Giugno 2024

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    Maturità, i consigli per la prova di greco. La prof: “Ragionare, gestire il tempo e le fasi per evitare l’ansia. E fatevi amico il dizionario”

    Statistiche alla mano, quando l’alternanza tra le discipline della seconda prova porta nella busta la versione di greco tra gli studenti del liceo classico la paura aumenta. E c’è da immaginare che quest’anno non vada diversamente, anche perché – complici la pandemia e le diverse modifiche apportare alla struttura dell’esame – i ragazzi che si sederanno sui banchi giovedì mattina saranno i primi a confrontarsi con la versione di greco dopo sei anni.

    La Maturità dei politici: problemi in condotta per Meloni ma pieni voti, 60/60, anche per Schlein

    di Giulia D’Aleo

    17 Giugno 2024

    Primo: ragionare
    La prova, tuttavia, “non è uno scoglio insuperabile” afferma Paola Melissano, insegnante di greco e latino al liceo classico Carducci di Milano, che invita gli studenti sfruttare “i vantaggi offerti dalla sua struttura”. Sì, perché la prova di oggi è molto più articolata del semplice testo da tradurre assegnato fino a una decina di anni fa. Ci sono una breve introduzione in italiano, un pre e un post testo, la versione e tre domande. “È fondamentale ragionare tenendo presente la griglia di valutazione, sapere cosa viene richiesto e quali sono gli indicatori considerati, nella consapevolezza che la traduzione rappresenta solo uno dei fattori” aggiunge l’insegnante, che punta sui calcoli per tenere a bada l’ansia degli allievi: “La sufficienza corrisponde a 12 punti ed è possibile ottenerne sei grazie alla parte dedicata alla comprensione”. Il primo consiglio, quindi, è di ragionare e non perdersi d’animo.
    [[(gele.Finegil.StandardArticle2014v1) L’esame di Maturità, resta un rito di passaggio, forse l’ultimo rito collettivo della nostra epoca. E anche l’ultimo momento in cui siamo stati ragazzi]]
    Secondo: procedere per fasi
    Il secondo – senza dubbio fondamentale – è di muoversi con metodo per sfruttare al meglio il tempo. “Per far sì che le 6 ore a disposizione non si trasformino in un ulteriore fattore di ansia è importante procedere per fasi” spiega Melissano, che suggerisce di partire dall’analisi dell’introduzione in italiano, da cui “ricavare tutti gi elementi utili per comprendere l’opera e il contesto di riferimento”.
    Dopodiché è bene saltare direttamente alle tre domande – la prima riguarda la comprensione del testo, la seconda l’aspetto linguistico e stilistico, la terza chiede una riflessione sul tema trattato da svolgere anche attraverso collegamenti con altre materie – e ipotizzare le risposte in base alle informazioni già ricavate. “Solo a questo punto, essendosi già fatti un’idea abbastanza chiara su cosa si potrà trovare, consiglio di passare alla traduzione – aggiunge l’insegnante -. In questo modo anche chi ha più difficoltà non sarà del tutto disorientato e potrà affrontare il testo con atteggiamento positivo”.

    Maturità, i cinque consigli per la prova di matematica. Gli argomenti su cui prepararsi

    di Giulia D’Aleo

    16 Giugno 2024

    Terzo: non strafare e non andare fuori tema
    Infine si tornerà alle domande per completare e perfezionare le risposte. E qui è bene tenere presenti due indicazioni: “Per il secondo quesito è importante non lasciarsi prendere dall’ossessione di trovare la figura retorica più ardita, ma mettere in evidenza elementi semplici e significativi. Per il terzo, invece, è fondamentale non andare fuori tema. Il rischio è di dare l’impressione di voler svicolare”.
    Quarto: orologio, pause e spuntini
    Ultimi, ma non per importanza, sono i consigli pratici. Portare con sé un orologio per tenere sotto controllo il tempo e acqua e cibo, non solo per limitare i cali di zuccheri, ma anche “per concedersi delle pause per evitare cali di concentrazione e staccare per qualche minuto se necessario”. L’importante è sapersi gestire e non scoraggiarsi: “Se un passaggio della versione risulta poco chiaro, si va avanti: può essere il testo stesso a dare indicazioni per sciogliere il modo lasciato in precedenza”.

    Maturità, i trucchi per l’orale. I consigli dell’esperta: “Spalle aperte, sguardo al prof. E mai fare scena muta”

    di Luigi Gaetani

    15 Giugno 2024

    Usare il dizionario
    Infine – ma qui il consiglio è più per i giorni precedenti che per la mattina della prova – è fondamentale “riprendere confidenza con il dizionario” aggiunge Melissano, sottolineando come oggi gli studenti “trovino più pratico cercare le parole online. Il vocabolario, però, è l’unico strumento che si ha a disposizione durante l’esame: è bene farselo amico”. LEGGI TUTTO

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    L’Italia e gli edifici green: tra falsi miti e realtà

    Quasi la metà di tutta l’energia che consumiamo in un anno in Italia è destinata a soddisfare il fabbisogno degli edifici e, per la maggior parte, di quelli a uso residenziale. Questi consumi, in primo luogo di gas naturale ed energia elettrica, sono responsabili ogni anno dell’emissione in atmosfera di circa 110-120 milioni di tonnellate di gas a effetto serra, tra il 25 e il 30% delle emissioni nazionale, secondi solo al comparto industriale. Sappiamo che, per rispettare gli impegni presi con l’Accordo di Parigi e tentare di limitare il riscaldamento globale a non più di 1,5-2 °C rispetto al periodo pre-industriale, da qui al 2050 il fabbisogno di energia di tutti gli edifici italiani dovrà essere soddisfatto senza generare più emissioni di gas serra. Per fare questo la strada è una sola: azzerare il consumo di combustibili fossili, puntando su rinnovabili ed elettrificazione e, ovviamente, riducendo quanto più possibile il fabbisogno energetico attraverso interventi di efficientamento. Va osservato, peraltro, come quello degli edifici sia un settore su cui è relativamente facile intervenire, se paragonato ad esempio ai trasporti, ad alcuni settori industriali o alla stessa produzione alimentare.

    Per arrivare in circa 25 anni ad avere un parco edilizio a zero emissioni è necessario trasformare radicalmente e con estrema rapidità le case in cui viviamo. La buona notizia è che in questo specifico caso abbiamo già a portata di mano tutte le soluzioni che ci servono e dobbiamo “solamente” trovare il modo migliore per metterle a terra nei tempi dati. Già da alcuni anni l’Agenzia Internazionale dell’Energia ha elaborato una roadmap per decarbonizzare il settore energetico a livello globale. Partendo dalla fine, cioè l’obiettivo di arrivare a zero emissioni nette entro metà del secolo, ha ricostruito a marcia indietro quasi 400 milestone, ossia quelle tappe che dovremmo rispettare per non fallire. Tra queste, ad esempio, c’è quella di vietare la vendita di nuove caldaie a gas a partire dal 2025, oppure che i nuovi edifici siano tutti a “zero-carbon-ready” (cioè a emissioni zero o comunque pronti a diventarlo grazie all’elettrificazione) dal 2030 o, ancora, che almeno la metà di tutti gli edifici esistenti siano già stati riqualificati e trasformati in “zero-carbon-ready”.

    In Italia ci sono circa 30 milioni di abitazioni a uso residenziale, di cui realmente occupate circa 25 milioni. Per trasformale in abitazioni a zero emissioni abbiamo davanti 25 anni, quindi il conto è presto fatto: dovremmo varare da subito un piano straordinario per riqualificare circa un milione di abitazioni all’anno, tutti gli anni da qui fino al 2050. In media le abitazioni sottoposte a qualche forma di ristrutturazione in Italia in un anno sono tra 200 e 300 mila. In un report pubblicato da Italy for Climate ad aprile, è stato stimato che nel 2022 e 2023 solo con il Superbonus del 110% dovremmo essere arrivati a circa 700 mila abitazioni riqualificate all’anno. Ci siamo, quindi, avvicinati all’obiettivo quantitativo ma di certo non siamo neanche lontanamente vicini a quello qualitativo, cioè di fare di queste 700 mila abitazioni riqualificate in un anno abitazioni “zero-carbon-ready”.

    In questi mesi si è parlato e scritto molto in tema di case green e, come purtroppo spesso accade, il dibattito pubblico è stato fuorviato da una serie di quelli che abbiamo chiamato “falsi miti”, vuoi per ignoranza o vuoi per interesse. Uno di questi è che la nuova direttiva europea sulle prestazioni energetiche degli edifici sia eccessivamente ambiziosa e ci richieda sforzi che in realtà non dovremmo fare. La verità è che, rispetto al piano straordinario per la riqualificazione degli edifici che dovremmo mettere in campo e marciante già a regime da qui all’anno prossimo, la norma in discussione è, al contrario, troppo blanda e insufficiente a farci rispettare gli impegni che, come Paese, abbiamo sottoscritto a Parigi nel 2015 e che, ad oggi, nessuno ha revocato. Un altro falso mito che spesso risuona nel dibattito è quello che fa dell’Italia un Paese virtuoso proprio in termini di efficienza energetica degli edifici residenziali. A livello europeo da alcuni anni è stato lanciato il progetto Odyssee-Mure che ha proprio l’obiettivo di monitorare e confrontare le performance in materia di efficienza energetica dei 27 Stati membri dell’Unione. Confrontando il consumo di una abitazione media a parità di condizioni climatiche, con 1,75 tep all’anno l’Italia presenta consumi del 30% superiori alla media europea ed è quintultima in una classifica a 27. Ma fa ancora peggio se andiamo ad analizzare il trend degli ultimi anni: dal 2000 al 2021 le abitazioni in Italia in media hanno conseguito un risparmio energetico inferiore al 15%, ossia meno della metà della media europea, valore che posiziona il nostro Paese nella non invidiabile posizione di terzultimo su 27 (peggio di noi fanno solo Cipro e Bulgaria).

    Purtroppo, anche in questo caso i falsi miti sull’edilizia hanno spesso raggiunto il risultato forse sperato da qualcuno, quello di aver sviato il dibattito e di aver fornito a chi lo desidera degli alibi apparentemente solidi per fermare o rallentare il processo di trasformazione già in corso. Evitando di entrare in un confronto di merito sugli strumenti e le misure da mettere in campo e anche su come cogliere le enormi opportunità in primo luogo economiche e occupazionali che la transizione energetica potrebbe garantire a un comparto importante come quello edilizio.

    (L’autore è coordinatore di Italy for Climate) LEGGI TUTTO

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    Approvata a sorpresa la Nature Restoration Law. Esultano gli ambientalisti

    Un passo avanti storico per la natura d’Europa. La Nature Restoration Law, la legge che punta a imporre agli stati membri di stabilire e attuare misure per ripristinare almeno il 20% delle aree terrestri e marine dell’Ue entro il 2030, è passata “a sorpresa” durante la riunione del Consiglio a Lussemburgo. Si tratta di un risultato per nulla scontato, che ambientalisti, scienziati, verdi e associazioni in difesa della natura aspettavano da tempo, ma che per mesi è stato ostaggio del tira e molla o dell’atteggiamento denigratorio di alcuni Paesi, fra cui soprattutto l’Italia, Svezia, Finlandia, Ungheria o Olanda che si opponevano al passaggio della legge temendo ripercussioni economiche per il mondo agricolo. Per questo, anche nell’ultimo voto, questi paesi si sono schierati contro l’approvazione. Una opposizione che finora non aveva permesso di oltrepassare il 65% dei consensi necessari per approvare la legge: grazie all’Austria però, che dopo una iniziale contrarietà ha cambiato posizione all’ultimo minuto, la legge ha ottenuto il 66% dei sì ed è passata. Il regolamento sarà ora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’UE ed entrerà in vigore tra poche settimane.

     

    Ambiente

    La legge sul ripristino della natura fa un altro passo nell’Ue. Italia contraria

    di Cristina Nadotti

    29 Novembre 2023

     La Nature Restoration Law era una delle principali iniziative in bilico, all’interno del Green Deal, su cui non si era arrivati a un ok definitivo prima del voto dell’8-9 giugno delle Europee. Per questo in molti fra gli addetti ai lavori temevano per un dietrofront sull’iter della legge. Lo stallo si è risolto però grazie al cambio di posizione dell’Austria che ha aperto la strada all’approvazione e anche la Slovacchia, inizialmente incerta, ha sostenuto la legge durante il voto cruciale e ha contribuito ad arrivare alla maggioranza qualificata. Il testo finale esce comunque annacquato rispetto ad alcuni vincoli ipotizzati inizialmente, garantendo ad esempio in casi “eccezionali” una sorta di freno alle politiche di tutela dei suoli, garantendo così un appiglio per il settore agricolo. La legge, ricorda il Consiglio, “stabilisce obiettivi e obblighi specifici e giuridicamente vincolanti per il ripristino della natura in ciascuno degli ecosistemi elencati, da quelli terrestri a quelli marini, d’acqua dolce e urbani”. Lo scopo è affrontare in maniera diretta il ripristino degli ecosistemi e contemporaneamente combattere la crisi del clima e lavorare, con politiche di mitigazione e adattamento, relativamente agli effetti dei disastri naturali che minano i nostri territori e la sicurezza alimentare.

     Come ha detto Alain Maron, ministro della transizione climatica e dell’ambiente belga, “non c’è tempo per una pausa nella protezione del nostro ambiente. Oggi il Consiglio dell’Ue sceglie di ripristinare la natura in Europa, proteggendo così la sua biodiversità e l’ambiente di vita dei cittadini europei. È nostro dovere rispondere all’urgenza del collasso della biodiversità in Europa, ma anche consentire all’Unione europea di rispettare i suoi impegni internazionali. La delegazione europea potrà presentarsi alla prossima COP a testa alta”. Nel dettaglio il regolamento impone agli Stati membri di stabilire e attuare misure per ripristinare almeno il 20% delle aree terrestri e marittime dell’UE entro il 2030 e interessa ecosistemi terrestri, costieri e d’acqua dolce, forestali, agricoli e urbani, comprese le zone umide, le praterie, le foreste, i fiumi e i laghi, “nonché gli ecosistemi marini, comprese le fanerogame marine e i letti di spugne ei coralli”. Per quanto riguarda gli habitat ritenuti in “cattive condizioni” gli Stati membri dovranno attuare misure per ripristinarne “almeno il 30% entro il 2030, almeno il 60% entro il 2040 e almeno il 90% entro il 2050”.

    Le idee

    Green Deal a rischio? Racconto di una settimana difficile per la Natura europea

    di Dante Caserta*

    27 Novembre 2023

    Non solo: nella Nature Restoration Law sono inclusi ad esempio sforzi per aiutare gli impollinatori entro il 2030, ma anche per ripristinare le torbiere e piantare alberi, oppure “per trasformare almeno 25.000 km di fiumi in fiumi a corso libero entro il 2030” con l’obiettivo di “rimuovere le barriere artificiali alla connettività delle acque superficiali”. Ogni stato dovrà “pianificare in anticipo e presentare alla Commissione piani nazionali di ripristino, mostrando come raggiungeranno gli obiettivi.  Devono inoltre monitorare e riferire sui propri progressi, sulla base di indicatori di biodiversità a livello dell’Ue”. Dopo l’entrata in vigore, entro il 2033 la Commissione esaminerà poi l’applicazione del regolamento e i suoi impatti sui settori agricolo, della pesca e forestale, “nonché i suoi effetti socio-economici più ampi” fanno sapere dal Consiglio. Esultano dunque tutte le associazioni ambientaliste che attendevano questo voto storico da tempo perché, come sintetizza il Wwf Europa, per loro si tratta di una “enorme vittoria per la natura d’Europa, per i cittadini e per le economie”. LEGGI TUTTO

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    Desertificazione e siccità mettono a rischio le colture tradizionali italiane

    Nella Giornata mondiale contro la desertificazione Greenpeace pubblica un rapporto, elaborato su dati Istat commentati dall’Associazione Italiana di Agroecologia sugli effetti che la tropicalizzazione del nostro clima ha sul suolo. Secondo il rapporto, fa sempre più caldo al Nord e la siccità determina un suolo mediamente più povero d’acqua in tutte le regioni italiane. In particolar modo al Sud, la carenza d’acqua mette a rischio coltivazioni tradizionali e fulcro della dieta mediterranea come quelle dell’ulivo, degli agrumi e del grano duro.

    È il Settentrione a registrare inverni più caldi (comuni però a tutte le regioni), con maggiori anomalie in termini di precipitazioni: “negli ultimi 40 anni, a livello nazionale, l’incremento della temperatura media invernale (gennaio-marzo) è stato di quasi 1,5°C, con punte di quasi 2°C nel Nord Ovest e oltre 1,5°C nel Nord Est. I maggiori aumenti si sono registrati in Valle d’Aosta, Piemonte e Lombardia. In soli due mesi dell’inverno 2024 sull’Italia del Nord è caduta circa la stessa quantità d’acqua piovuta in tutti e tre gli inverni precedenti”, si legge nel testo.

    A temperature più elevate si abbinano meno precipitazione: “Nel resto del Paese, invece,  – scrive ancora Greenpeace – negli inverni 2021-2024 si è registrata una generale riduzione delle precipitazioni cumulate rispetto alla media del trentennio 1981-2010: una variazione che è più ampia al Sud (-2,3%) e nelle Isole (-5,7%), dove incide su aree già caratterizzate da piogge più scarse che altrove. In tutta la Penisola, il 2022 è stato l’anno più siccitoso, con il Nord-ovest che ha visto le piogge ridursi del 64%”. LEGGI TUTTO

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    Creme solari e farmaci, più inquinanti nell’Artico che al Sud

    L’importanza e la vulnerabilità dell’Artico nel quadro globale dei cambiamenti in atto con la crisi climatica è ormai nota. Gli studi più recenti confermano che alcune previsioni sul modo in cui il cambio climatico influenza le fonti, il trasporto e la destinazione finale degli inquinanti organici persistenti (POP) in Artico si stanno effettivamente verificando. Molto si è parlato di recente della concentrazione di microplastiche, insieme a contaminanti provenienti dalle aree urbanizzate e industriali, che sono trasportati in Artico dalle circolazioni atmosferiche.

    I maggiori contaminanti, appunto, sono di origine industriale e sono costituiti da particelle di carbone, idrocarburi, solfati e metalli pesanti. La deposizione di tali particelle sulla neve ne provoca il più rapido discioglimento. I metalli pesanti – soprattutto mercurio, cromo, nichel, piombo, vanadio e cadmio – depositati sulla banchisa e sulla superficie del mare, sono assimilati dal fitoplancton e si accumulano negli organismi attraverso la catena alimentare. Di recente tuttavia, la ricerca ha portato all’individuazione di nuovi contaminanti emergenti. Negli ultimi anni ci si è concentrati infatti anche sul ruolo dell’insieme di residui degli impianti di trattamento delle acque reflue (WWTP), compresi i prodotti farmaceutici e per la cura della persona (PPCP) come principale fonte di diffusione di contaminanti emergenti negli ecosistemi naturali. Alcuni studi ad opera dell’Istituto di Scienze polari del Cnr e dell’Università Ca’ Foscari di Venezia rappresentano il fulcro di questo ambito di ricerca e se ne parlerà all’International summer school della Società italiana di aerosol, in collaborazione appunto con Cnr-Isp e Ca’ Foscari Venezia, da oggi al 21 giugno al Campus Scientifico dell’Università.

     

    Residui dei farmaci maggiori nell’Artico che nelle zone di origine

    È il caso  In un recente articolo pubblicato su Science of the total environment a firma di Jasmin Rauseo, Francesca Spataro, Tanita Pescatore e Luisa Patrolecco dell’Istituto di Scienze polari del Cnr, in cui si dimostra che le concentrazioni di contaminanti da acque reflue individuati nell’Artico sono spesso in linea o superiori a quelle riportate per le regioni antropizzate alle medie latitudini del globo. I risultati ottenuti dello studio forniscono la prima evidenza della presenza, delle quantità e della distribuzione spazio-temporale di nove (CIP, ASP, CFF, TCL, IBU, DEET, PAR, E1, EE2) dei sedici prodotti farmaceutici e per la cura della persona (PPCP) analizzati nei sedimenti marini superficiali di un fiordo artico, Kongsfjorden, nelle norvegesi Isole Svalbard. Il campionamento è stato effettuato alla fine dell’estate, quando si verificano elevati tassi di sedimentazione, e nell’arco di 5 anni (2018-2022).

    Campionamento sedimento nel Kongsfjorden, Isole Svalbard. Foto Rauseo  LEGGI TUTTO

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    Il presidente di COP15: “Nessun Paese è immune da siccità e degrado del suolo”

    “Per troppo tempo, la desertificazione e la siccità sono state considerate un problema specifico dei Paesi del Sud. Eppure questi fenomeni si stanno diffondendo in tutto il mondo e riguardano tutti noi”. Alain Richard Donwahi, presidente della 15a sessione della Conferenza delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione (COP15, che si è tenuta nel maggio 2022 in Costa d’Avorio ) sottolinea più volte nel corso dell’incontro con i media in occasione della Giornata mondiale per la lotta alla desertificazione e alla siccità che non c’è tempo da perdere e che nessun Paese può ritenersi escluso dai rischi di un suolo sempre più impoverito e sempre più arido. 

    “Quest’anno è stato segnato da troppi avvenimenti che ci ricordano l’urgente necessità di agire – afferma – La COP16, in programma il prossimo dicembre in Arabia Saudita, deve essere l’occasione per organizzarci per lottare insieme contro la desertificazione e le sue conseguenze. Il degrado del terreno nelle aree aride, semi-aride e sub-umide secche derivante da vari fattori, tra cui le variazioni climatiche e le attività umane e la siccità sono in aumento e colpiscono quasi tutte le aree geografiche”. Donwahi illustra i numeri da cui partire per mettere in campo soluzioni urgenti per combattere quella che definisce “una delle questioni ambientali più importanti del nostro tempo”. “Sono 168 i Paesi colpiti da desertificazione o siccità – elenca il presidente di COP15 – Dal 20 al 40% del volume totale di terreni si è degradato con il 40% della popolazione mondiale che vive in terre degradate. La siccità è il 2° disastro naturale che colpisce il maggior numero di persone (dopo le inondazioni) e un terzo della popolazione mondiale è già alle prese con lo stress idrico. Tra il 1900 e il 2019, 11,7 milioni di decessi sono stati causati dalla siccità e il 10% del Pil attuale nel mondo viene perso ogni anno a causa della desertificazione”.

    I dati

    Siccità: in Italia abbiamo perso il 30% della risorsa idrica in 30 anni

    a cura di redazione Green&Blue

    16 Giugno 2023

    Se lo sguardo al passato e allo stato attuale fa paura, le previsioni sono ancor più spaventose. “Le inondazioni sono state il 29% in più dal 2000, con 12 milioni di ettari produttivi degradati in più ogni anno – continua Donwahi – si prevede che 190 Paesi saranno colpiti dalla siccità nei prossimi decenni e più di tre quarti della popolazione mondiale saranno colpiti dalla desertificazione entro il 2050. Entro il 2100 le perdite agricole ed economiche dovute a desertificazione e siccità saranno quituplicate e fino al 70% della popolazione mondiale vivrà in aree con scarsità d’acqua entro il 2050”.

    Così come accade in generale per  la crisi climatica, desertificazione e siccità non colpiranno tutta la popolazione mondiale in eguale misura e saranno strati della società più deboli a subire le conseguenze peggiori. “Questi fenomeni indeboliscono le popolazioni più vulnerabili – dice il presidente di COP15 – Il 72% delle donne e il 9% delle bambine sono responsabili della raccolta dell’acqua nelle zone aride e le donne rappresentano il 50% dei lavoratori agricoli nei Paesi in via di sviluppo. Producono dal 60 all’80% del cibo coltivato in queste regioni eppure meno di un quinto della terra appartiene a loro”. L’ultimo dato fornito è il più impressionante: “Oltre 200 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare entro il 2050 a causa di siccità, scarsità d’acqua e calo della produttività delle colture”.

    Quasi a conclusione del suo mandato Donwahi illustra poi quanto fatto e quanto dovrà essere implementato. “Molte iniziative stanno emergendo a livello internazionale, regionale, nazionale e locale – dice – per proteggere il territorio attraverso una migliore gestione e pratiche più sostenibili, per ripristinare le aree degradate per evitare la desertificazione e per combattere il cambiamento climatico e l’aumento delle temperature, evitando così che le conseguenze di siccità e desertificazione peggiorino ulteriormente”. Il presidente sottolinea soprattutto il progetto del “Green wall” africano, una “grande muraglia verde nell’Africa sub-sahariana per la creazione di 153 milioni di ettari di foresta che vanno dal Senegal alla Somalia e il progetto per piantare 50 milioni di alberi e ripristinare 200milioni di terreni degradati in Medio Oriente.

    Il progetto

    Un muro verde per fermare il deserto e dare più diritti alle donne

    di Giacomo Talignani

    17 Giugno 2023

    Donwahi sottolinea però che per il primo progetto non sono arrivati tutti i finanziamenti promessi, anche perché se finanziamenti ci sono stati non erano dedicati in maniera specifica al Green Wall africano, e che mancano dati per verificare se gli alberi piantati stiano crescendo e a che punto sia la realizzazione del piano. “Intendiamo mettere un atto un indicatoire per misurare i progetti e lavorare meglio, ma è vero che alcuni aree dove si era avviata la riforestazione sono state distrutte”, ammette. L’ambizioso progetto, va rimarcato, coinvolge 22 Paesi africani nei quali il livello di trasparenza e le situazioni sociali differiscono grandemente.

    Per passare il testimone all’Arabia Saudita, Donwahi conclude elencando quali sono a suo parere le priorità. ” A livello internazionale, la COP16 sulla  desertificazione, prevista per dicembre, dovrebbe riconoscere la necessità di una valutazione delle condizioni del suolo. Questa valutazione aiuterà a definire una metodologia armonizzata, a stabilire un’ambizione comune e a determinare il ruolo che ogni partecipante può svolgere. Proprio come nel caso della lotta al cambio climatico e alla perdita di biodiversità, un approccio olistico è essenziale. Dobbiamo creare maggiori sinergie tra le tre COP e rafforzare la solidarietà internazionale. I Paesi ricchi dovrebbero sostenere quelli con meno risorse, e i territori meno colpiti possono impegnarsi ad aiutare le regioni più colpite”.

    Il presidente di COP15 punta poi sul coinvolgimento di aziende e privati: “Per le aziende valutare l’impatto delle proprie attività sui terreni è fondamentale. In questo modo, possono identificare misure per mitigare o compensare questo impatto. Fondamentale è provvedere poi perché le aziende contribuiscano alla rivitalizzazione delle zone aride o alla riforestazione dei terreni deforestati”. Infine, le iniziative a livello locale e individuale: “Tutti possono agire – conclude Donwahi – cambiando e adattando le proprie abitudini, usando il potere d’acquisto per sostenere aziende responsabili e penalizzare quelle recalcitranti, incoraggiando i propri rappresentanti politici a fare di più e partecipando in progetti locali per proteggere e utilizzare responsabilmente il territorio. Ogni passo è importante. tutti dobbiamo agire, subito”. LEGGI TUTTO

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    Maggiorana: coltivazione, cura e potatura

    La maggiorana è una pianta perenne aromatica appartenente alla famiglia delle lamiaceae e al genere dell’origanum. Questa piantina, che può raggiungere fino ai 60 centimetri d’altezza, è di origine asiatica anche se oramai è ampiamente diffusa nella zona del Mediterraneo. La sua diffusione ha fatto sì che venga utilizzata ampiamente nella cucina italiana e francese. Oltre a ciò, viene spesso sfruttata per la preparazione di infusi e decotti. La coltivazione della maggiorana, come di molte altre piante aromatiche, è semplice e consente a chiunque di raccogliere sul proprio balcone o giardino foglie fresche da utilizzare per le ricette. 

    L’annaffiatura della maggiorana

    La maggiorana non gradisce annaffiature eccessive e troppo frequenti, proprio come tante altre piante officinali tipiche dell’area mediterranea. Infatti, si contraddistingue anche come pianta in grado di sopravvivere con le sole piogge stagionali. Dunque, se la pianta aromatica è particolarmente sviluppata, l’annaffiatura può essere effettuata solo nei periodi più critici, quando è presente una forte siccità. In vaso, invece, è necessario controllare attentamente che la pianta abbia tutti i nutrienti e l’idratazione corretta: basterà controllare il terreno regolarmente, evitando di lasciarlo troppo bagnato. 

    L’esposizione migliore per la maggiorana

    Trattandosi di una pianta che ama il clima mediterraneo mite, la maggiorana ama posizioni ben soleggiate. Proprio per questo, è importante selezionare delle aree del giardino dove il sole sia garantito, anche nelle ore più calde della giornata. Nell’Italia del nord è necessario proteggere la pianta durante la stagione invernale, poiché nonostante sia esposta in pieno sole, le temperature troppo rigide potrebbero metterla a dura prova.

    La coltivazione della maggiorana

    La coltivazione della maggiorana, come già detto, non è difficile. Il momento migliore per occuparsi della semina di questa pianta aromatica è ad inizio primavera. Nel semenzaio si possono anche sistemare i semi a partire dal mese di febbraio. Non appena le piantine aromatiche raggiungono i 6-8 centimetri di altezza è possibile procedere con il trapianto in piena terra o in vaso. A questo punto, è possibile iniziare a prendersi cura della coltivazione della pianta, adeguando i propri interventi a seconda del clima e della temperatura in cui si trova. È possibile anche propagare la piantina con la tecnica della talea: basta semplicemente tagliare un ramo senza fiori della lunghezza di circa 10 centimetri, durante il mese di giugno, per poi far radicare la pianta in terriccio arricchito con humus di elevata qualità. In questa maniera, si possono ottenere più piante di maggiorana con cui adornare il proprio giardino o la balconata.

    La cura e potatura della maggiorana

    Per prendersi adeguatamente cura della maggiorana è fondamentale anche occuparsi della potatura. Ogni anno, in autunno, si possono accorciare i rami della pianta. Grazie a questa cura si può mantenere sotto controllo la dimensione dell’arbusto, ottenendo anche rametti giovani, ricchi di foglioline. Durante i mesi invernali, specie per le aree più fredde, è utile preparare una pacciamatura: in questo modo, si evita di far gelare il terreno e danneggiare le radici.

    Le malattie e gli insetti dannosi per la maggiorana

    La maggiorana essendo una pianta aromatica infastidisce la maggior parte degli insetti. Le cicaline e le larve minatrici possono comprometterne l’aspetto, facendo ingiallire e seccare le foglie. Ad ogni modo, la maggiorana è una di quelle piante che si possono inserire con estrema facilità all’interno degli orti biologici, proprio perché è raramente attaccata da parassiti.

    Proprio come tante altre piante, la maggiorana teme il marciume radicale, ma anche muffe e funghi (ruggine e oidio) che possono far morire la pianta. LEGGI TUTTO