Settembre 2024

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    Smart city, crescono gli investimenti a livello globale

    Le città sono responsabili del 75% dei consumi energetici e dei rifiuti prodotti a livello globale, nonché dell’80% delle emissioni di gas serra. I numeri, che arrivano da una ricerca della Banca Mondiale, hanno spinto a incrementare gli investimenti per rendere le città più efficienti e meno inquinanti. E il tema promette di acquisire un’importanza crescente nei prossimi anni, considerato che, secondo alcune previsioni, entro il 2050 circa il 68% della popolazione mondiale vivrà nelle città, a fronte del 56% attuale. Non a caso, secondo dati elaborati dal portale Statista.com, il mercato globale delle smart city dovrebbe arrivare a valere quest’anno 104,80 miliardi di dollari e si prevede che salirà a 165,80 miliardi di dollari entro il 2028, grazie a un tasso annuo di crescita del 12,15%. Gli analisti attribuiscono la crescita del mercato a un mix di fattori. Dalle favorevoli iniziative governative a innovazioni come l’intelligenza artificiale, l’analisi dei big data e l’Internet of Things, sempre più diffuse.
    Focus sulla sicurezza
    Uno studio elaborato da Grand View Research evidenzia che i maggiori investimenti a livello globale si rilevano nella sicurezza intelligente, nel monitoraggio smart dei servizi pubblici, nei sistemi integrati di gestione del traffico e nella mobilità intelligente.
    In base a uno studio di ResearchGate, la Cina ha ottenuto lo scorso anno il primato a livello globale per numero di città intelligenti in costruzione (con una quota del 48%). A seguire ci sono l’India (11%), gli Stati Uniti (7%), il Giappone, la Corea del Sud e il Canada (2%). Negli Stati Uniti, New York ha fatto molti passi in avanti da questo punto di vista, grazie all’investimento in infrastrutture smart, tra cui misuratori e sensori della qualità dell’acqua, e all’implementazione di tecnologie Lpwan (Low-Power Wide Area Network) che consentono di ridurre i costi e il consumo energetico. Anche in Giappone il tema è molto sentito: nel paese asiatico si punta sulla costruzione di edifici a basso impatto energetico e sull’uso di software di gestione avanzata del traffico che consentiranno di ridurre dell’80% le emissioni di gas serra nel paese entro il 2050.
    Da Berlino alle città britanniche
    In Europa, in Germania spicca invece il caso di Berlino che raggiungerà la neutralità carbonica entro il 2050. Anche il Regno Unito sta puntando sulle smart city attraverso torri 5G, infrastrutture intelligenti e stazioni di ricarica per veicoli elettrici, insieme a ingenti investimenti in tecnologie come Internet of things e intelligenza artificiale. Un trend che interessa anche il nostro Paese, tanto che lo scorso anno, secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio Smart City della School of Management del Politecnico di Milano, sono aumentati i comuni che hanno avviato progetti legati alla smart city (12% contro il 10% del 2022). Le principali iniziative hanno riguardato l’illuminazione pubblica e la smart mobility.
    La spinta dell’intelligenza artificiale
    Guardando al futuro, le tecnologie più utilizzate avranno come protagonista l’intelligenza artificiale, verso la quale verranno dirottati 326 miliardi di dollari entro il 2028. Già allo stato attuale, le applicazioni dell’IA nelle città intelligenti sono molteplici e in costante crescita. A Singapore, per esempio, sensori e telecamere intelligenti guidano il traffico e monitorano la qualità dell’aria. Mentre a Barcellona l’IA è impiegata per ottimizzare l’illuminazione pubblica e la gestione dei rifiuti. Infine, in Cina la municipalità di Hangzhou ha utilizzato l’intelligenza artificiale per sviluppare un “cervello cittadino” che consente di ottimizzare la gestione dei semafori, migliorando così l’efficienza del traffico e riducendo le emissioni nocive. LEGGI TUTTO

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    Scuola, Mattarella: “Ai prof si chiede molto, ma gli stipendi spesso non sono all’altezza”

    “Agli insegnanti, ai presidi, ai docenti e al personale di supporto si chiede molto. Talvolta troppo. Anche a fronte di retribuzioni spesso non all’altezza di altri Paesi europei. Si tratta di un aspetto di grande rilievo che va affrontato concretamente”. Lo ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, all’inaugurazione dell’anno scolastico a Cagliari. “Tutti […] LEGGI TUTTO

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    Useremo sempre più aria condizionata e questo aumenterà le disuguaglianze sociali

    Un piccolo tasto, quello con il simbolo del “gelo” sopra, capace di creare grandi divisioni nel mondo. Quest’estate il tema della disuguaglianza termica è diventato improvvisamente centrale per via delle Olimpiadi: a Parigi la scelta di un villaggio olimpico senza condizionatori, dove solo le federazioni più ricche potevano pagare per dotare di impianti refrigeranti le […] LEGGI TUTTO

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    Il Mediterraneo senza acqua? Una catastrofe quasi irreparabile

    Quasi un secolo fa, nel 1927, il signor Herman Sörgel, architetto e filosofo del Reich, partorì il progetto Atlantropa: la sua bislacca idea era di costruire una diga sullo stretto di Gibilterra e far abbassare di circa 120 metri il livello del mar Mediterraneo, per poi colonizzare la terra emersa a seguito dell’operazione. Una follia cui fortunatamente non fu dato seguito, anche perché (posto che la cosa si fosse effettivamente potuta realizzare in qualche modo, il che è tutt’altro che scontato) le conseguenze per l’ecosistema sarebbero state imprevedibili e probabilmente molto drammatiche. Quel che Sörgel probabilmente non sapeva è che c’è stato un momento, circa cinque milioni e mezzo di anni fa, verso la fine del Miocene, in cui il Mediterraneo si è effettivamente prosciugato a opera delle forze della natura. Oggi un’équipe di scienziati di diversi istituti di ricerca europei, tra cui anche molti centri italiani, ha approfondito il fenomeno per comprendere cosa successe alla vita marina dell’epoca, e cosa potrebbe succedere se malauguratamente il Mediterraneo dovesse prosciugarsi di nuovo. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Science.

    Un enorme bacino vuoto
    L’evento studiato dai ricercatori è noto come “crisi di salinità del Messiniano” ed è stato scoperto negli anni Sessanta, quando una campagna di rilevamento sismico sul fondo del mar Mediterraneo ha rivelato la presenza, dove il bacino è più profondo, di uno strato di sedimenti salati il cui spessore arriva a quasi tre chilometri: in totale si tratta di un milione di chilometri cubi di sale. Quando e come si è depositato, e cosa ci fa là in fondo? L’analisi dei campioni prelevati ha mostrato che poco più di cinque milioni e mezzo di anni fa lo stretto di Gibilterra si chiuse per cause naturali – probabilmente fenomeni di origine tettonica – e di conseguenza l’acqua del Mediterraneo evaporò, trasformando il bacino in una conca asciutta e profonda fino a cinque chilometri sotto il livello del mare. Si stima che il fenomeno durò circa duecentomila anni e rappresentò una vera e propria apocalisse per la flora e la fauna marine, il più grande evento di estinzione dai tempi del meteorite che 60 milioni di anni fa spazzò via i dinosauri (e innumerevoli altre specie) e pose fine all’era mesozoica.

    Il caso

    Pesci morti, alghe e pericolo batteri: la difficile estate italiana con il mare bollente

    di Giacomo Talignani

    29 Luglio 2024

    L’analisi dei fossili

    Gli autori del lavoro appena pubblicato, in particolare, hanno esaminato i fossili raccolti nel Mediterraneo e risalenti a un periodo compreso tra 12 e 3,6 milioni di anni fa: i risultati della loro analisi suggeriscono, per l’appunto, che la vita marina autoctona si estinse quasi del tutto quando il Mediterraneo si prosciugò, e che è stata la ricolonizzazione successiva, avvenuta dopo la riapertura dello stretto di Gibilterra e il nuovo riempimento del bacino, a dare alla fauna un aspetto più simile a quello che osserviamo oggi.

    Gli scienziati hanno messo insieme le informazioni estratte da oltre 750 articoli pubblicati su questo tema, documentando quasi 23mila esemplari per un totale di 4897 specie viventi nel Mediterraneo. 779 specie, vissute prima della grande crisi del Messiniano, potevano essere considerate endemiche (cioè “residenti” solo nel Mediterraneo): di tutte queste, solo 86 erano presenti dopo il prosciugamento. Tra le specie scomparse figurano anche molti coralli tropicali, che abbondavano prima della crisi della salinità; tra quelle sopravvissute, invece, alcune specie di sardine e i sirenii, un ordine di mammiferi che comprende anche i lamantini e i dugonghi.

    Oceani

    Barriere coralline, come (e perché) stiamo perdendo un patrimonio di biodiversità

    di Pasquale Raicaldo

    03 Settembre 2024

    Un recupero lento e faticoso
    Lo studio, purtroppo, non è riuscito a far luce su come e perché alcune specie siano riuscite a sopravvivere a altre no, ma ha chiarito il fatto che l’impatto dell’isolamento del Mediterraneo sulla sua biodiversità è stato catastrofico e soprattutto che la ripresa è stata molto lenta: secondo le stime degli scienziati, ci sono voluti oltre 1,7 milioni di anni perché il numero delle specie tornasse comparabile a quello precedente alla crisi. Fortuna, insomma, che Sörgel sia stato fermato in tempo. LEGGI TUTTO

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    Gli allevamenti di animali da pelliccia sono un possibile veicolo di pandemie: lo studio

    Se si vuole evitare il rischio di nuove pandemie, di nuovi salti di specie da parte di patogeni pericolosi, bisogna lasciare in pace la fauna ed evitare assembramenti tra esseri umani e animali selvatici. Un nuovo studio, recentemente pubblicato sulla rivista Nature, torna a invitare a tenere alta la guardia, puntando i riflettori sugli allevamenti di animali da pellicce, definiti senza mezzi termini delle vere e proprie “autostrade virali” che potrebbero condurre alla prossima pandemia, e chiedendo nuove misure di biosicurezza per contenere i rischi. “È proprio così che nascono le pandemie”, ha spiegato Eddie Holmes, virologo alla University of Sydney, in Australia, e co-autore dello studio. “Gli allevamenti di pellicce possono diventare un ponte tra gli esseri umani e i virus che circolano tra la fauna selvatica”.

    Sebbene il commercio di pellicce sia diffuso in tutto il mondo, la maggior parte degli allevamenti si trovano in Europa e in Cina: nel 2016 gli allevamenti europei hanno prodotto poco più di 39 milioni di pelle di visone, e quelli cinesi circa 26 milioni. Ed effettivamente i visoni, sia europei che cinesi, sono stati tra i primi animali ad ammalarsi a ridosso dello scoppio della pandemia di Covid-19. Non solo: si sospetta che i visoni abbiano avuto (e stiano avendo) un ruolo importante anche nella diffusione di H5N1, il virus dell’influenza aviaria. Discorso analogo per il cane procione (Nyctereutes procyonoides), un altro comune animale da pelliccia, che potrebbe aver avuto un ruolo nel salto di specie compiuto dal virus che causa la Sars.

    Aviaria: dobbiamo preoccuparci? Come avviene il contagio, quali sono i sintomi e le precauzioni da prendere

    di Irma D’Aria

    06 Giugno 2024

    Gli autori dello studio appena pubblicato, in particolare, hanno cercato di identificare i virus circolanti negli allevamenti di pellicce in Cina. Per farlo, hanno prelevato e analizzato campioni di tessuto polmonare e intestinale da 461 animali morti per malattie infettive tra il 2021 e il 2024: di questi, 164 provenivano da quattro specie allevate esclusivamente per la loro pelliccia (i già citati visone e cane procione, Neogale vison e Nyctereutes procyonoides, la volpe rossa, Vulpes vulpes, e la volpe artica, Vulpes lagopus) prevalentemente in allevamenti intensivi della Cina nord-orientale. Gli altri provenivano da specie allevate sia per la pelliccia che per l’alimentazione e la medicina tradizionale, prevalentemente nella Cina orientale: tra queste, porcellini d’India, cervi e conigli. Sequenziando il DNA e l’RNA prelevati dai campioni di tessuto, i ricercatori hanno identificato 125 diversi virus, tra cui molti virus influenzali e coronavirus: 36 di essi non erano mai stati osservati fino a ora e molti di essi sono stati trovati in specie che non si sapeva potessero ospitarli: il virus dell’encefalite giapponese e un coronavirus simile a HKU5 (il patogeno dei pipistrelli responsabile della Mers), per esempio, sono stati individuati nei visoni; il virus H6N2 è stato individuato in un topo muschiato, il primo mammifero in cui si è osservato questo tipo di contagio.

    Secondo i ricercatori, oltre 30 tra i virus individuati destano particolare preoccupazione a causa della loro capacità di saltare da una specie all’altra, e le specie più “pericolose” sono risultate essere i visoni e i cani procioni, portatori, nel complesso, di dieci dei patogeni più preoccupanti.

    Giornata mondiale della salute

    È il cambio climatico la minaccia principale per la salute umana

    di Wwf Italia

    07 Aprile 2024

    “La nostra analisi”, ha concluso Alice Hughes, biologa conservazionista alla University of Hong Kong, “evidenzia che le preoccupazioni sugli allevamenti di pellicce sono valide, e che la gamma di virus potenzialmente pericolosi per gli esseri umani è più ampia di quel che si pensasse. Bisognerebbe imporre una transizione alla produzione di pellicce esclusivamente artificiali, oppure rendere più rigida la regolamentazione e la supervisione della produzione di pellicce naturali, per esempio garantendo l’attuazione di misure come quarantena per gli animali, riduzione del sovraffollamento, igiene delle gabbie, approvvigionamento del mangime e smaltimento dei rifiuti”. LEGGI TUTTO

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    Ecosmic, la startup che salva lo spazio dall’inquinamento evitando le collisioni

    Il nostro pianeta è circondato da sonde spaziali che svolgono un lavoro importante per studiare il clima in continua evoluzione, fornire servizi di comunicazione e navigazione globali e aiutarci a rispondere a importanti quesiti scientifici. Che si tratti di satelliti commerciali per telecomunicazioni, satelliti di osservazione della Terra o missioni di esplorazione con equipaggio, tutte le attività dell’uomo nello spazio sono messe a rischio dalla presenza in orbita di centinaia di migliaia di detriti senza controllo. E, non a caso, il tema della sostenibilità spaziale è da tempo al centro del dibattito di settore, spingendo verso lo sviluppo di tecnologie sempre più innovative.

    Ed è questo il punto di partenza della startup Ecosmic, che ha sviluppato un software, chiamato SAFE, in grado di stimare con grande precisione le possibilità di collisione in orbita, grazie a specifici algoritmi, suggerendo ai satelliti le manovre ottimali per ridurre al minimo il consumo di carburante e i tempi di inattività e favorire così la sostenibilità a lungo termine delle attività spaziali.

    Fondata da tre donne ingegnere: Imane Marouf, Benedetta Margrethe Cattani e Gaia Roncalli, la startup si propone come una rivoluzionaria software house per satelliti. Il traffico spaziale sta diventando sempre più denso. Tra le grandi costellazioni di satelliti, come Starlink, e i detriti di vecchi satelliti e razzi, ogni frammento diventa un potenziale pericolo per gli altri oggetti in orbita. Ecosmic si concentra sulla cosiddetta space awareness e collision avoidance, ovvero la consapevolezza dello spazio circostante e la capacità di evitare collisioni, con l’obiettivo di ridurre il numero di falsi allarmi, che oggi rappresentano oltre il 99% delle segnalazioni.

    Il problema dei rifiuti spaziali e l’effetto Kessler
    L’attuale spazzatura spaziale è composta in gran parte da frammenti di satelliti, razzi, sonde e rifiuti derivati dalle missioni. Il primo vero accumulo di residui è stato raggiunto nel 2007, quando il satellite meteorologico cinese FengYun-1C è stato intenzionalmente distrutto in un test di armi antisatellite. Hanno poi contribuito ad aumentare la spazzatura spaziale prima una collisione tra due satelliti (Iridium-33 e Kosmos-2251) avvenuta nel 2009, e poi un altro test di armi antisatellite condotto dalla Russia nel 2021, quando è stato disintegrato Kosmos-1408, di oltre due tonnellate di peso. Ognuno di questi eventi ha contribuito a inquinare lo spazio. E ora il problema dei detriti spaziali potrebbe precipitare drammaticamente a causa di un fenomeno noto come effetto Kessler.

    Secondo il rapporto 2024 della NASA, ci sono già più di 35.000 oggetti di detriti spaziali in orbita, di questi circa 26.000 sono pezzi di detriti di dimensioni superiori a 10 cm, e il numero continuerà ad aumentare. L’agenzia spaziale sottolinea che, poiché i detriti spaziali viaggiano a circa 15.700 mph (25.266 km/h) in orbita terrestre bassa, l’impatto di anche un minuscolo frammento di detriti orbitali con un veicolo spaziale potrebbe creare grossi problemi. Il preoccupante scenario ricade sotto il nome di “effetto Kessler” in quanto fu disegnato già nel lontano 1978 dall’allora consulente e ricercatore NASA, Donald J. Kessler. Oggi il volume di detriti spaziali che si trova nell’orbita bassa intorno alla Terra e sta diventando sempre più ingombrante poiché gli stessi oggetti orbitanti entrano più volte in collisione tra loro creando una vera e propria reazione a catena e aumentando in tal modo il volume dei detriti stessi con il rischio di ulteriori impatti.

    La startup della sostenibilità delle operazioni spaziali
    Ecosmic è stata fondata nel 2023 inizialmente a Delft (Paesi Bassi) da Benedetta Cattani, Gaia Roncalli e Imane Marouf ingegnere spaziali, successivamente la sede si è trasferita a Torino. La squadra sta sviluppando una soluzione software per favorire la Space Situational Awareness (SSA) e la prevenzione delle collisioni chiamata SAFE (System to Avoid Fatal Events) che, grazie ad algoritmi proprietari, supporta gli operatori delle missioni spaziali nella valutazione delle minacce di collisione orbitale con maggiore accuratezza e minore rischio di sovrastima, con conseguente risparmio di costi, e nell’identificazione delle migliori manovre da eseguire per evitare collisioni.

    La crescente pressione normativa volta a migliorare la sostenibilità delle operazioni spaziali e la volontà degli operatori spaziali di salvaguardare il ciclo di vita dei loro asset sostengono notevolmente la crescita del mercato dei prodotti per la SSA, che si prevede crescerà a un CAGR del 4,4%, raggiungendo un valore totale di 2,1 miliardi di euro nel 2030.

    Con un’attenzione particolare alla sostenibilità, Ecosmic vuole rendere le operazioni spaziali meno impattanti, incorporando nei satelliti la parte di operazioni satellitari solitamente condotta a terra. Il software SAFE riduce il carico di lavoro e la perdita di ricavi associati al traffico spaziale.

    Il numero di satelliti lanciati sta crescendo in modo esponenziale e gli aspetti operativi di queste missioni rappresentano un costo significativo, in quanto tipicamente durano per un periodo di 5-15 anni e richiedono un coinvolgimento umano intenso. Una preoccupazione urgente per gli operatori spaziali è il volume enorme di detriti spaziali, stimato superare i 100 milioni di pezzi, e una quantità sostanziale di tempo e risorse viene investita nella gestione degli avvisi di collisione. Sorprendentemente, il 99% di questi avvisi sono falsi positivi. SAFE è un software che risolve questo problema eseguendo una previsione avanzata delle collisioni e generando suggerimenti per evitarle.

    La startup ha già ricevuto un grant dalla Commissione europea. È cresciuta grazie all’Esa Business Incubator Center e alla collaborazione con Infinite Orbits, compagnia con la quale stanno perfezionando la versione on board del software.

    Nel 2022 la startup ha vinto il primo premio di T-TeC, Telespazio Techology Contest, il concorso di Open Innovation che Telespazio organizza ogni anno insieme a Leonardo dedicato a promuovere lo sviluppo e l’innovazione tecnologica nel settore spaziale tra le giovani generazioni, valorizzarne le idee e le intuizioni, e immaginare insieme a loro le tecnologie che segneranno il futuro.

    Ad aprile 2024, Ecosmic ha ricevuto un finanziamento di 1,1 milioni di euro da parte del fondo Primo Space, Ecosmic rafforzerà il proprio team e svilupperà SAFE 2.0, una versione aggiornata del prodotto che consentirà agli operatori satellitari di adattare la pianificazione delle missioni a specifiche contingenze, dalle manovre per evitare le collisioni al rilevamento di anomalie, con uno strumento completo di gestione della missione satellitare. LEGGI TUTTO

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    Scuola: Cgia, 431mila giovani hanno solo la terza media

    Il nuovo anno è iniziato da pochi giorni, ma per molti giovani i banchi di scuola sono un lontano ricordo: secondo l’ultima elaborazione compiuta dall’Ufficio studi della Cgia su dati Eurostat e Istat, ben 431mila hanno deciso da tempo di non andarci più. Sono persone in età tra i 18 e i 24 anni che […] LEGGI TUTTO

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    Scuola, l’inferno degli idonei fantasma: “Se i precari incrociassero le braccia l’intero sistema crollerebbe”

    “Insegnare è sempre stato il mio sogno. Adesso mi chiedo ogni giorno se non mi convenga cercare un altro lavoro”. Oltre a rientrare nel conteggio dei docenti precari – che siano 250mila o, piuttosto, 165mila, come il ministro Valditara tiene a precisare – Luigi Maria Sofia, 33 anni, docente di lettere a Pisa, è anche […] LEGGI TUTTO