Novembre 2024

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    Sandro Greblo: “La mia vita da rider in cargobike”

    Pedalare come scelta, anche per lavoro. È l’esperienza raccontata in Vita da cargobike (ed. Meravigli) da Sandro Greblo, corriere in bicicletta della startup di delivery sociale So.De. Un diario di bordo che fotografa la incontri con le persone, Milano vista da due ruote, con idee e riflessioni tra una pedalata e l’altra. E soprattutto una tetsimonianza che oggi delivery etico, ai tempi della Gig Economy, è possibile.

    Qual è il ruolo della sostenibilità nel suo percorso di crescita?
    “La mia infanzia è stata quella di un bambino fortunato perché, oltre ad avere una famiglia sempre molto presente, sono cresciuto nel quartiere Milano 2: è stato pensato per separare i percorsi di pedoni, ciclisti e auto e pertanto un esempio illuminato per gli anni Settanta. La sostenibilità l’ho scoperta lì forse, ma allora il tema non era ancora così presente nell’agenda pubblica, l’ho scoperto ben più tardi, dai primi anni 2000”. LEGGI TUTTO

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    Due sorelle e una startup: “Trasformiamo gli scarti tessili in idee sostenibili”

    In dialetto brianzolo “pulvera” significa “polvere”. Per questo Eleonora e Beatrice Casati l’hanno scelta per battezzare la loro startup che sfrutta la polverizzazione ottenuta dal riutilizzo delle fibre tessili e dei loro avanzi per realizzare materiali innovativi e soluzioni di design. “Siamo cresciute – spiega Eleonora Casati- in Brianza, tra Monza e Lecco, circondate dalla natura e dalla tranquillità della campagna. I nostri ricordi d’infanzia sono legati a paesaggi verdi, agli animali e alle lunghe passeggiate. Ultime di quattro fratelli, ci divertivamo spesso a immaginare il nostro negozio, ci piaceva sognare di avere un piccolo spazio tutto nostro o a pensare a come sarebbe stata la nostra casa ideale in campagna. La passione per la natura ha radici anche nella nostra famiglia: nostra madre adorava gli oli essenziali, mentre nostro padre, con il suo pollice verde, trovava sempre un momento per piantare fiori in giardino, soprattutto rose inglesi. La natura era per lui un rifugio sicuro, un modo per allontanarsi dalle preoccupazioni. L’amore e il rispetto per l’ambiente ci è stato trasmesso e oggi sentiamo forte il legame con il nostro territorio, che cerchiamo di valorizzare e proteggere ogni giorno.”

    Il riuso dei materiali tessili parte da lontano, grazie all’idea del bisnonno Celso Casati. “Erano gli anni Quaranta – continua Beatrice Casati – quando da disegnatore presso la Tessitura Perego di Renate, spinto dalla curiosità e dalla creatività, portò a casa con sé alcuni scarti della cimatura del velluto della stessa fabbrica tessile. Applicò quella polvere ai paralumi che disegnava lui stesso, per regalare loro una struttura tridimensionale e un e?etto più chic: aveva scoperto le potenzialità della polvere ottenuta dalla lavorazione di fibre di vario tipo e, insieme a suo figlio Angelo Angelo, nostro nonno, creò la Casati Flock & Fibers nel 1952.

    Pulvera, invece, si propone ai brand che non hanno tempo, strumenti o idee su come riutilizzare i propri scarti tessili e fornisce loro la soluzione. La polvere di scarto può essere utilizzata nella produzione di carta, plastica e in altri settori, non come semplice rivestimento tradizionale, ma come materiale da incorporare direttamente negli impasti per la creazione di nuovi composti, spesso riducendo la quantità di materiali vergini”.

    Il nostro obiettivo è quello di ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile fornendo soluzioni creative e concrete. Crediamo che, unendo le forze, sia possibile ripensare il sistema produttivo in chiave circolare, offrendo soluzioni concrete che rispondano alle esigenze ambientali e che contribuiscono a costruire un futuro più sostenibile per l’intero settore.

    Tra i progetti di design delle sorelle Casati c’è Cremino, un pouf sostenibile. “Nasce – racconta Eleonora Casati- dalle cover tessili dei materassi destinati alla discarica. Questi materassi, che sarebbero avviati a essere inceneriti, vengono invece riciclati per realizzare una seduta a strati che ricorda il famoso cioccolatino. La base, la parte fondamentale, è un agglomerato di scarti di cover di materassi polverizzate: sono recuperate, sanificate, sfilacciate e successivamente polverizzate. Il risultato è una polvere che assomiglia a batuffoli, il cui colore grigio-azzurro deriva dagli scarti stessi. L’idea del progetto Cremino è quella di dimostrare come da un oggetto di scarto, un materasso, si possa ottenere a qualcosa di nuovo senza dover sfruttare ulteriori risorse e materiali”.

    Eleonora e Beatrice Casati, con il pouf ottenuto da Pulvera tramite il riuso degli scarti tessili  LEGGI TUTTO

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    E se dalla plastica si ottenesse sapone?

    La gestione dei rifiuti di plastica è una delle grandi sfide ambientali dei nostri giorni. Si tratta infatti di un materiale che impiega moltissimo tempo a degradarsi e trovare dei modi innovativi per riciclarlo ci permetterebbe di risolvere almeno in parte il problema. Proprio su questo fronte, un gruppo di ricercatori e ricercatrici coordinato da […] LEGGI TUTTO

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    Dai rifiuti ai braccialetti, così 4Ocean ha ripulito mari e fiumi da 18 milioni di chili di plastica

    L’infinita lotta all’inquinamento da plastica è fatta di piccoli e speranzosi successi così come di enormi costanti passi indietro. Sappiamo tutti, dal sud est asiatico fino al Mediterraneo, quanto questo materiale – se mal gestito – possa essere dannoso per mari ed ecosistemi. Tra microplastiche che sono ormai presenti in ogni organo del corpo umano e grandi detriti che contribuiscono alla morte di centinaia di specie marine, l’avanzata dei rifiuti plastici fatica ancora oggi ad essere arginata. Alcune realtà però – come l’organizzazione 4Ocean – che mischia business a volontariato – hanno compiuto vere e proprie imprese a livello di pulizia: di recente, sui social network, il gruppo ha dichiarato di essere riuscito a rimuovere dal 2018 ad oggi ormai 18 milioni di chilogrammi (40 milioni di libbre) di plastica da oceani, fiumi e coste del mondo, soprattutto grazie all’aiuto di migliaia di persone e attivisti.

    Un traguardo eccezionale per l’associazione nata nel 2017 dalla visione di due surfisti e appassionati di mare, Alex Schulze e Andrea Cooper, che dopo aver visto la gigantesca quantità di plastica presente sulle spiagge di Bali hanno deciso di agire. Nel tempo, dopo aver coordinato operazioni di pulizia dalla Florida al Guatemala sino all’Asia, l’attenzione su 4Ocean è costantemente cresciuta anche grazie alla vendita di quei braccialetti, fatti con plastica recuperata dal mare, i cui proventi sono serviti poi proprio per promuovere le operazioni di rimozione di plastica dagli oceani. Uno dei motti dell’azienda è proprio “One pound promise”, ovvero la promessa – come minimo – di rimuovere mezzo chilo di plastica per ogni braccialetto venduto (in alcuni casi si parla anche di 5 chili).

    Parte della forza di 4Ocean, sia nel coinvolgere i volontari sia nel riuscire ad organizzare grandi operazioni di pulizia nel mondo, sta anche in una forte strategia comunicativa ampliata nel tempo sui social network, strategia che ha portato al supporto di oltre 200 professionisti e a un coordinamento di un movimento globale che ormai opera sette giorni a settimana, rimuovendo quasi 9mila chili di rifiuti al giorno. Inoltre, per monitorare l’andamento dei recuperi e del riciclo, viene utilizzato il sistema Trash Tracker, database che offre uno sguardo trasparente su cosa si sta effettivamente facendo. Ora, grazie al lancio di 4Ocean Foundation (la parte no-profit inaugurata nel 2024) i fondatori puntano ad aumentare le collaborazioni con privati, Ong e fondazioni nel tentativo di ripulire sempre più plastica e, come ha spiegato Alex Schulze, “siamo solo all’inizio: vogliamo costruire un’economia circolare per i materiali recuperati dagli oceani. Ogni passo ci avvicina a un Pianeta più pulito e a un oceano più sano”.

    Innovazione

    In Puglia il primo stabilimento della startup britannica che combatte le microplastiche

    di  Gabriella Rocco

    21 Novembre 2024

    Se per la parte “pulizia” arrivano segnali incoraggianti nella lotta all’inquinamento, in quella a monte del problema, ovvero la produzione di plastica vergine, ci sono ancora però molte incongruenze. Di recente per esempio si è scoperto che alcune grandi multinazionali che hanno firmato patti e alleanze contro l’inquinamento da plastica, in realtà nel tempo hanno “prodotto 1.000 volte più plastica di quanta ne abbiano ripulita” sostiene un report di Alliance to end plastic waste parlando di “passo indietro”. Un grande freno alla piaga da inquinamento plastico potrebbe però arrivare fra il 25 novembre e il 1 dicembre quando a Busan, in Sud Corea, si riuniranno delegati e leader internazionali per un nuovo negoziato sul trattato globale sulla plastica. Durante la quinta e ultima sessione del Comitato intergovernativo di negoziazione per il trattato internazionale “giuridicamente vincolante sull’inquinamento da plastica (INC-5)” potrebbero infatti arrivare le prime e necessarie risposte su come gestire, prima che sia davvero troppo tardi, “l’intero ciclo di vita della plastica, dalla produzione al riciclo sino alla gestione dei rifiuti”. LEGGI TUTTO

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    Un’etichetta per misurare quanto inquinano i vestiti

    Da uno a cinque, quanto inquinano i vostri vestiti? E in particolare, quante microplastiche perdono? In un futuro non molto lontano potrebbe essere abbastanza semplice rispondere alle domande, grazie al lavoro di Sophia Murden e Lisa Macintyre, due ricercatrici della Heriot-Watt University che hanno messo a punto una sorta di etichetta per classificare il grado […] LEGGI TUTTO

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    Cop29, Jude Law e altre stelle di Hollywood contro Big Oil: “Stanno distruggendo il Pianeta”

    All’improvviso Jude Law. In una Cop29 che fatica a trovare punti d’intesa sulla finanza climatica e quei trilioni di dollari da mettere sul tavolo per aiutare i Paesi meno sviluppati a reggere gli impatti del nuovo clima, ogni piccola parola, endorsement o sostegno alla spinta necessaria per un cambio di rotta possono essere decisive per fare aprire gli occhi su cosa è davvero fondamentale per il futuro. Per questo non passa inosservato l’ultimo prestigioso attore, la star di Hollywood Jude Law, che si è aggiunto alla campagna #PaybackTime lanciata dall’associazione Global Witness per chiedere che a pagare i conti della crisi climatica siano coloro che la alimentano: le aziende di combustibili fossili, quelle che fanno extraprofitti di miliardi di dollari “continuando ad aumentare le emissioni climalteranti”.

    Jude Law che, proprio mentre i negoziati di Baku vanno (a rilento) verso la conclusione, ha affermato come dal suo punto di vista “petrolio, gas e carbone stanno danneggiando il nostro Pianeta, causando un’ondata di eventi meteorologici mortali. È tempo dunque che le aziende di combustibili fossili rispondano delle loro azioni”. La star britannica si aggiunge ad altre celebrità, politici ed attivisti che hanno sottoscritto l’appello di Global Witness, fra cui l’ex presidente irlandese Mary Robinson, i registi Adam McKay e Joshua Oppenheimer, Michael Shannon, l’attrice di Star Wars Rosario Dawson, la star di “Harry Potter” Bonnie Wright, l’attore britannico David Harewood, Mark Rylance, Aisling Bea, i musicisti Brian Eno e Jon Hopkins e tanti attivisti per il clima tra cui Vanessa Nakate, Kumi Naidoo e Luisa Neubauer.

    A inizio Cop29 gli attivisti di Global Witness avevano fatto uno “scherzetto” non troppo gradito alla presidenza azera, quella che – attraverso le parole del presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev – ha definito più volte i combustibili fossili come “un dono di Dio”. Il dominio cop29.com era stato acquistato in passato da una coppia indiana: l’Azerbaijan ha offerto loro denaro per acquistarlo ma – sostiene Global Witness – “preoccupata per il clima quella coppia ha deciso anziché di venderlo agli azeri di affidarlo a noi”. Il collettivo è così entrato in possesso di cop29.com (il sito ufficiale è invece com29.az) attirando sul portale tantissimi visitatori e sulla homepage, anziché informazioni sulla Conferenza sul clima, ha messo una foto con i volti dei manager delle aziende del petrolio e del gas e la scritta “le aziende che sfruttano i combustibili fossili stanno distruggendo il Pianeta per trarne profitto. L’hanno rotto, dovrebbero pagarlo loro”. Con queste parole è nata la campagna – ora globale – per ricordare sia che “petrolio, gas e carbone sono responsabili di quasi il 90% delle emissioni di anidride carbonica” sia che ogni anno queste aziende “guadagnano trilioni in extraprofitti”, trilioni che servirebbero “per ripagare dei danni fatti. Per decenni molte aziende di combustibili fossili hanno ignorato i propri scienziati e finanziato campagne di negazionismo climatico per continuare a far fluire i propri profitti, e ora interi Paesi rischiano di essere spazzati via dalla mappa. Le aziende petrolifere amano pubblicizzare le proprie credenziali verdi, ma in realtà investono solo una piccola quantità in energia verde. È tempo di far pagare chi inquina” aggiungono i promotori della campagna che punta a “chiedere ai governi di obbligare le grandi compagnie petrolifere a pagare per aiutare le comunità a ricostruirsi e a proteggersi da un clima sempre più selvaggio”.

    Richieste che in futuro, negli Usa guidati dal negazionista Donald Trump, che ha scelto come ministro dell’Energia Chris Wright, manager del fracking e forte protezionista dell’industria del fossile, potrebbero risultare impossibili. Anche negli Usa però, come Jude Law che chiede alle aziende del fossile di “rispondere delle loro azioni”, c’è chi si sta impegnando per una diversa narrativa capace di mettere in risalto le responsabilità delle multinazionali oil&gas: proprio il mese prossimo debutterà negli States il film “The End”, pellicola post-apocalittica del regista Joshua Oppenheimer che affronta il ruolo dell’industria dei combustibili fossili nella crisi climatica. LEGGI TUTTO

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    Cop29, nessun compromesso e opzioni senza cifre per la finanza climatica. Hoekstra: “Inaccettabile”

    BAKU. “Il testo che abbiamo ora davanti a noi, a nostro avviso, è sbilanciato, inattuabile e inaccettabile”. La bocciatura di Woepke Hoekstra, capo della delegazione Ue a Baku, nell’intervento che apre la plenaria al penultimo giorno di Cop29, è totale. Il commissario europeo al clima fa notare come il testo faccia passi indietro, soprattutto sulla mitigazione, vale a dire il taglio alle emissioni di gas serra, rispetto alle intese raggiunte l’anno scorso a Dubai. Gli fa eco il rappresentante dell’Australia: “La triplicazione delle rinnovabili, il raddoppio dell’efficienza energetica e la transition away dai combustibili fossili, (tutti impegni presi a Dubai, ndr) sono nascosti nel testo presentato questa mattina dalla presidenza di Cop29”.

    La replica è affidata ai leader africani che rappresentano il Gruppo dei 77 più la Cina: la vera lacuna del testo è che manca un quantum, la cifra che i Paesi ricchi devono versare a quelli in via di sviluppo e vulnerabile. “Cifra che noi abbiamo indicato in 1,3 trilioni di dollari”. Solo quando ci sarà un numero si potrà parlare delle misure da attuare per la mitigazione e l’adattamento (la prevenzione contro gli effetti dei cambiamenti climatici).

    “Ci sono Paesi che alla Cop29 dicono ‘non parliamo di mitigazione, parliamo solo di finanza’” ha commentato il ministro italiano dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin. “Noi diciamo no, siamo pronti parlare di finanza, ma dobbiamo parlare anche di mitigazione”.

    Lo scontro tra due visioni del mondo va in scena in una riunione plenaria che il presidente di Cop29, l’azero Babayev, ribattezza Qurultay: un concilio politico militare tipico dell’aristocrazia medievale delle steppe asiatiche. I ministri dei quasi 200 Paesi presenti a Baku sono convocati alle 12 locali dopo che all’alba era stata diffusa la bozza di “disaccordo” della Cop29. Occorrerla scorrerla fino al punto numero 22 per cogliere quanto sia ancora ampia la distanza tre le posizioni in campo sulla finanza climatica, il vero cuore di questa Cop. I primi 21 paragrafi descrivono il “Contesto”. Da lì in poi si parla di “Goal”, obiettivi, e le strade si dividono tra i due schieramenti: Sviluppati contro In via di sviluppo. Tanto da rendere necessarie due ipotesi (Opzione ministeriale 1 e 2) totalmente alternative.

    La prima, evidentemente espressione dei Paesi in via di sviluppo (Gruppo dei 77 più Cina) “decide di stabilire un New Collective Quantified Goal on climate finance di almeno [X] trilioni di dollari all’anno, dal 2025 al 2035, forniti e mobilitati dai Paesi sviluppati a tutti i Paesi in via di sviluppo e per rispondere alle loro esigenze in evoluzione, in sovvenzioni a fondo perduto o in termini equivalenti…”. Decide inoltre che siano specificate le cifre di denaro pubblico effettivamente erogato e di finanza privata mobilizzata grazie al denaro pubblico. Invita i Paesi in via di sviluppo disposte a contribuire (Cina, India, Paesi del Golfo, ndr) “a fornire tale sostegno volontariamente in conformità con l’articolo 9.2 dell’Accordo di Parigi” (che già prevede tale contribuzione volontaria, ndr). E soprattutto: “Questo sostegno volontario non sarà contabilizzato nel New Collective Quantified Goal”. Dunque nessuna cifra (resta una enigmatica X che però precede la parola trilioni), ma una serie di precisazioni: devono essere i soli Paesi ricchi a riempire di soldi il cassetto della finanza climatica, devono farlo con sovvenzioni a fondo perduto e non con prestiti i cui interessi finirebbero per indebitare ulteriormente i Paesi in via di sviluppo. E nessun allargamento della base dei donatori: i più grandi tra i Paesi in via di sviluppo possono aiutare economicamente gli altri contro il cambiamento climatico, in modo volontario e senza essere conteggiati nella finanza climatica prevista dall’Accordo di Parigi.

    L’Opzione ministeriale 2 “decide di stabilire un obiettivo di aumento della finanza globale per l’azione per il clima a [X] trilioni di dollari all’anno, entro il 2035, da tutte le fonti di finanziamento”. E più avanti: “stabilisce un obiettivo di mobilitare collettivamente [da un limite minimo di 100 in su] miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per i Paesi in via di sviluppo da un’ampia gamma di fonti e strumenti, tra cui fonti pubbliche, private e innovative, da canali bilaterali e multilaterali… con l’obiettivo di essere perseguito con i Paesi sviluppati che assumono la guida nel contesto dello sforzo globale e includendo gli sforzi di altri Paesi con la capacità economica di contribuire…”. Anche in questo caso si parla di X trilioni, ma nel calderone ci si mette di tutto, finanza pubblica e privata. Inoltre i Paesi ricchi “assumono la guida” ma includono lo sforzo di “altri Paesi con la capacità economica”. Leggasi Cina et al.

    E si torna così al punto si partenza. Nord globale pronto a far crescere il proprio contributo dai 100 miliardi all’anno attuali, ma non certo fino al trilione reclamato dai Paesi vulnerabili, raggiungibile, dicono a Washington e Bruxelles, solo includendo la finanza privata e contabilizzando i contributi “volontari” di Cina e Paesi emergenti. Sul fronte opposto il Sud globale, secondo cui l’Occidente deve farsi pienamente carico delle sue responsabilità storiche, in fatto di emissioni di gas serra e riscaldamento globale.

    Alla domanda di cosa ostacoli l’accordo, il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, tornato a Baku dopo il G20 di Rio, ha risposto: “È il momento della verità, e ciascuno deve dire chiaramente la verità sugli impegni che può assumere in questa trattativa. Non sono un negoziatore, ma ho parlato con le delegazioni e ho potuto costatare che ancora oggi sono sulle loro posizioni iniziali: è il momento di abbandonarle e venirsi incontro”. E sugli scarsi riferimenti del testo al taglio delle emissioni di gas serra: “Per me è chiaro cosa dice la scienza: non c’è modo di rimanere al di sotto degli 1,5 gradi di riscaldamento se non si abbandonano i combustibili fossili. Qualunque sia il linguaggio adottato nei testi negoziali, non c’è modo di cambiare questa realtà”.

    Cosa succederà ora a Cop29? La presidenza azera riuscirà a trovare un testo di compromesso entro domani sera (venerdì), temine ufficiale di questa 29esima Conferenza Onu sul clima? A Baku si inseguono le interpretazioni del testo e le previsioni. Non si esclude che un testo così lontano dall’accordo sia uno stratagemma del presidente di Cop29 Babayev per arrivare nelle prossime ore a un documento “prendere o lasciare”, su cui andare a chiudere perché un fallimento non gioverebbe a nessuno. La stessa tattica usata, con successo, dall’emiratino Sultan Al Jaber l’anno scorso a Dubai.

    Come il suo predecessore, anche Babayev ha deciso di mettere in scena un rituale “tribale”, il Qurultay appunto, per sbloccare lo stallo. L’esito sarà lo stesso? Va ricordato che a Cop28 ebbero un ruolo fondamentale gli Stati Uniti, rappresentati da John Kerry, capaci, insieme alla Cina, di convincere i Sauditi ad accettare la formula “tranistion away” dai combustibili fossili.

    Qui a Baku tra i padiglioni e le meeting room delle delegazioni si aggira Sue Biniaz, la consigliera di Kerry che tirò fuori dal suo cilindro di lessico giuridico-diplomatico-climatico quella espressione capace di mettere tutti d’accordo. Ci vorrebbe una sua invenzione anche stavolta. Ma quest’anno gli Usa, con il loro inviato speciale John Podesta, hanno un profilo molto più basso, visto l’esito delle elezioni che riporteranno da fine gennaio Donald Trump alla Casa Bianca. In mancanza della leadership americana, si attende una mossa cinese. Pechino si è messa in una posizione win-win: ha la grande occasione di intestarsi il successo di questa Cop. Ma in casi di fallimento sarebbe un gioco da ragazzi farne ricadere le responsabilità sull’Occidente. LEGGI TUTTO