo in termini di emissioni di carbonio”, “a zero emissioni nette”, etc. saranno consentite solo se si baseranno sull’impatto effettivo del ciclo di vita del prodotto (o servizio) e non sulla compensazione delle emissioni di gas a effetto serra al di fuori della catena del valore del prodotto (o servizio).

    In virtù di questa previsione, non sarà più possibile ad esempio sostenere che un viaggio in aereo o la partecipazione ad un concerto rock siano a zero emissioni, o a zero emissioni nette o “carbon neutral”, se ciò sia dovuto alla compensazione delle emissioni attraverso progetti di piantumazione o riforestazione, perché “tale asserzione darebbe ai consumatori la falsa impressione che quel prodotto o servizio non abbia alcun impatto climatico”.

    Infine, passiamo al tema delle asserzioni ambientali green delle aziende, ad esempio nelle corporate green strategy, molto diffuse come impegni green e target ambientali comunicati ai media e ai consumatori. Anche qui siamo ad un momento di svolta. La Direttiva infatti, all’articolo 1, estende espressamente la regolazione delle asserzioni ambientali anche alla comunicazione di prestazioni ambientali future, vietando quelle che, in base a una valutazione caso per caso, non risulteranno:
    corroborati da impegni e obiettivi chiari, oggettivi, pubblicamente disponibili e verificabili;
    definiti in un piano di ttuazione dettagliato e realistico che indichi in quale modo tali impegni e obiettivi saranno conseguiti. Tale piano di attuazione dovrebbe includere tutti gli elementi pertinenti necessari per adempiere agli impegni, quali le risorse di bilancio stanziate e gli sviluppi tecnologici a disposizione.

    Verificate da un esperto terzo, che deve essere indipendente dall’operatore economico, esente da conflitti di interessi e dotato di esperienza e competenze in materia ambientale, il quale dovrebbe poter verificare periodicamente i progressi compiuti dall’operatore economico rispetto a tali impegni e obiettivi, comprese le tappe fondamentali per conseguirli e mettere i risultati a disposizione dei consumatori.
    Non basterà quindi che un’azienda annunci di essere carbon neutral entro il 2035 ad esempio, o che prometta di azzerare il consumo di plastica entro il 2030. Per non cadere nelle maglie del green washing secondo la Direttiva dovrà pubblicare un Piano credibile, con i progetti e le tecnologie che realizzerà in concreto per raggiungere quel target, quali risorse avrà stanziato a bilancio per raggiungere il target, quali risultati intermedi avrà raggiunto nel tempo, certificati da un soggetto terzo.
    Sicuramente Jay Westerveld, mentre surfava nelle Fiji non avrà immaginato di aver “stanato” i fondamenti di una strategia di marketing che sarebbe diventata una pratica planetaria né di aver coniato un espressione che sarebbe stata adottata nelle leggi e nei libri per i decenni futuri. Questa Direttiva, pur se in forte ritardo, aiuta concretamente a fare dei passi avanti nella direzione indicata dal giovane surfista sia dal punto di vista culturale che da quello giuridico.
    Lui, nel frattempo, non ha fondato una società di consulenza specializzata in comunicazione green sfruttando economicamente la sua intuizione, ma si è dedicato a preservare e rigenerare ecosistemi in pericolo e proteggere specie rare a rischio d’estinzione, come le piccole rane-grillo o i gamberi-vongola. Passione silenziosa. Azioni concrete. Il contrario del green washing.

    *Raimondo Orsini direttore Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile LEGGI TUTTO

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    La carta di pagamento? Si ritira al distributore

    Per chi è in partenza e ha bisogno di fare acquisti durante il viaggio, ma anche per chi punta a sfruttare al meglio il tempo da trascorrere presso lo scalo. Gli aeroporti stanno diventando luoghi nei quali i fornitori di servizi propongono soluzioni innovative. Un esempio arriva da Revolut, banca autorizzata con oltre 30 milioni […] LEGGI TUTTO

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    Legambiente sfida la normativa e presenta pannelli solari in mezzo a campi coltivati

    Mettere d’accordo agricoltura e produzione di energia green: è la sfida dell’agrivoltaico e, in particolare di Legambiente, associazione che da anni si batte per dimostrare che le due attività non sono incompatibili. Ora c’è la dimostrazione pratica: a festAmbiente, “festival nazionale di ecologia e pace” in corso fino all’11 agosto a Ripescia, in provincia di Grosseto, è stato allestito un prototipo dimostrativo si campo agrivoltaico.

    L’impianto agrivoltaico, con tracker, pannelli mobili e coltivazioni agricole, è stato realizzato da Legambiente grazie alla collaborazione con il Gruppo Greencells Agrosolar. In un’area di 80 metri quadri situata all’ingresso della manifestazione, due file di sei tracker e altrettanti pannelli fotovoltaici mobili sono a 2,30 metri di altezza dal suolo e si orientano verso la luce solare. La distanza tra le file di pannelli è di 5,5 metri, per permettere il passaggio di mezzi agricoli: non a caso tra i pannelli è parcheggiato un trattore di medie dimensioni. Al di sotto sono state messe a dimora piantine di peperoncino e basilico e delle bordure di lavanda.

    La sfida allo stop del fotovoltaico sui terreni agricoli
    L’intenzione di Legambiente è dimostrare che l’integrazione tra agricoltura e produzione di energia solare può portare benefici significativi sia dal punto di vista ambientale che agronomico ed economico. Secondo le ricerche condotte dal CNR di Firenze, la vite coltivata in sinergia con tale tecnologia ha ottenuto un aumento della resa del 10-20%, seguita dall’insalata con un aumento del 10%.
    La missione è cruciale, vista la battaglia condotta da una parte rilevante del mondo agricolo italiano (e dalle principali associazioni di categoria) contro le rinnovabili che sottrarrebbero suolo alle coltivazioni, con rischio di indebolire ulteriormente un settore già in difficoltà. La Coldiretti, per esempio, in passato ha insistito perché i pannelli fotovoltaici fossero installati solo sui capannoni industriali e non al suolo. C’è anche da dire che la vera minaccia percepita dalle organizzazioni degli agricoltori non è costituita tanto dai piccoli impianti fai-da-te, ma dall’incombere dei colossi delle rinnovabili che offrono ai proprietari dei terreni cifre alle quali è difficile dire di no.

    897 progetti in attesa di valutazione dal Ministero
    Il messaggio che arriva da Ripescia è che si può continuare a coltivare la terra, magari arrotondando con la produzione e la vendita di elettricità senza emissioni di CO?. Secondo l’associazione i segnali sono incoraggianti: in Italia sono sempre di più le imprese che presentano progetti di questa nuova tecnologia. Ci sono 897 progetti di agrivoltaico, su un totale di 1654, in valutazione al Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (Mase). Tuttavia sono ben 686 quelli che registrano un forte ritardo nelle procedure autorizzative: 77 progetti presentati nel 2021 (di cui 23 ancora in attesa della Presidenza del Consiglio dei Ministri e 8 in attesa del parere del ministero della Cultura), 294 presentati nel 2022 (di cui 18 in attesa del Mic e 6 della Presidenza del Consiglio) e 315 presentati nel 2023 (di cui 7 in attesa del parere del Mic e 1 della Presidenza del Consiglio). E’ bene ricordare che progetti in attesa del parere del Mic hanno già ricevuto il parere della Commissione tecnica del Mase, mentre quelli in attesa della decisione della Presidenza del Consiglio hanno ricevuto parere discordante tra i due ministeri (Mase e Mic).

    Fisco Verde

    Tetti e pareti verdi, i bonus per risparmiare energia

    di Antonella Donati

    10 Luglio 2024

    La transizione energetica in agricoltura
    “La transizione ecologica non è più una scelta ma una necessità, e deve essere praticata velocemente anche dal settore agricolo, che sarà tra le prime vittime della crisi climatica”, spiega Stefano Ciafani presidente nazionale di Legambiente. “L’agrivoltaico è uno degli strumenti più innovativi che abbiamo a disposizione per realizzarla in agricoltura. Dopo gli errori fatti dal governo Meloni coi decreti Agricoltura e Aree idonee, che rischiano di rallentare la diffusione delle rinnovabili nel Paese, è il momento di cambiare passo. Ai ministeri dell’Ambiente e della Cultura chiediamo pareri più rapidi, alle Regioni iter autorizzativi più snelli e veloci”. LEGGI TUTTO

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    Tim Walz e l’impegno ad agire contro la crisi climatica

    L’anno scorso il Minnesota si è impegnato a eliminare le emissioni di carbonio dalla sua produzione di energia elettrica entro il 2040, ottenendo il 100% dei suoi servizi elettrici da fonti prive di emissioni di carbonio. È con questo biglietto da visita che si presenta agli elettori americani Tim Walz, appena designato dalla candidata democratica alla Casa Bianca Kamala Harris come suo vice. Walz è al secondo mandato da governatore dello Stato del Midwest e, tra le altre cose, ha un solido curriculum di politiche di contrasto alla crisi climatica.

    Prima fra tutte, appunto, la legge che mira a decarbonizzare in pochi decenni la produzione di energia dello Stato. “Questo provvedimento è ancora più ambizioso di misure simili varate in Stati tradizionalmente progressisti, e mostra il tipo di leadership lungimirante di cui il nostro Paese ha bisogno per affrontare il peggioramento della crisi climatica”, ha commentato il portavoce del gruppo di attivisti Usa Fossil Free Media.
    Correlate alla legge principale, tutta una serie di norme cruciali per il raggiungimento dell’obiettivo. Lo scorso giugno Walz ha approvato una legge volta a semplificare i permessi energetici: ”Questa è una misura che aiuterà a proteggere il nostro ambiente e a far partire i progetti di energia pulita che aiuteranno a combattere il cambiamento climatico”, ha spiegato il governatore del Minnesota.

    Stanziati in Minnesota 2 miliardi di dollari per l’energia pulita
    Durante il suo mandato, il governatore ha anche finanziato corsi di formazione professionale nel campo dell’energia pulita e ha stanziato 2 miliardi di dollari per progetti sulle risorse naturali, sul clima e sull’energia.
    Tra i successi di Walz in campo climatico c’è anche il potenziamento del trasporto pubblico del Minnesota, anche attraverso la promozione di una nuova linea ferroviaria Amtrak tra le città gemelle Minneapolis–Saint Paul e Chicago, entrata in funzione a maggio.
    Per questi e altri provvedimenti green, ma soprattutto per la sua retorica ambientale, il governatore Walz è stato definito da Time magazine uno dei “comunicatori climatici più abili del Paese” per la sua capacità di legare le politiche verdi alla necessità di sviluppo economico e posti di lavoro.
    La scelta di Tim Walz come aspirante vicepresidente degli Stati Uniti certamente mobiliterà quell’elettorato progressista, attentissimo alla crisi climatica, che sembrava ormai rassegnato al trionfo della coppia di negazionisti repubblicani Trump-Vance.

    La capacità di convincere anche i sostenitori del fossile

    Le sue capacità di dialogo e di convincimento sono tali da aver messo d’accordo tutto il partito democratico, comprese le ali estreme: hanno per esempio celebrato la sua designazione come vice di Kamala Harris, sia la pasionaria del Green New Deal Alexandria Ocasio Cortez, sia il senatore dem filo-carbone Joe Manchin. Resta da vedere dove la candidatura di Walz spingerà gli incerti: li convincerà che la transizione energetica è possibile e vantaggiosa anche se non si vive nella ricca e progressista California, ma in una landa sperduta del Midwest? O, ed è quello su cui punta la campagna di Trump, li spaventerà, inducendoli a votare per il tycoon?

    Dalla sua Walz ha le origini: popolari e dal Minnesota. Basteranno a conquistare l’America profonda?
    Chi invece ha a cuore la lotta ai cambiamenti climatici ora non avrà più dubbi su chi votare. Già adesso (i conti li ha fatti il Guardian) i negazionisti del cambiamento climatico costituiscono quasi un quarto del Congresso degli Stati Uniti: 23 al Senato e 100 alla Camera, e sono tutti repubblicani. Un eventuale ritorno di Trump alla Casa Bianca non farebbe che peggiorare la situazione. Oltre a comportare una nuova fuoriuscita degli Usa dall’Accordo di Parigi con un ulteriore affossamento di una diplomazia climatica che si muove già con tempi biblici. LEGGI TUTTO