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    “Il mio bisnonno produceva sapone, oggi sviluppiamo materiali naturali dal sughero per case green”

    Sughero. Innovazione. Sostenibilità. Questi tre ingredienti hanno consentito alla marchigiana Diasen di sviluppare biomalte e biopitture a base naturale (e sostenibili) capaci di assicurare efficienza energetica, nonché comfort acustico e termoigrometrico. “Siamo partiti dalle radici mediterranee. Noi siamo a Sassoferrato che duemila anni fa si chiamava Sentinum. E poi abbiamo fatto una crasi con Diathonite, la nostra biomalta a base di sughero, argilla, polveri diatomeiche e calce idraulica naturale. Diasen”, racconta Diego Mingarelli, ceo dell’azienda.

    Economia Circolare

    Lavori green, Realacci: “Le professioni si devono ripensare in modo sostenibile”

    di Luca Fraioli

    05 Marzo 2025

    Negli anni ’20 il bisnonno produceva saponi; cinquant’anni anni dopo il papà rilanciava con i solventi; nel 2000 avviene la riconversione ecologica a favore dell’architettura e l’edilizia. “Siamo partiti con l’intonaco termico e siamo stati pionieri grazie all’impiego di materiali naturali. Non solo. Siamo riusciti a migliorare una formula che consente anche di risanare l’umidità. Ecco perché parliamo di una connessione tra materiali naturali, tecnologie architettoniche mediterranee e il benessere e la salute degli edifici”, sottolinea l’imprenditore.

    (foto: Diasen)  LEGGI TUTTO

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    Lupi, in Europa aumentati del 60% in un decennio: sono 21.500

    Lo studio di un’università svedese conferma il successo dei programmi europei di protezione e conservazione dei lupi, aumentati di quasi il 60 per cento in un decennio. Lo studio è stato coordinato dai ricercatori Cecilia Di Bernardi e Guillaume Chapron dell’Università svedese di scienze agrarie ed è stato pubblicato sulla rivista Plos Sustainability and Trasformation. Secondo la ricerca, nonostante le popolazioni dei grandi carnivori, come la biodiversità in generale, siano in declino in tutto il mondo, le politiche di conservazione che in Europa hanno sostenuto il recupero dei lupi negli ultimi decenni, hanno invece tutelato questa specie.

    Aumentati del 58%
    Per comprendere le tendenze attuali nelle loro popolazioni, i ricercatori hanno raccolto dati sul numero di lupi in 34 paesi in tutta Europa. Hanno così scoperto che nel 2022 i lupi che abitavano in Europa erano almeno 21.500. Secondo l’analisi nel decennio precedente la popolazione stimata era di 12 mila quindi l’aumento è stato del 58 per cento. Le popolazioni di lupi hanno registrato un aumento nella maggior parte dei Paesi presi in esame, tra cui l’Italia, Austria, Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Lituania, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Slovacca, Slovenia, Svezia, Svizzera e la parte europea della Turchia. Il numero di esemplari è invece rimasto sostanzialmente stabile in 8 Paesi (Albania, Croazia, Lussemburgo, Norvegia, Portogallo, Romania, Spagna, Ucraina), ed è diminuito, infine, in Bosnia ed Erzegovina, Montenegro e Macedonia del Nord.

    Biodiversità

    Giornata mondiale della fauna selvatica, Boitani: “Convivere con orsi e lupi si può”

    di Pasquale Raicaldo

    03 Marzo 2025

    Il problema del bestiame
    I ricercatori hanno anche indagato le fonti di conflitto tra esseri umani e lupi, come la morte del bestiame (soprattutto capre e pecore, ma anche cani). Secondo la ricerca dell’università svedese nell’Unione Europea, i lupi uccidono 56 mila animali all’anno, su una popolazione totale di 279 milioni di capi di bestiame. “Sebbene il rischio sia diverso tra i paesi, in media, il bestiame ha una probabilità dello 0,02 per cento di essere ucciso dai lupi. Risarcire gli agricoltori per queste perdite costa ai paesi europei 17 milioni di euro all’anno” hanno spiegato i ricercatori.

    La situazione in Italia
    “Alcuni Paesi, tra cui l’Italia, hanno avuto perdite assolute significativamente maggiori rispetto ad altri, probabilmente legate a diverse pratiche di allevamento e diversi sistemi di compensazione”, si legge nel report. Per quanto riguarda il timore di attacchi alle persone, gli autori sottolineano che quelli segnalati in Italia e Grecia sono stati molto probabilmente da parte di cani, non di lupi. “In alcune popolazioni – si legge nello studio – l’ibridazione con i cani sta diventando una minaccia per la conservazione del lupo con stime segnalate che potrebbero persino includere alcuni ibridi”.
    “Tuttavia, i lupi possono anche avere impatti economici positivi, come la riduzione degli incidenti stradali e dei danni alle piantagioni forestali tramite il controllo delle popolazioni di cervi selvatici”. Anche se non sono disponibili dati sufficienti per quantificare questi benefici.

    Biodiversità

    Più alberi, meno cervi rossi: i benefici del ritorno dei lupi in Scozia

    di redazione Green&Blue

    17 Febbraio 2025

    Una convivenza complessa
    Considerando la popolazione europea e la diffusa alterazione dei paesaggi per l’agricoltura, l’industria e l’urbanizzazione, il rapido recupero dei lupi nell’ultimo decennio “evidenzia la loro straordinaria adattabilità”, spiegano gli autori dello studio che aggiungono “Il recupero dei lupi nei paesaggi dominati dall’uomo in Europa è continuato negli ultimi dieci anni, con la loro popolazione in crescita. Le sfide future includono il problema dei danni causati direttamente dai lupi e le questioni socio-politiche più ampie relative alla conservazione”. Il problema resta aperto: come adattare le politiche nazionali e internazionali per garantire come i lupi e le persone possano coesistere in modo sostenibile? LEGGI TUTTO

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    Eventi estremi e bolle di calore, così la crisi del clima sconvolge la vita di milioni di persone

    Tendiamo a dimenticarcelo, ma i dati ci riportano alla dura realtà. In un contesto geopolitico dove l’attenzione è tutta concentrata sulle guerre e sull’approvvigionamento energetico e dei minerali, mentre il neo presidente Usa Donald Trump sta smantellando ogni politica climatica, le analisi dei dati sugli impatti del surriscaldamento globale ci restituiscono una fotografia durissima di quanto accaduto negli ultimi mesi: solo da dicembre 2024 a febbraio 2025 si stima che 394 milioni di persone al mondo siano state esposte a un livello di calore pericoloso per la salute.

    Anche se si affronta meno il tema, se si parla meno degli eventi meteo estremi che all’improvviso stravolgono vite e beni – come avvenuto di recente anche in Toscana ed Emilia Romagna con le alluvioni – la crisi climatica infatti continua a correre velocissima. Due nuovi rapporti ci restituiscono nel dettaglio quanto. Una nuova analisi di Climate Central spiega per esempio come in soli 3 mesi “almeno una persona su cinque nel mondo ha avvertito un’influenza significativa del cambiamento climatico ogni giorno da dicembre 2024 a febbraio 2025”. Significa che centinaia di milioni di cittadini hanno sperimentato i rischi sanitari legati per esempio alle ondate di calore o al cambiamento delle temperature, che avviene ovunque. In Italia per esempio negli ultimi tre mesi invernali i giorni con temperature anomale sono stati addirittura 24. Nel mondo 394milioni di persone sono state esposte invece ad almeno 30 giorni di caldo pericoloso: il 74% di queste vive in Africa, in assoluto fra le aree più impattate dal nuovo clima. Se si usa la lente di ingrandimento osservando dove la crisi climatica colpisce più duro si scopre che spesso è nelle città: in 287 centri urbani del mondo i residenti hanno “avvertito l’influenza del cambiamento climatico sulle temperature per almeno un mese” spiega il report. Questo ci ricorda che “il cambiamento climatico non è una minaccia lontana, ma una realtà presente per milioni di persone” spiega Kristina Dahl, vicepresidente Science at Climate Central, ricordando come questi impatti aumenteranno se continuiamo a bruciare combustibili fossili.

    L’accelerazione della crisi climatica è poi ben analizzata soprattutto da un report appena pubblicato dalla World Metereological Organisation (WMO), lo “State of Climate 2024”. Per prima cosa ci dice che ormai le concentrazioni di CO2 sono ai livelli più alti degli ultimi 800mila anni: qualcosa di estremamente preoccupante per le dinamiche climatiche nonostante ci sia chi, come Donald Trump e il Doge (Dipartimento per l’efficienza governativa) guidato da Elon Musk, punti a smantellare gli uffici che monitorano la CO2 come quello di Mauna Loa alle Hawaii, nel tentativo di oscurare il problema.

    Usa e l’ambiente

    Clima, Trump vuole spegnere il monitoraggio sulle emissioni di gas serra

    di Giacomo Talignani

    17 Marzo 2025

    A livello mondiale, per via delle concentrazioni di gas serra, ognuno degli ultimi dieci anni è stato singolarmente il più caldo mai registrato e ognuno degli ultimi otto ha stabilito nuovi record per il livello di calore degli oceani. A questi dati, sempre per restituirci una fotografia completa di ciò che sta accadendo, andrebbero aggiunti quelli sulla perdita di ghiaccio marino artico: i livelli più bassi si sono tutti verificati dal 2006 ad oggi. Altre cifre, testimoniano poi in maniera puntuale cosa è accaduto nel 2024, il più caldo di sempre. Ci sono stati almeno 151 eventi meteo estremi definibili come “senza precedenti”. E mentre nel mondo è ormai comprovato il fatto che il tasso di innalzamento del livello del mare è raddoppiato dall’inizio delle misurazioni satellitari, gli eventi estremi si sono susseguiti praticamente senza sosta. Questo ha portato lo scorso anno al più alto numero di nuovi sfollati dal 2008, si parla di 820mila persone allontanate da casa per questioni di sicurezza davanti al nuovo clima. Tutti questi, scrivono dal World Metereological Organisation, sono “chiari segnali del cambiamento climatico indotto dall’uomo”, con conseguenze irreversibili per centinaia se non migliaia di anni, sia in termini di vite che di economie. “Stiamo aumentando aumentando i rischi per le nostre vite, le nostre economie e per il Pianeta”, ha detto senza mezzi termini il segretario generale del WMO, Celeste Saulo. Nel ribadire come siamo ancora in tempo, con politiche mirate, a centrare gli obiettivi degli Accordi di Parigi – ovvero restare nei decenni sotto i +1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali – gli esperti annotano poi come negli ultimi anni oltre alla principale causa del riscaldamento, le emissioni antropiche, ci siano stati altri fattori determinanti che hanno portato a un 2024 da record.

    Per esempio gli effetti del fenomeno naturale di El Niño, ma anche “cambiamenti nel ciclo solare”, oppure gli effetti di massicce eruzioni vulcaniche. Tra tutti i dati “forti” e talvolta insoliti per proporzione, i più spaventosi per i ricercatori restano quelli degli oceani. “I dati del 2024 mostrano che i nostri oceani hanno continuato a riscaldarsi e i livelli del mare hanno continuato a innalzarsi. Le parti ghiacciate della superficie terrestre, note come criosfera, si stanno sciogliendo a un ritmo allarmante: i ghiacciai continuano a ritirarsi e il ghiaccio marino antartico ha raggiunto la sua seconda estensione più bassa mai registrata. Nel frattempo, il meteo estremo continua ad avere conseguenze devastanti in tutto il mondo” ripete Saulo. Devastante, dice, perché cicloni tropicali, alluvioni, inondazioni e siccità sono sempre più potenti e al contempo impattanti per le persone, costrette a fuggire, così come tendono a “peggiorare le crisi alimentari e hanno causato ingenti perdite economiche”.

    Anche per questo, esortando i leader mondiali a un cambio di rotta nelle politiche di decarbonizzazione, il WMO spiega che insieme alla comunità scientifica globale sta “intensificando gli sforzi per rafforzare i sistemi di allerta precoce e i servizi climatici per aiutare i decisori e la società in generale a essere più resilienti al meteo e al clima estremi. Stiamo facendo progressi, ma dobbiamo andare oltre e più velocemente. Solo la metà di tutti i Paesi del mondo ha sistemi di allerta precoce adeguati. Questo deve cambiare” dice Saulo. Infine, un dato che su tutti ci restituisce l’idea di come la crisi climatica amplifichi il divario sociale. Se pensiamo agli eventi climatici più drammatici dello scorso anno forse la mente tornerà alle alluvioni nel nostro Paese, oppure all’impatto molto raccontato dai media degli uragani Helene e Milton negli Stati Uniti. Eppure, uno degli eventi meteo più devastanti – quasi dimenticato – è stato il passaggio del ciclone tropicale Chido intensificato per potenza dal nuovo clima: solo in Mozambico, oltre a morte e distruzione, ha costretto oltre 100mila persone ad abbandonare la propria casa e le proprie certezze. LEGGI TUTTO

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    Bonus mobili e risparmio energetico, lo sconto fiscale vale per l’acquisto di elettrodomestici

    Il Bonus elettrodomestici 2025 tarda, ma per chi ha fatto lavori in casa lo scorso anno o si appresta a farli adesso c’è sempre la possibilità di utilizzare per questi stessi acquisti il Bonus mobili. Si tratta della detrazione del 50% in dieci anni che ha un tetto massimo di spesa di 5.000 euro e consente non solo di rinnovare gli arredi ma anche di comprare elettrodomestici nuovi a risparmio energetico. Agevolati anche gli acquisti online. Il Bonus scade a fine anno e può averlo anche chi ha fatto acquisti nel 2024 a patto che abbia ancora la fattura, lo scontrino con i propri dati fiscali o la ricevuta della carta di credito.

    Come funziona l’agevolazione
    Tecnicamente il Bonus mobili è una detrazione Irpef del 50% per l’acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici destinati ad arredare un immobile oggetto di interventi di tipo edilizio, per il quale si gode della relativa agevolazione. La detrazione spetta quando i beni acquistati sono destinati ad arredare un qualunque ambiente dello stesso immobile oggetto di intervento edilizio, anche se non è quello sul quale sono stati fatti i lavori. Così ad esempio se è stato ristrutturato il bagno ora si può anche rinnovare anche la cucina con lo sconto fiscale. L’unico vincolo è che mobili ed elettrodomestici siano acquistati dopo aver avviato i lavori. Non è invece rilevante la spesa sostenuta per l’intervento edilizio, che quindi può essere anche di minimo importo, senza che questo precluda la possibilità di usare tutto il plafond dei 5.000 euro di spesa per gli arredi.

    Quali elettrodomestici sono detraibili
    La detrazione è stata pensata per favorire il risparmio energetico, quindi sono agevolati esclusivamente gli acquisti di apparecchi domestici ad elettricità. Non si può invece usare il bonus, ad esempio, per passare da uno scaldabagno elettrico a uno a gas, né per comprare una cucina a gas. Il beneficio fiscale spetta per l’acquisto di mobili e grandi elettrodomestici di classe non inferiore alla classe A per i forni, alla classe E per le lavatrici, le lavasciugatrici e le lavastoviglie, alla classe F per i frigoriferi e i congelatori. L’acquisto è comunque agevolato per gli elettrodomestici privi di etichetta, a condizione che per essi non ne sia stato ancora previsto l’obbligo, come nel caso dei fondi a microonde. Nella lista degli apparecchi per il quali si può avere il Bonus troviamo dunque: frigoriferi, congelatori, lavatrici, lavasciuga e asciugatrici, lavastoviglie, piani cottura a induzione, stufe elettriche, forni a microonde, piastre riscaldanti elettriche, apparecchi elettrici di riscaldamento, radiatori elettrici, ventilatori elettrici, climatizzatori.

    Detrazione anche per chi paga a rate
    Per avere la detrazione sugli acquisti occorre effettuare i pagamenti esclusivamente con bonifico, carta di credito o bancomat, mentre non sono ammessi gli assegni. L’agevolazione è riconosciuta anche a chi paga a rate con un finanziamento. Necessari poi la fattura o lo scontrino fiscale, ossia quello con indicato anche il codice fiscale di chi ha effettuato il pagamento.

    Come avere il bonus per le spese del 2024
    Chi ha effettuato interventi edilizi in casa lo scorso anno e sempre nel 2024 ha acquistato anche gli elettrodomestici può richiedere il bonus direttamente nel 730. È sufficiente indicare le spese sostenute nell’apposito riquadro. L’agevolazione è ammessa anche per eventuali spese di trasporto e montaggio, sempre ovviamente entro il tetto di spesa di 5.000 euro. Occorre poi conservare fattura e copia dei pagamenti. In caso di acquisti online o per chi non ha richiesto lo scontrino fiscale, per l’agevolazione è sufficiente la copia dell’estratto conto della carta di credito. LEGGI TUTTO

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    Sindrome delle turbine eoliche, uno studio smentisce i sintomi: disturbi del sonno e mentali

    Nel 2009, la ricercatrice Nina Pierpont nel descrivere una serie di sintomi legati all’esposizione al rumore emesso dagli impianti eolici, coniò il termine, sindrome delle turbine eoliche. Disturbi del sonno, mal di testa, nausea, ansia e irritabilità, problemi di concentrazione, erano i sintomi più comuni riferiti dalle persone che abitavano nelle vicinanze di un impianto. Negli anni, con la crescita di questa importante fonte di energia rinnovabile, diversi studi scientifici si sono occupati dell’argomento, senza peraltro validare la tesi di Pieramont.
    Sebbene i parchi eolici siano in linea con i principi dello sviluppo sostenibile, spesso suscitano controversie e disinformazione. Infatti, nonostante l’assenza di evidenze, sono state espresse preoccupazioni sugli effetti di questo rumore sul livello di irritazione, sul benessere psicologico e sulle capacità cognitive; in America in particolare, diversi gruppi hanno continuato a portare avanti l’idea della sindrome come causa di malattie mentali, o altri problemi di salute gravi, come il cancro.
    Ma uno degli ultimi studi, condotto da un team di neuroscienziati cognitivi e ingegneri acustici dell’Università Adam Mickiewicz, in Polonia, evidenzia ancora una volta l’assenza di prove sul fatto che il rumore delle turbine eoliche causi disagi a livello mentale.

    D’altronde, i livelli di decibel sono piuttosto contenuti. Per fare un esempio: un aspirapolvere genera solitamente un rumore compreso tra 60 e 80 dB, a seconda del modello e della potenza, mentre il rumore di una turbina eolica varia tra 35 e 50 dB a una distanza di 300 metri, paragonabile a un ambiente tranquillo in cui si conversa a bassa voce. Ovviamente, ad alterare il livello di percezione ci sono diversi fattori: la distanza, il vento, il rumore ambientale presente nella zona.
    Tornando allo studio, pubblicato sulla rivista Humanities and Social Sciences Communication, il gruppo ha condotto una serie di esperimenti, esponendo 45 volontari, studenti di un’università locale, a vari rumori mentre indossavano dispositivi che misuravano le loro onde cerebrali. La scelta sui giovani è stata motivata dal fatto che ricerche precedenti hanno dimostrato che sono più sensibili al rumore rispetto alle persone più anziane.
    “Per lo studio, abbiamo utilizzato registrazioni reali di una turbina eolica per esaminare i loro effetti sulla dinamica delle onde cerebrali, cruciali per compiti cognitivi complessi, nonché sull’attenzione sostenuta e sul ragionamento induttivo in volontari adulti sani. Inoltre, abbiamo valutato soggettivamente lo stress indotto dal rumore delle turbine eoliche e il livello di fastidio percepito”, si legge nella pubblicazione scientifica.
    Per non esporre le persone a pregiudizi sulla natura dello studio, a nessuno è stato detto lo scopo dell’esperimento; ognuno è stato esposto al normale rumore del traffico, al silenzio e al rumore delle turbine eoliche. Fatto curioso è che nessuno dei 45 volontari è riuscito a identificare la fonte del rumore delle turbine, che lo hanno definito come rumore bianco, ovvero un tipo di suono caratterizzato dalla presenza di tutte le frequenze udibili con la stessa intensità. Per capire la tipologia di suono, un esempio tipico è il suono emesso dalla tv senza segnale dell’antenna o al fruscio di una radio non sintonizzata. È un tipo di rumore, infatti, che viene usato per mascherare altri suono fastidiosi, come il rumore del traffico o il sottofondo di persone che parlano in un’altra stanza.

    Quindi la percezione è di un suono che non crea disagio, tanto che nessuno dei 45 lo ha definito più fastidioso o stressante del rumore del traffico. Inoltre i ricercatori dell’università polacca non sono stati inoltre in grado di rilevare nessuna differenza misurabile nelle onde cerebrali, mentre i volontari ascoltavano i due tipi di suoni.
    “I risultati di questo studio pilota mostrano che l’esposizione a breve termine al rumore delle turbine eoliche, con un livello di pressione sonora realistico (65 dB), non ha effetti negativi sulle funzioni cognitive analizzate e non è percepita come più stressante o fastidiosa rispetto al rumore del traffico stradale”. Invece, studi precedenti hanno dimostrato che una fonte prevalente di rumore in grado di influenzare le capacità cognitive è il rumore generato dai condizionatori d’aria, che possono suscitare risposte fisiologiche, influenzando successivamente la cognizione.
    Inoltre, l’analisi di diverse scale psicologiche ha evidenziato che fattori come la tendenza alla ruminazione o una ridotta capacità di riflessione e tolleranza all’ambiguità non determinano una percezione negativa del rumore delle turbine, né influiscono indirettamente sul funzionamento mentale” scrivono i ricercatori, traendo conclusioni dalle loro misurazioni e test. Si può sottolineare dunque, che pericoli per la salute mentale non ce ne sono, probabilmente neanche legati ad un’esposizione a lungo termine. Alcuni sintomi, infatti, potrebbero essere spiegati dall’effetto nocebo, ovvero la convinzione che le turbine facciano male, porta le persone a sviluppare sintomi reali.
    In Italia esiste una normativa specifica sul rumore, fissata dal DPCM 14/11/1997 che stabilisce i limiti per le emissioni sonore: nelle aree residenziali, può essere al massimo di 45 dB di notte e 50 dB di giorno, mentre nelle aree rurali e industriali i limiti sono più alti. C’è da dire che specie nelle grandi città o comunque nelle zone più vicine alla strada, il rumore può essere anche più elevato, nonostante i limiti normativi. LEGGI TUTTO

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    Carne coltivata si riapre lo scontro, Coldiretti in piazza ma c’è chi difende l’Efsa

    Gli scienziati la chiamano “carne colturale”, molti la considerano una scelta “sostenibile”, per gli ambientalisti è una soluzione etica (non si uccide nessun animale). Eppure la carne coltivata, creata da cellule animali fatte proliferare all’interno di bioreattori (lo stesso procedimento con cui si prende un germoglio e lo si fa crescere in una serra) in Italia continua a provocare polemiche e proteste. L’ultima sarà una manifestazione nazionale indetta per il 19 marzo a Parma dalla Coldiretti davanti alla sede dell’Efsa (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare) con lo slogan #facciamoluce. Nonostante il governo italiano abbia varato una legge in vigore nel dicembre scorso con cui ne vieta sia la produzione che l’immissione sul mercato e che gli unici Paesi al mondo ad averne autorizzato il consumo sono fuori dell’Unione europea: Singapore e Israele. In Europa esistono solo startup che si occupano di carne coltivata e solo alcuni Paesi come la Germania, la Spagna e i Paesi Bassi hanno destinato fondi pubblici alla ricerca. Allora cosa ha scatenato la reazione della Coldiretti?

    Il dossier sul “novel food”
    La questione, un po’ complicata, è questa. L’associazione degli agricoltori, invocando il principio di “precauzione” nei confronti dell’Unione europea, ha deciso di riaprire il dossier “novel food” (che include anche la carne creata su base cellulare) lanciando un appello perché il cibo artificiale venga considerato al pari di una sostanza farmaceutica, invece che un alimento. La sola possibilità che anche la carne coltivata possa essere inserita dall’Efsa tra i nuovi cibi ha spinto la Coldiretti prima sostenitrice della sua messa a bando, insieme al ministro dell’Agricoltura della sovranità alimentare e delle foreste Francesco Lollobrigida, a scendere in piazza a Parma. La città non è stata scelta a caso: oltre ad essere il cuore della Food Valley italiana è la sede dell’autorità europea per la sicurezza alimentare, l’unica agenzia europea presente in Italia.

    Agricoltura

    La Danimarca verso una carbon tax sugli allevamenti: “Primo paese al mondo”

    di redazione Green&Blue

    18 Novembre 2024

    Lanciando richiami alla difesa dell’identità nazionale e della sicurezza alimentare nell’ambito delle politiche comunitarie, evocando “rischi non esclusi” per la salute, e di effetti “non ancora escludibili” la manifestazione attraverserà il centro della città con le bandiere gialle dell’associazione. In testa, assicurano gli agricoltori, ci saranno il presidente nazionale Ettore Prandini e il segretario generale Vincenzo Gesmundo. Obiettivo: manifestare a favore dell’Europa e sollecitare l’Efsa ad una maggiore attenzione al rapporto cibo-salute quando si parla di cibi nuovi. Ma i toni si sono talmente alzati che i dirigenti dell’Efsa hanno deciso di chiudere la sede “per ragioni di sicurezza” e di far rimanere a casa i circa 800 dipendenti.

    Tra scienza e politica
    Al centro della contesa tra scienza e politica, la carne coltivata secondo la Coldiretti, deve essere considerata come un farmaco e quindi passare attraverso lo stesso iter di un medicinale destinato a curare patologie gravi. Per questo motivo chiedono all’ente europeo di rivedere i criteri di valutazione. Si fa anche riferimento ad un documento apparso sul sito del ministero della Salute in cui alcuni ricercatori dell’università di Tor Vergata chiedono proprio all’Efsa che vengano introdotti test clinici e pre clinici obbligatori per i novel food.

    Innovazione

    Per il cioccolato del futuro senza cacao, la startup pugliese Foreverland raccoglie 3,4 milioni

    di Gabriella Rocco

    01 Ottobre 2024

    Di battaglia “più culturale che economica” parla Beatrice Mautino, divulgatrice scientifica che difende l’ente scientifico europeo e la sua indipendenza. “In Europa siamo riusciti ad avere standard di sicurezza elevati proprio grazie all’Efsa che essendo un ente scientifico non deve subire pressioni di nessun genere. Non solo. Questo documento non è firmato, ma rimanda ad un tavolo tecnico interministeriale di cui non abbiamo trovato traccia. In pratica, la Coldiretti chiede ai ricercatori di cambiare le regole di valutazione della sicurezza alimentare sui cibi a base cellulare. Due i punti critici. Il primo è il fatto che il ministero non chieda il parere alla comunità scientifica, ma ad un singolo team di scienziati, come invece avviene in altri Paesi. Secondo che la Coldiretti vada a protestare contro un ente scientifico indipendente. Gli chiede di diventare dipendente da un sindacato e non di lavorare nell’interesse dei cittadini. Questa è una forzatura: voler scardinare l’indipendenza dell’Efsa”.

    Il Regno Unito approva la carne coltivata come cibo per cani e gatti: sarà in vendita entro l’anno

    22 Luglio 2024

    I motivi dei sostenitori della carne coltivata
    La carne coltivata potrebbe ridurre fino al 99% l’uso del suolo, fino al 96% l’uso di acqua e fino al 96% le emissioni di gas serra derivanti dalla produzione di carne. Un altro motivo è il calo del consumo di carne legato alla crescente attenzione al benessere degli animali che sta convincendo i produttori a valutare metodi di produzione alternativi per restare nel mercato. Infine, con la carne coltivata si limiterebbero le patologie associate al consumo di carne rossa, i casi di zoonosi e la contaminazione della carne da parte di agenti patogeni, associati all’intensità dell’allevamento del bestiame. Infine. Secondo i sostenitori la carne coltivata rappresenta una delle possibili risposte all’impatto ambientale degli allevamenti. LEGGI TUTTO

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    Servono 75 anni per veder tornare api e farfalle in una prateria distrutta

    Si fa presto a dire “ripristinare”. Portare indietro le lancette dell’orologio, quando si tratta di ecosistemi usati a nostro piacimento, non è così semplice. I tempi per tornare indietro potrebbero essere più lunghi di quanto creduto e potrebbe essere necessaria qualche azione di supporto mirata per recuperare la biodiversità di un tempo. E’ il messaggio […] LEGGI TUTTO

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    Lavori green, il carbon manager: quando business e ambiente si incontrano

    Quando vincono entrambi, l’ambiente e pure il portafoglio, c’è una certa soddisfazione per chi di mestiere aiuta gli altri ad applicare la sostenibilità nei loro percorsi. Un sorriso carico di orgoglio che va sempre condiviso: perché la sostenibilità e la ricerca di soluzioni verdi – quelle che possano per esempio contribuire ad abbassare le emissioni climalteranti o l’impronta di carbonio – non sono mai questione del lavoro o lo sforzo dei singoli, ma sono “un impegno per forza di cose collettivo, che coinvolge più attori, più persone o mondi”. A ricordarlo è Giacomo Magatti, classe 1981, manager della sostenibilità che oggi è vicepresidente e carbon manager di Rete Clima, un’impresa sociale che accompagna le aziende e le organizzazioni a migliorare la loro impronta verde in percorsi di sostenibilità e decarbonizzazione.

    Appassionato di natura e di montagna da sempre, quando Magatti ha iniziato il suo percorso per tentare di coniugare la sensibilità ambientale al mondo delle imprese, era pieno di domande ma trovava pochissime risposte: vent’anni fa le carriere di studio e le specializzazioni per il mondo delle professioni green erano ancora in stato embrionale, “qualcosa che dovevi in parte inventarti. Per questo io dopo una laurea magistrale in Scienze ambientali all’Università Bicocca a Milano, che mi ha fornito molte competenze tecniche, ho scelto di fare un master in Comunicazione dell’ambiente, così da poter avere i mezzi per raccontare quello che avevo studiato e in cui credevo. Da piccolo ero uno scout e, come diceva il nostro motto, ho sempre pensato di voler lasciare il mondo o l’ambiente migliore di come l’avevo trovato” spiega Magatti. Per centrare questa missione, una volta completati gli studi e le prime esperienze all’interno delle aziende come consulente ambientale, acquisisce sempre più competenze che vanno in una direzione precisa: aiutare imprese, enti e Ong a decarbonizzare, ad emettere meno, a intraprendere percorsi di riciclo, oppure a modificare abitudini negative per l’ambiente, ma sempre “con uno sguardo anche al lato economico” spiega.

    Dopo un periodo da ricercatore all’Università Bicocca in cui lavora soprattutto sul Life Cycle Assessment (LCA) – “l’analisi del ciclo di vita di prodotti e servizi che valuta l’impronta ambientale nel suo complesso, uno strumento fondamentale per il nostro lavoro” – fa confluire tutte la sua esperienza nel cuore di quella che oggi è la sua professione a Rete Clima, un manager della sostenibilità che si occupa anche di ogni aspetto carbon delle aziende.

    “La definirei una professione green del presente, necessaria per affrontare le sfide di oggi, sia quelle che impone la lotta alla crisi climatica, sia quelle che richiedono le aziende per essere più sostenibili. Per arrivarci bisogna ovviamente studiare e, consiglio che vorrei dare ai giovani, fare formazione continuamente: bisogna essere aggiornati su scienza, normative, diritti. Solo così si può aiutare altri a trovare percorsi su misura per impattare meno”. Dopo la pandemia da Covid-19 l’attenzione per il green è “letteralmente esplosa. Molte aziende ci hanno contattato per intraprendere percorsi di decarbonizzazione. Quando ci riesci, è davvero bello: la sostenibilità è qualcosa che si fa insieme, in cui mettere in rete più mondi”. Fa un esempio: “Ci è capitato di aiutare una società a cambiare: prima di fatto prendeva plastica in Cina e la rivendeva in Italia, con una impronta decisamente negativa. Oggi, dopo un bel percorso iniziato dall’analisi di ogni aspetto, quella azienda è diventata più verde: ha sostituito plastica vergine con quella riciclata, ha smesso con il trasporto merci aereo preferendo le navi, ha abbassato la sua impronta carbonica e, contemporaneamente, aumentato il suo business”.

    Dimostra, spiega, che “spesso se si inseguono gli aspetti green e sociali, si fanno investimenti che poi ritornano velocemente. Cosa che devo dire le aziende hanno capito da tempo: si muovono già tanto in questa direzione, a differenza della politica”. Ma per aiutare sempre più realtà ad emettere meno gas serra, servono però anche più professionisti “che non applichino la ‘tuttologia’ ai temi ambientali, ma che si specializzino, sempre però con un occhio attento all’insieme. La sostenibilità può essere vista in chiave ambientale, tecnica, ingegneristica, economica: l’importante è che chi lavora in questo mondo sia sempre aggiornato, competente, sapendo che è una professione del presente, dove le cose cambiano in fretta, ma ci sarà sempre bisogno di spingere per – appunto – lasciare un mondo migliore di quello che abbiamo trovato”. LEGGI TUTTO