Giugno 2024

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    Le microplastiche sono ovunque: trovate anche nell’olio

    Un nemico invisibile ha invaso ormai ogni angolo del pianeta, dall’Artico fino all’Himalaya. Sono le microplastiche, ovvero quelle particelle di materiale plastico con dimensioni comprese tra 5 mm e 0,1 µm. Ci sono poi le nanoplastiche, particelle ancora più piccole (tra 0,1 e 0,001 µm) e per questo ancora più sfuggenti. Oltre all’inquinamento ambientale, a destare preoccupazione sono i danni che le microplastiche possono arrecare alla salute umana: sono state trovate perfino nella placenta e nei testicoli. Un nuovo studio condotto dall’Università di Bologna, pubblicato sulla rivista scientifica Food Chemistry, ha indagato per la prima volta la presenza di microplastiche in diversi oli vegetali – olio extravergine di oliva, olio d’oliva, olio di semi di girasole e olio di semi vari – attualmente in commercio in Italia e in Spagna ed è arrivato a una sconfortante (o forse è meglio dire scontata) conclusione: le microplastiche non risparmiano neanche l’olio.

    “L’interesse per l’olio è nato da una collaborazione con un gruppo di colleghi spagnoli. Stiamo parlando comunque di un prodotto alimentare, in particolare l’olio extravergine di oliva, molto diffuso in Italia e nella penisola iberica e considerato il simbolo della dieta mediterranea”, dice Maurizio Fiorini, professore associato del Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali – DICAM dell’Università di Bologna e co-autore dello studio. 

    Salute

    Micro e nanoplastiche nel suolo alterano radici e foglie delle piante di lattuga

    di Sara Carmignani

    17 Maggio 2024

    I risultati dello studio

    Per analizzare i campioni di olio i ricercatori si sono avvalsi di una strumentazione all’avanguardia. “In estrema sintesi e semplificando, abbiamo fatto passare l’olio attraverso un particolare filtro con dei pori del diametro di 5 µm in grado di trattenere le microplastiche. Abbiamo poi utilizzato una tecnica spettroscopica che ci ha permesso non solo di rilevare la quantità di microplastiche, ma anche di caratterizzare i polimeri con precisione”, spiega il professor Fiorini. “Sempre applicando questa metodologia, abbiamo in cantiere altri studi relativi alla presenza di microplastiche nel cioccolato e nel caffè”.La maggior parte delle microplastiche osservate era costituita da frammenti (81,2%), con particelle di dimensione inferiore a 100 µm (77,5%), principalmente composti da polietilene (50,3%) e polipropilene (28,7%). In minore misura sono state trovate tracce di polietilene tereftalato (più noto con la sigla PET, ossia il materiale plastico con cui si realizzano la maggior parte delle bottiglie di acqua minerale, per intenderci), poliammide e politetrafluoroetilene (PTFE). I ricercatori hanno anche formulato delle ipotesi sull’origine della contaminazione, dal momento che le microplastiche sono state trovate nei campioni di olio contenuti sia in bottiglie di vetro sia in quelle di plastica. “Le microplastiche potrebbero essersi generate non tanto dal contatto con il contenitore, ma piuttosto durante le operazioni di spremitura nell’impianto di produzione: in questa fase l’olio può passare da parti meccaniche e venire a contatto con delle componenti in materiale plastico”, aggiunge Fiorini.

    Quale limite per le microplastiche?

    Dallo studio emerge che nell’analisi dei campioni di olio è stata trovata un’abbondanza media di microplastiche di 1140 x 350 MP/L. Sono livelli preoccupanti? A questa domanda è difficile al momento dare una risposta. L’impatto delle microplastiche sulla salute umana è infatti ancora oggetto di studi e ricerche. Lo scorso marzo la Commissione europea ha pubblicato la decisione delegata 2024/1441 che integra la direttiva 2020/2184, volta a stabilire una metodologia per misurare le microplastiche nelle acque destinate al consumo umano. In questo documento si ribadisce che “i dati attualmente disponibili offrono prove scientifiche conclusive limitate circa gli effetti negativi delle microplastiche sulla salute umana, e ciò a causa dei notevoli limiti delle informazioni disponibili sugli effetti biologici delle microplastiche e sull’esposizione alle stesse”. L’obiettivo principale di Bruxelles è quello di aiutare gli Stati membri a raccogliere informazioni in maniera standardizzata sulla presenza delle microplastiche nell’acqua, facilitando l’interpretazione e il confronto dei risultati a livello europeo.

    Inquinamento

    Le microplastiche portate da fiumi e piogge contaminano anche i siti archeologici

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    12 Aprile 2024

    “Lo sviluppo di metodologie analitiche robuste che individuino con precisione le microplastiche, differenziandole da altre particelle inorganiche, è un aspetto molto importante della ricerca, perché altrimenti si rischia di alterare i numeri e creare allarmismo”, sottolinea il professore dell’Università di Bologna. “Per quanto riguarda l’acqua, sono stati stabiliti dei valori limite precisi per l’arsenico, il piombo, il nichel eccetera. Per le microplastiche ancora no: medici e chimici devono approfondire insieme questo tema, che è fortemente sentito”. Ma perché alla fine dall’olio siamo passati all’acqua? Perché sicuramente un essere umano fa un consumo maggiore della seconda rispetto al primo e “bisognerà partire per forza dall’acqua quando si tratterà di stabilire dei limiti per le concentrazioni di microplastiche”, conclude Fiorini. LEGGI TUTTO

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    Il Premio Ischia per la comunicazione sostenibile a Riccardo Luna, direttore di Green&Blue

    Green&Blue festeggia per il Premio Ischia per la comunicazione sostenibile. Il riconoscimento sarà assegnato al direttore Riccardo Luna, editorialista di Repubblica e del gruppo Gedi, esperto di green e digitale, perché “attraverso una continua attività di approfondimento e divulgazione – si legge nella motivazione – ha contribuito a sensibilizzare opinione pubblica e policy maker sulle […] LEGGI TUTTO

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    La ministra austriaca che ha salvato la natura in Europa, ed ora rischia una denuncia

    La donna che ha “salvato” (almeno sulla carta) la natura europea si chiama Leonore Gewessler, ha 47 anni ed è cresciuta nella regione austriaca della Stiria. Lunedì scorso, nella sua veste di ministra per la Protezione del clima, l’ambiente, l’energia, la mobilità, l’innovazione e la tecnologia del governo federale di Vienna, ha dato parere favorevole (e decisivo) alla Nature Restoration Law. Disobbedendo al suo “capo”, il cancelliere austriaco Karl Nehammer che invece voleva l’astensione. Senza il voto di Gewessler, la Legge sul ripristino della natura non sarebbe passata, perché non avrebbe raggiunto il consenso di Paesi rappresentanti almeno il 65% della popolazione europea. La ministra verde lo sapeva e si è comportata di conseguenza.

    Travolta dalle polemiche in patria, ha detto di aver fatto una scelta di coscienza: “Tra 20 o 30 anni, quando parlerò con le mie due nipoti e mostrerò loro la bellezza del nostro Paese e di questo continente, e loro mi chiederanno: ‘Cosa hai fatto quando era in gioco tutto?’ Voglio poter dire loro: ‘Ho fatto tutto il possibile'”. C’è chi però ipotizza che la scelta di Leonore Gewessler sia più frutto di un preciso calcolo politico a breve termine che di grandi ideali, come riporta il sito Politico: “Rischiava comunque di perdere presto il lavoro, con le elezioni nazionali all’orizzonte, e aveva già detto che si sarebbe candidata al Parlamento. Quale modo migliore per lanciare una campagna?”.

    Unione europea

    Approvata a sorpresa la Nature Restoration Law. Esultano gli ambientalisti

    di Giacomo Talignani

    17 Giugno 2024

    Resta il fatto che la sua disobbedienza agli ordini di scuderia rimarrà nella storia europea: la Nature Restoration Law è passata in extremis, con il Parlamento europeo appena rinnovato, la nuova Commissione tutta da costruire e molti dubbi sulla reale capacità di Bruxelles di spingere nei prossimi anni le politiche green come è stato fatto nell’ultima legislatura. E invece ai tempi supplementari è passato anche l’ultimo tassello di quel Green deal tanto demonizzato in campagna elettorale dai partiti di destra. Alla fine, nonostante la guerra alle politiche ambientali dell’Unione proclamata anche del governo guidato da Giorgia Meloni, l’unico regolamento bocciato è stato quello sui pesticidi. E il merito è appunto di questa donna austriaca, laureata in scienze politiche, dal 2014 al 2019 capo di Global 2000, la principale charity ambientale austriaca, e ministra dal 2020 per il partito dei Verdi. L’anno successivo, per dare il buon esempio, raggiunse in treno Glasgow dove si teneva la Cop26 (27 ore di viaggio da Vienna), come capo della delegazione austriaca. Ma viene ricordata anche per aver criticato gli attivisti che nel novembre del 2022 si incollarono a uno scheletro di dinosauro al museo di storia naturale di Vienna per chiedere la fine dell’utilizzo dei combustibili fossili in Austria. “E’ importante non perdere le persone sulla strada della soluzione. Sono un ministro, e in questa posizione non voglio dire alla società civile quali forme di azione scegliere”, disse all’epoca Gewessler. “Io nel mio periodo di lavoro nella società civile ho scelto altre forme di protesta”.

    La più dirompente tra le forme di protesta l’ha però messa in atto proprio lunedì scorso. La sera prima ha convocato una conferenza stampa a sorpresa per annunciare la sua decisione, sapendo che avrebbe scatenato una tempesta politica e avrebbe potuto persino metterla nei guai legali. E infatti, pochi minuti dopo l’approvazione della legge, il Cancelliere austriaco ha presentato un ricorso alla Corte di giustizia della Ue, chiedendo l’annullamento del voto. Ha anche presentato una denuncia contro Gewessler personalmente, sostenendo che aveva abusato del potere del suo ufficio e violato la Costituzione del Paese. “Non sono preoccupata. Prima di decidere ho chiesto una consulenza legale. E ho sempre detto, se c’era un modo legale per dire ‘sì’ a questa legge, l’avrei fatto”, ha spiegato la donna che ha salvato la natura europea. Ministra ancora per poco. LEGGI TUTTO

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    Maturità, come prepararsi al testo di italiano: “Prendetevi il tempo per leggere le tracce, serve a organizzare il pensiero”

    Maturità al via con la prova di italiano. Il toto-tema impazza, ma vale la pena piuttosto, la notte prima dell’esame, leggere i consigli su come impostare il tema, al di là della tipologia che si sceglierà, dal punto di vista della scrittura. Lo abbiamo chiesto a Yahis Martari, docente di Didattica delle lingue moderne all’Università di Bologna.
    Professore, come affrontare lo scritto di italiano?
    “Non è una domanda banale perché, rispetto a due anni fa, si sta facendo largo l’idea che si può far realizzare un testo ben strutturato all’intelligenza artificiale e cioè che non sia più necessaria una competenza di scrittura autonoma. Tanto è vero che chi insegna traduzione in questo momento comincia a interrogarsi sul fatto se sia più utile insegnare traduttodologia in modo tradizionale o a usare bene gli strumenti di traduzione automatica”.
    Però il 19 giugno tocca ai maturandi scrivere.
    “Il problema è proprio questo: domani tocca a loro dimostrare di essere in grado di scrivere. Ci sono alcuni aspetti interessanti per aiutare i ragazzi a realizzare un buon testo scritto. Ma la questione principale è il rapporto tra scrittura e universo digitale. Oggi scriviamo tantissimo, più di quanto facevano i nostri genitori, e lo facciamo in modo informale, spontaneo. Ma quello che si chiede all’esame di Maturità è la capacità di fare uno scritto sorvegliato”.
    Cosa significa?
    “Vuol dire organizzare il testo curandolo negli aspetti strutturali e anche formali, cosa che non siamo abituati a fare nella scrittura quotidiana digitale, su Whatsapp per esempio. Dunque, bisogna allontanarsi dal registro dell’oralità e recuperare regole di formalità e di controllo di un testo che non sono scontate e sono diverse da quelle del parlato ma anche dalla scrittura digitale da chat. Attenzione però, la scrittura sorvegliata non significa una scrittura scolastica che occulta molto spesso l’identità dello scrivente, rendendo stereotipata la voce dello scrivente”.

    Maturità. Che ne sarà di noi

    di Luigi Gaetani, hanno collaborato Sara Bernacchia, Marta Borghese, Claudia Brunetto, Valentina Lupia

    18 Giugno 2024

    Può fare un esempio?
    “Io eviterei formule del tipo: i giovani d’oggi, al giorno d’oggi. Gli studenti non devono prendere le distanze dal testo come se loro non vivessero in questo presente e non fossero i giovani di oggi. Queste formule imitano un adulto che scrive, è un errore da non fare. L’invito è a scrivere con personalità usando strutture e forme discorsive che appartengono al reale patrimonio espressivo degli studenti, premia la personalizzazione di un testo, non la presa di distanza”.
    Altro aspetto da considerare per prepararsi?
    “I ragazzi hanno molte ore a disposizione, dunque la prima cosa da fare è lavorare sulla lettura: leggere bene la traccia, prendersi il tempo necessario per costruire prima un pensiero su quello che poi scriveremo. E’ la famosa scaletta a cui non siamo più abituati perché scriviamo tantissimo tutti i giorni, ma pianifichiamo sempre meno. E’ molto importante quindi la lettura come strumento di pianificazione, gli studenti si devono muovere in maniera un po’ controintuitiva rispetto alla loro abitudine di scrittura molto veloce ed efficace perché imitando contesti dell’oralità punta tutto sulla simultaneità o quasi, sul botta e risposta con l’interlocutore. Ma l’efficacia in questo caso ha un’altra faccia: ci vuole più organizzazione e più cura degli aspetti formali, grafici e ortografici”.

    Il professor Yahis Martari  LEGGI TUTTO

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    Riciclare il polistirolo ora potrebbe essere possibile

    Il polistirene, meglio noto come polistirolo, è un materiale plastico largamente utilizzato negli imballaggi, che presenta non pochi problemi dal punto di vista della sostenibilità ambientale. Come tutti i tipi di plastica, se disperso nell’ambiente impiega moltissimo tempo a degradarsi completamente, producendo piccolissimi frammenti (le famose microplastiche) che possono avere impatti negativi sulle specie selvatiche e anche sulla salute umana. In più, si tratta di un polimero difficile da riciclare, visto che in certe condizioni tende a degradarsi, perdendo le sue proprietà. Ma uno studio pubblicato su Chemical Engineering Journal sembra riaccendere le speranze su quest’ultimo fronte. Gli autori della ricerca propongono infatti un processo di riciclo del polistirene che prevede una resa finale del 60%, a fronte del 5% circa che viene attualmente riciclato.

    Il processo proposto sarebbe energeticamente favorevole, nel senso che, in base ai calcoli effettuati dagli autori della ricerca, l’energia necessaria per portarlo a termine risulta essere inferiore rispetto al cosiddetto “potere calorifico superiore” contenuto nei legami chimici del polistirene – ossia all’energia ricavabile dalla sua completa combustione. Entrando più nel dettaglio, il processo prevede due fasi. La prima è la pirolisi, durante la quale il polistirene deve essere scaldato a temperature altissime (circa 450 gradi centigradi) in assenza di ossigeno, al fine di determinare la sua “frammentazione” nei monomeri di cui è costituito. La seconda fase serve invece a separare i monomeri di stirene ottenuti attraverso la pirolisi dai sottoprodotti di reazione. Affinché lo stirene monomerico possa essere utilizzato come materiale di partenza per la sintesi di polistirene (cioè del corrispondente polimero) la sua purezza deve infatti essere superiore al 99%.

    Inquinamento

    Microplastiche e polistirolo, cibo per pesci e molluschi alla foce del Tevere

    di Paolo Travisi

    11 Marzo 2024

    Come anticipato, il processo proposto dal gruppo di ricercatori è risultato essere piuttosto efficiente dal punto di vista energetico: per ottenere un chilogrammo di monomeri di stirene servono circa 10 megajoule di energia, che corrispondono a meno di un quarto del potere calorifico superiore del polistirene (cioè all’energia ricavabile dalla sua completa combustione). Per quanto riguarda la resa complessiva, i risultati indicano il 60%, il che significa che a partire da un chilogrammo di polistirene è possibile ottenere 600 grammi di monomeri di stirene a un grado di purezza sufficiente affinché possano essere utilizzati come materiale di partenza per la sintesi di “nuovo” polistirene.

    Un possibile caveat sta nel fatto che i calcoli si basano sull’assunzione che il polistirene di partenza sia sufficientemente puro, cioè che non sia contaminato da altri tipi di plastica o materiali di altro genere. Secondo gli autori, comunque, si tratta di un requisito non troppo difficile da ottenere, e l’eventuale separazione del polistirene da altri materiali plastici richiederebbe una quantità di energia trascurabile rispetto all’intero processo di riciclo preso in considerazione. Infine, bisogna tenere presente che i risultati dello studio si basano su calcoli e modelli, che, per quanto sofisticati possano essere ,sono intrinsecamente collegati a un certo grado di incertezza. Anche in questo caso, comunque, gli autori dello studio sostengono che tutte le fasi del processo analizzato prevedono l’impiego di tecniche e strumenti noti e già ampiamente utilizzati, oltre ad essere teoricamente scalabili a livello industriale. LEGGI TUTTO

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    Maturità, 10 verità scientifiche utili per un tema sul cambiamento climatico

    Come su qualsiasi argomento, anche sulla crisi climatica ciascuno può avere le sue opinioni. Ma i fatti non sono opinabili, ed è sui fatti che vanno costruite le proprie convinzioni. Ecco allora 10 verità “scientifiche” utili per formasi una opinione sul riscaldamento globale. E un consiglio finale.

    In cosa consiste il cambiamento climatico?

    Si tratta di una modifica a lungo termine delle temperature del Pianeta e dei modelli meteorologici. Tali cambiamenti possono anche essere naturali, per esempio se dovuti a mutamenti nell’attività del Sole o a grandi eruzioni vulcaniche. Ma dal 1800, le attività umane sono state il principale motore del cambiamento climatico, principalmente a causa dell’uso di combustibili fossili come carbone, petrolio e gas. La combustione di combustibili fossili genera, infatti, emissioni di gas serra che agiscono come una coperta avvolta attorno alla Terra, intrappolando il calore del Sole e aumentando le temperature.

    Quali sono le cause del cambiamento climatico?

    I principali gas serra che causano il cambiamento climatico includono l’anidride carbonica e il metano. Questi si generano, per esempio, quando si brucia della benzina all’interno del motore di una automobile o del carbone per riscaldare un edificio. Anche il disboscamento dei terreni e l’abbattimento delle foreste possono rilasciare anidride carbonica. L’agricoltura, le attività legate al petrolio e al gas sono le principali fonti di emissioni di metano. Energia, industria, trasporti, edilizia, agricoltura e uso del territorio sono tra i principali settori che causano emissioni di gas serra.

    Come si sta manifestando il cambiamento climatico

    La temperatura media della superficie terrestre è ora circa 1,2°C più calda di quanto lo fosse alla fine del 1800 (prima della rivoluzione industriale e quindi del crescente utilizzo di combustibili fossi per la produzione di energia). E è anche più calda di qualsiasi altro periodo negli ultimi 100.000 anni. L’ultimo decennio (2011-2020) è stato il più caldo mai registrato, e ciascuno degli ultimi quattro decenni è stato più caldo di qualsiasi decennio precedente dal 1850. Il 2023 è stato l’anno più caldo della storia (da quando cioè si effettuano questo tipo di misurazioni). E lo scorso maggio è stato il 12esimo mese consecutivo a battere il record di caldo. Le conseguenze di tali innalzamenti di temperature dell’aria e dei mari includono, tra le altre, intense siccità, scarsità d’acqua, gravi incendi, innalzamento del livello del mare, inondazioni, scioglimento dei ghiacci polari, tempeste catastrofiche e declino della biodiversità.

    Quali sono le previsioni per il futuro?

    Secondo un recentissimo rapporto dell’Organizzazione meteorologica mondiale, c’è l’86% di probabilità che uno degli anni compresi tra il 2024 e il 2028 superi il record del 2023, passando quindi alla storia come il più caldo di sempre. Inoltre, la temperatura media globale vicino alla superficie terrestre, per ciascuno degli anni compresi tra il 2024 e il 2028, supererà di un valore compreso tra 1,1 e 1,9 gradi centigradi la media del periodo 1850-1950. Il livello dei mari continuerà a salire in media di 3 millimetri all’anno. Ed è imminente la scomparsa dei ghiacciai sugli Appennini e sui Pirenei, mentre quelli alpini resisteranno ancora qualche anno.

    Cosa prevedono gli accordi internazionali sul clima?

    Nel 2015 è stato siglato l’Accordo di Parigi, un trattato internazionale giuridicamente vincolante sul cambiamento climatico poi entrato in vigore il 4 novembre 2016. Il suo obiettivo generale è quello di mantenere “l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali” e perseguire gli sforzi “per limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali”. Questo perché il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (Ipcc), sulla base di dati scientifici, ritiene che il superamento della soglia di 1,5°C potrebbe avere impatti molto più gravi sui cambiamenti climatici, tra cui siccità, ondate di caldo e precipitazioni più frequenti e gravi.

    Cosa si può fare?

    Per limitare il riscaldamento a 1,5°C, le emissioni globali di gas serra devono raggiungere il picco prima del 2025, al più tardi, e diminuire del 43% entro il 2030. Tre grandi categorie di azioni sono: riduzione delle emissioni, adattamento agli impatti climatici e finanziamento degli aggiustamenti necessari. Il passaggio dei sistemi energetici dai combustibili fossili alle energie rinnovabili come il solare o l’eolico ridurrà le emissioni che guidano il cambiamento climatico. Occorre infatti ridurre enormemente l’uso di carbone, petrolio e gas: oltre i due terzi delle attuali riserve accertate di combustibili fossili dovranno essere mantenute sottoterra entro il 2050 per prevenire livelli catastrofici di cambiamento climatico.

    Quale nazione è il principale responsabile delle emissioni di gas serra?

    Attualmente la Cina è responsabile di oltre il 30% delle emissioni, contro il quasi 14% degli Stati Uniti. Ma la Cina ha oltre un miliardo e 400 milioni di abitanti: e infatti se si considera la classifica delle emissioni procapite, al primo posto sale l’Arabia Saudita, seguita da Usa, Canada, Australia, Corea del Sud e Giappone. C’è poi una terza classifica: quella delle “emissioni storiche”. Perché ci sono Paesi che, pur emettendo pochi gas serra, lo fanno fin dalla Rivoluzione industriale, altri che hanno iniziato relativamente da poco a bruciare grandissime quantità di combustibili fossili e a consumare suolo per sostenere la loro impetuosa crescita economica. Questa classifica storica (che tiene conto le emissioni complessive nel periodo compreso tra il 1880 e l’inizio degli anni Venti di questo secolo) vede di primeggiare gli Stati Uniti, seguiti da Cina, Russia, Brasile, Indonesia, Germania, India, Regno Unito…

    Cosa sta facendo la comunità internazionale per affrontare il problema?

    Le Nazioni Unite organizzano ogni anno un Conferenza delle parti (Cop) dedicata al clima. Il prossimo novembre Baku, capitale dell’Azerbaigian, ospiterà la 29esima edizione (Cop29). In questi incontri si stipulano accordi per fronteggiare la crisi climatica: l’Accordo di Parigi fu, per esempio, il risultato della Cop21 tenutasi nella capitale francese. I quasi 200 Paesi partecipanti non decidono a maggioranza, ma per consenso: tutti devono essere d’accordo sul testo finale. E questo spiega la difficoltà e la lentezza dei progressi fatti in quasi trent’anni di discussioni. L’ultima conferenza, la Cop28 di Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, è stata per certi versi storica: per la prima volta nel documento finale si è menzionata esplicitamente la necessita di abbandonare gradualmente i combustibili fossili, pur con l’ambigue espressione “transition away”. I Paesi partecipanti si sono inoltre impegnati a triplicare le rinnovabili installate e a duplicare l’efficienza energetica entro il 2030. Dalla Cop29 di Baku ci si aspetta invece una accelerazione sulla finanza climatica, vale a dire sui soldi che i Paesi ricchi (maggiormente responsabili della crisi climatica, per i motivi di cui sopra) dovrebbero mettere a disposizione dei Paesi in via di sviluppo per aiutarli ad abbandonare i combustibili fossili e a contrastare gli effetti del riscaldamento globale.

    Che obiettivi si è data l’Europa?

    Nel 2023, la Ue ha adottato una serie di proposte della Commissione europea per rendere le politiche dell’Unione in materia di clima, energia, trasporti e tassazione idonee a ridurre le emissioni nette di gas serra di almeno il 55% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990. Ciò dovrebbe consentire all’Unione europea di diventare il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050.

    Come soddisfare il fabbisogno di energia riducendo le emissioni?

    Le fonti rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idroelettrico) sono la soluzione ideale: non emettono CO2 e non “consumano” risorse sottraendole alle generazioni future. C’è però chi sostiene che da sole non potranno garantire continuità alla fornitura di energia elettrica necessaria a un Paese industriale: quando non c’è Sole (per esempio di notte) o quando cala il vento, o nei periodi di magra dei fiumi, come si sostituirà l’energia non prodotti da pannelli, pale e dighe? Per alcuni la risposta è nella fissione nucleare, con centrali di nuova generazione capaci di ridurre notevolmente rispetto al passato il rischio di incidenti e di rifiuti radioattivi. Sul fronte opposto chi sostiene che per costruire nuove centrali nucleari occorrono decenni, mentre l’emergenza climatica è adesso e richiede soluzioni immediate. Senza contare che il combustibile fissile (l’uranio) va importato da Paesi non sempre affidabili dal punto di vista geopolitico e che ci sarebbe bisogno di un deposito per le scorie radioattive che ha sempre trovato forte contrarietà da parte dei territori interpellati. La soluzione potrebbe essere la fusione nucleare, la reazione atomica, priva di effetti collaterali radioattivi, che alimenta il Sole e le altre stelle. Ma riprodurre il Sole sulla Terra e riuscire a far fondere uno nell’altro due nuclei di idrogeno è una impresa ai limiti delle Notre attuali capacità tecnologiche, Ma ci sono esperimenti in corso e gli scienziati più ottimisti prevedono di raggiungere l’ambito traguardo entro il prossimo decennio.

    Cosa possono fare i singoli cittadini?

    Ciascuno può fare la sua parte. Nella vita privata, cambiando i propri stili vita e riducendo la propria impronta carbonica (cioè la quantità di emissioni di gas serra rilasciate nell’atmosfera). Questo significa, per esempio, risparmiare energia elettrica, ridurre gli sprechi alimentari, rinunciare a cibi la cui preparazione comporti l’emissione di molta CO2 (è il caso delle carni rosse), preferire il treno all’aereo, acquistare prodotti a chilometri a zero, scegliere capi di abbigliamento durevoli invece della fast fashion che accresce il problema della gestione dei rifiuti tessili. C’è poi il fronte pubblico: ci si può informare ed esercitare pressione sui decisori politici perché mettano la crisi climatica al centro delle loro agende. LEGGI TUTTO