Settembre 2024

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    Celosia: come coltivarla, cura e consigli

    I suoi fiori appagano gli occhi, le sue forme sorprendono e i suoi colori avvolgono più sfumature. La Celosia è una pianta molto apprezzata sia per la sua bellezza, sia per la sua coltivazione semplice. Si tratta di una pianta ornamentale erbacea, perenne, facente parte della famiglia delle Amaranthaceae, il cui fascino è dato dal portamento eretto, capace di raggiungere anche i 50 cm. Le sue foglie lanceolate sono di un colore verde intenso, mentre i fiori presentano forme diverse a seconda della varietà, tra cui spiccano la Celosia caracas, con petali simili a piume, la Celosia argentea plumosa, con fiori a spiga e la Celosia argentea cristata la cui infiorescenza è originale e tinta di rosso o di giallo.

    Celosia, il fiore del coraggio: le caratteristiche
    Sono molte le persone appassionate di giardinaggio che la scelgono per abbellire giardino e/o terrazzo. La Celosia, infatti, è considerata a tutti gli effetti una pianta ornamentale e la sua estetica affascina: non sono solamente i fiori con le loro colorazioni bizzarre a colpire la vista, ma lo sono anche le foglie, considerate decorative sia per il colore, sia per la loro fattezza. Questa pianta dalla simbologia positiva è conosciuta anche con i nomi “cresta di gallo”, “amaranto piumoso” e “fiore di velluto”, tutte metafore connesse alla sua struttura sensoriale. Oltre alla vista e al tatto si aggiunge anche l’olfatto: il profumo della Celosia, tendente allo speziato, inebria e riempie ogni spazio.

    Celosia e la coltivazione: cosa sapere
    La Celosia si coltiva generalmente come pianta annuale e l’appartamento è una destinazione molto frequente. La coltivazione in vaso è infatti una delle più gettonate, ma si può fare crescere anche a terra, qualora si abbia a disposizione lo spazio adeguato. Questo “amaranto piumoso” può essere seminato nei mesi tra aprile e maggio all’esterno (quindi vaso o a terra), oppure nei mesi di febbraio e marzo in ambiente protetto (letto caldo o semenzaio). Nella fase di coltivazione è molto importante utilizzare un buon terriccio, che deve essere specifico per piante da fiore.

    Coltivare la Celosia in giardino
    Per coltivare la Celosia in giardino occorrerà preparare il cosiddetto “letto di semina”. Con la zappa e il rastrello si andrà a lavorare la terra per renderla soffice e porosa, poi si passerà al concime organico, molto importante ai fini della crescita della pianta dai fiori sensoriali. Passata una settimana da questa prima fase, si passerà alla semina vera e propria, che di solito avviene nei mesi di aprile e di maggio. Il cespuglio della Celosia sarà di circa 30 cm, quindi bisognerà fare caso anche alle distanze tra ogni seme (30 cm), da distribuire e coprire con un velo di terra pari a 0,5 cm.

    Coltivare la Celosia in vaso
    La coltivazione in vaso è semplice e molto pratica. Una volta acquistati i semi di Celosia e avendo tra le mani un vaso adatto, sarà fondamentale seguire questi due passaggi. In primis, bisognerà stendere sul fondo del vaso uno strato di biglie di argilla espansa per migliorare il drenaggio, subito dopo si riempirà di terriccio e si concimerà il tutto con un fertilizzante liquido per piante da fiore. Questo passaggio può essere svolto ogni 15 giorni durante il periodo della fioritura, quindi nei mesi che vanno da maggio fino a settembre compreso.

    Celosia: annaffiatura
    Annaffiare la Celosia richiede parsimonia e la si deve bagnare solo quando il terriccio inizia ad asciugarsi. Temendo molto i ristagni idrici, infatti, la sua richiesta di acqua è equilibrata. Nel caso in cui si eccedesse nel bagnarla, è consigliabile svuotare il sottovaso onde evitare marciumi e asfissia radicale. Durante la stagione calda, la sua preferita, la Celosia può essere inumidita più spesso, specialmente nelle giornate più calde. Per migliorare l’umidità ambientale, quindi, si consiglia di vaporizzare un po’ di acqua direttamente sulle foglie, facendo molta attenzione a non bagnare i fiori. Il momento ideale per annaffiare in estate? Al mattino presto, così una volta giunta la sera le foglie saranno tornate asciutte.

    L’esposizione della Celosia: dove posizionarla
    Questo fiore dalle mille sfumature di colore ama il sole. L’ideale per lei sarebbe l’esposizione alla luce totale (non diretta se esposta in casa), facendo particolare attenzione alle correnti d’aria. Vive molto bene nelle zone a clima mite e la sua temperatura ideale si aggira tra i 20° e i 24°, motivo per il quale può essere tenuta anche in appartamento senza problemi. Ciò che la Celosia teme è il freddo, quindi da evitare nel periodo invernale.

    Come prendersi cura della Celosia: consigli utili
    La Celosia non richiede troppa cura, ma quella poca che richiede deve essere rispettata se la si vuole sempre in salute e ricca dei suoi fiori splendidi. Per evitare che proprio questi ultimi appassiscano in tempi brevi, è importante evitare di esporre la Celosia vicino alla frutta: la fermentazione del fruttosio in etanolo, infatti, è dannosa per i fiori. Poiché questo fiore vellutato può essere soggetto a problemi causati da vari insetti fogliari e radicali (afidi, cocciniglie e acari), è sempre consigliabile combatterli anche in via preventiva con l’uso di trattamenti naturali ad hoc. L’olio di lino, ad esempio, è ottimo contro gli acari e le cocciniglie, mentre per sconfiggere afidi e cimici si consiglia l’uso del piretro. Sempre valido anche l’olio di neem, ottimo contro le mosche bianche, gli afidi e i lepidotteri, mentre per evitare fumaggini si può provare con il sapone molle. La Celosia può anche subire “attacchi” da malattie fungine (muffe, mal bianco, peronospora, ruggine sono le più frequenti), ma anche in questo caso si possono prevenire grazie a trattamenti specifici a base di polveri bagnabili. Si consiglia l’utilizzo sia dello zolfo agricolo per l’oidio, sia dell’ossicloruro di rame per tutte le altre patologie. LEGGI TUTTO

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    Barriere coralline, come (e perché) stiamo perdendo un patrimonio di biodiversità

    “Straziante, è stato letteralmente straziante. Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto abbiamo osservato con i nostri occhi un’ecatombe di coralli lungo le scogliere delle Maldive. Un patrimonio naturale sottoposto a molteplici stress, che ne minano l’integrità e la sopravvivenza a lungo termine: tra questi, l’innalzamento della temperatura degli oceani è uno dei più gravi. I coralli possono vivere solo all’interno di un ristretto intervallo di temperature, e quando questi valori superano i 30 gradi centigradi i coralli muoiono, attraverso un fenomeno noto come bleaching o sbiancamento”. Paolo Galli insegna Ecologia Marina all’Università di Milano Bicocca, con la quale gestisce – dal 2009 – un Centro di ricerca, il MaRHE Center, nato dalla collaborazione con il governo delle Maldive. “Tra le attività di punta del Centro vi sono proprio gli studi sullo stato di salute dei coralli. – spiega – Le scogliere coralline delle Maldive costituiscono il settimo sistema corallino più grande al mondo, con una superficie totale di 8.920 km². Purtroppo, è un patrimonio sempre più a rischio. Il mese scorso numerosi coralli sono morti a causa di temperature anomale dell’acqua: resta il loro scheletro di colore bianco, da cui il nome di sbiancamento”.

    Al Centro lavorano ricercatori che valutano lo stato di salute dei coralli con tecniche avanzate di ecologia molecolare: l’obiettivo ultimo è quello di allevare coralli in vivai per trapiantarli nelle barriere attraverso la tecnica di coral restoration (restauro delle scogliere coralline). “Una tecnica nella quale siamo leader, in collaborazione con l’Acquario di Genova”, spiega Galli. Eppure, vanno diffondendosi report e notizie su uno stato di salute in ripresa, su scala globale, delle barriere coralline. Sono fake news? “Per citare Cardarelli, stanno ‘sempre daccapo, con levate di Lazzaro e ricadute di convalescente’. – risponde l’ecologo – Ogni volta che le barriere si riprendono, arriva un evento che ne mina l’integrità. Spesso, c’entra il cambiamento climatico. E non si tratta solo di un problema estetico, ma di sopravvivenza: per esempio, l’intera catena alimentare delle Maldive parte dai coralli. Senza di loro, non ci sarebbe cibo per i pesci e, di conseguenza, l’intero ecosistema ne sarebbe compromesso. Inoltre, senza i coralli, verrebbe meno la protezione fornita dalle scogliere, che funzionano come vere e proprie barriere, impedendo alle onde del mare di penetrare nell’entroterra delle isole, spesso grandi solo qualche centinaio di metri”.

    Come fare, allora, a invertire il trend? “Le scogliere coralline devono essere tutelate attraverso studi scientifici mirati, capaci di fornire risposte su come preservarle in un periodo storico in cui i cambiamenti climatici le sottopongono a stress elevato. – spiega Galli – Inoltre, è fondamentale aumentare la consapevolezza dell’opinione pubblica sulla gravità della perdita di questo patrimonio. Senza le scogliere coralline, la sopravvivenza delle popolazioni insulari, che possono contare solo su questa risorsa, sarebbe messa seriamente a rischio”.

    Crisi climatica

    Grande Barriera Corallina: negli ultimi anni temperature mai viste che hanno causato lo sbiancamento

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    26 Agosto 2024

    Gli allarmi delle grandi organizzazioni
    A lanciare l’allarme, nei mesi scorsi, era già stata la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), organismo che lavora alla comprensione e alla previsione dei cambiamenti climatici e meteorologici che, in particolare, si riflettono sulla vita del mare e degli oceani.“Da febbraio 2023 ad aprile 2024, è stato documentato un significativo sbiancamento dei coralli sia nell’emisfero settentrionale che in quello meridionale di ogni bacino oceanico principale”, ha evidenziato Derek Manzello, Ph.D., coordinatore del Coral Reef Watch (CRW) della NOAA. Un Sos che ha toccato le barriere coralline di tutti i tropici, dalla Florida ai Caraibi, dal Pacifico orientale alla Grande barriera corallina australiana, non risparmiando vaste aree del Pacifico meridionale (comprese Figi, Vanuatu, Tuvalu, Kiribati, Samoa e Polinesia francese), il Mar Rosso, il Golfo Persico e il Golfo di Aden. A maggio la denuncia dell’Australian Museum, a giugno sul tema era intervenuto il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, l’UNEP, organizzazione internazionale che opera contro i cambiamenti climatici a favore della tutela dell’ambiente e dell’uso sostenibile delle risorse naturali. Sottolineando come le barriere coralline siano tra gli ecosistemi più vulnerabili del pianeta al cambiamento climatico. “Entro la fine di questo secolo potrebbero virtualmente scomparire”, ha denunciato l’UNEP.

    “E perderli sarebbe una vera tragedia dal punto di vista della biodiversità e dell’economia”, ha sottolineato Leticia Carvalho, responsabile della divisione marina e delle acque dolci del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. “Di più, sarebbe devastante per uno degli ecosistemi più ricchi del nostro pianeta blu e per centinaia di milioni di persone in tutto il mondo che dipendono dalla pesca costiera”, ha aggiunto.

    Danovaro: “No ai negazionismi, e la colpa è nostra”
    Non c’è negazionismo che tenga. “Tutt’altro, non v’è alcun dubbio sul fatto che per la quarta volta in venticinque anni stiamo assistendo allo sbiancamento di massa dei coralli. Abbiamo già perso il 25% delle barriere coralline a livello globale e non v’è dubbio che la causa principale siano i cambiamenti climatici. – spiega Roberto Danovaro, già presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn, oggi docente di ecologia all’Università Politecnica delle Marche, tra gli esperti più influenti al mondo sullo studio degli oceani – Parliamo di sistemi che coprono appena l’1% della superficie del pianeta, ma che svolgono un ruolo cruciale racchiudendo addirittura il 25% della biodiversità globale, con un valore ancor più rilevante se si considera la loro incidenza sui flussi turistici. Uno studio di prossima pubblicazione, al quale sto lavorando, dimostra come la perdita di coralli in Egitto abbia ricadute economiche quantificabili in 5 miliardi di euro all’anno. Di fronte a evidenze simili, non c’è negazionismo che tenga, né basta citare lo stato di salute buono di alcune barriere coralline per distrarsi da quelle, e sono purtroppo sono la maggioranza, che soffrono. E soffrono per causa nostra: la responsabilità dell’uomo nei cambiamenti climatici è stimata intorno all’87% e su questo concordano 170 mila scienziati degli oceani. Ecco, entro il 2050 avremo perso o profondamente trasformato il 50% delle barriere coralline”.

    In questi giorni Danovaro è al lavoro a Lampedusa per una serie di campionamenti. “Per la prima volta, notiamo uno sbiancamento anche della Posidonia oceanica, avvolto da un muco biancastro a basse profondità. Lo scorso anno era accaduto con la Cladocora caespitosa, uno dei pochi coralli autoctoni nel Mediterraneo. Anche in questo caso, la colpa è dell’uomo: camminamento e costruzione, per effetto diretto, e cambiamenti climatici, per effetto indiretto, stanno profondamente incidendo sulla biodiversità del mare”. Invertire il trend è ancora possibile? Secondo la NOAA i modelli climatici prevedono un aumento in frequenza ed entità degli impatti dello sbiancamento dei coralli, di pari passi con il riscaldamento dell’oceano. Per ridurne gli effetti, spiegano gli scienziati, serve allora un’azione globale: anche per questo i membri internazionali dell’organismo stanno da mesi condividendo e applicando azioni di gestione basate sulla resilienza e sulle lezioni apprese dalle ondate di calore marine del 2023 in Florida e nei Caraibi. Ma bisogna fare presto. LEGGI TUTTO

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    Il ministero apre un’inchiesta su undici università telematiche private: lauree false e abilitazioni sprint

    ROMA – Undici atenei sotto inchiesta del ministero dell’Università e della Ricerca. Sono istituzioni telematiche private e, secondo segnalazioni raccolte dalla scorsa primavera e tutte girate alle procure territoriali, garantirebbero titoli e abilitazioni agli iscritti con procedure veloci e ormai fuori controllo. LEGGI TUTTO

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    Paul Watson, dalla prigione continua la lotta a difesa delle balene

    Da cinquant’anni il capitano Paul Watson ha un solo obiettivo: fermare la caccia alle balene. In decadi di lotta con Sea Shepherd, l’organizzazione che ha fondato, è riuscito a fermare, boicottare o controllare decine di imbarcazioni che operano nella caccia ai grandi cetacei. In alcuni casi però l’azione del 73enne è andata oltre: nel 2012 il Giappone ha emesso un mandato di arresto (dell’Interpol) con l’accusa di danneggiamento di una nave baleniera nipponica in Antartide, accuse che contengono anche il ferimento (con una bomba puzzolente) di un membro dell’equipaggio giapponese.

    Sulla base di quel mandato lo scorso 21 luglio Paul Watson è stato arrestato a Nuuk, capitale del territorio autonomo danese della Groenlandia ed è finito dietro le sbarre. Ora si aprono due grandi scenari: il primo è il prolungamento della sua detenzione in Groenlandia, come chiederanno in attesa di processo i suoi legali, oppure l’estradizione in Giappone, come vorrebbero i nipponici, decisione sulla quale il tribunale danese si esprimerà il 4 settembre. Nel frattempo, dopo quasi sei settimane di cella, Paul Watson ha parlato con l’agenzia francese Afp della sua battaglia, definendo un concetto molto chiaro: “La mia lotta continua, ho solo cambiato nave. Ora la mia nave è il carcere di Nuuk” ha spiegato. Dopo la detenzione dell’attivista sono scattate in tutto il mondo petizioni per chiedere il suo rilascio (la più importante ha già 100mila firme) e i suoi sostenitori temono che se Watson verrà estradato in Giappone – uno dei pochi Paesi dove ancora oggi nel mondo è in vigore la caccia alle balene – rischi 15 anni di carcere.

    Il caso

    Islanda, salta la svolta storica: si potranno ancora cacciare le balene

    di Giacomo Talignani

    12 Giugno 2024

    “Se pensano che ciò impedisca la nostra opposizione – ha detto Watson – devono sapere che ho appena cambiato nave. La mia nave in questo momento è Prison Nuuk. I giapponesi vogliono dare il buon esempio e far capire che non si scherza con la loro caccia alle balene” ma lui “non molla” dice. Non è la prima volta che Watson viene arrestato. Nel 2012 per esempio fu fermato in Germania, su richiesta delle autorità del Costa Rica, per un altro incidente, poi rilasciato su cauzione. A sua difesa nelle ultime settimane con l’hashtag #FreePaulWatson si sono schierate migliaia di persone, ma anche autorità e persone del mondo dello spettacolo. L’ufficio del presidente francese Emmanuel Macron ha per esempio chiesto alla Danimarca di evitare di estradare Watson, così come Brigitte Bardot si è spesa a più riprese per difendere l’operato del capitano.

    “Non ho fatto nulla – si è difeso ancora il fondatore di Sea Shepherd, ora impegnato con la sua Captain Paul Watson Foundation, parlando con l’Afp – e anche se lo avessi fatto la sentenza sarebbe al massimo una multa 1.500 corone (223 dollari) in Danimarca, non una condanna al carcere, mentre il Giappone vuole condannarmi a 15 anni”. Watson ha raccontato come il suo obiettivo fin dal 1974 sia “sradicare la caccia alle balene e spero di riuscirci prima di morire”, specificando che la sua organizzazione non è “di protesta”, ma “di controllo”, per garantire la protezione dei mari e delle creature che li abitano, respingendo a forza l’etichetta di “eco-terrorista” usata contro di lui. “Non oltrepasso mai i limiti, non ho mai fatto male a nessuno. Faccio un’interferenza aggressiva e non violenta. Non c’è contraddizione tra aggressività e non violenza: significa che cercherò di strappare l’arpione alla persona che sta cercando di uccidere una balena, ma non le farò del male”.

    Durante la detenzione il 73enne ha spiegato anche come dalla finestra della sua cella si veda il mare, dove è riuscito ad osservare balene e iceberg. “È quasi come se fossi sul ponte della mia nave, la prigione migliore in cui sia mai stato” ha affermato, spiegando come a mancargli più di ogni altra cosa in questo momento siano i suoi due figli. Per gran parte del tempo in cella scrive: messaggi e raccomandazioni che passa a Lamya Essemlali di Sea Sheperd Francia, la persona che lo sta aiutando quotidianamente in questo momento complesso. A sostenerlo, anche centinaia di persone che stanno inviando lettere al capitano, e perfino i suoi compagni di cella. “Ho firmato autografi quando sono arrivato” ha detto Watson col sorriso. Molte delle missive ricevute sono firmate da bambini che chiedono, proprio come lui, di fermare l’uccisione dei grandi cetacei nel mondo. “Se riusciamo a raggiungere i bambini, penso davvero che le cose possano cambiare” ha concluso il capitano. LEGGI TUTTO

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    Il tiglio: caratteristiche, cura e consigli

    Il tiglio è una pianta appartenente alla famiglia delle malvacee, le cui origini sono principalmente in Europa. Esistono numerose specie, caratterizzate solitamente da una robusta crescita e da una notevole longevità, nonché da una grande capacità di adattamento e sopportazione dell’inquinamento atmosferico. Il nome di questa pianta deriva dal greco ptilon – cioè, “ala” – che si riferisce alle caratteristiche della brattea dell’infiorescenza.

    Le caratteristiche del fiore e della foglia di tiglio
    La fioritura del tiglio avviene nei mesi compresi tra giugno e luglio: in quel periodo, la pianta spande nell’aria un profumo piacevole che attira numerosissime api e bombi. Il fiore del tiglio ha un colore giallo paglierino e si caratterizza anche per la brattea verde di tonalità chiara: viene usato per preparare infusi e prodotti cosmetici. La foglia del tiglio ha la caratteristica forma a cuore ed è caduca: raggiunge una dimensione massima di circa 10 centimetri, ha un colore verde pallido (talvolta con sfumature più scure) e il bordo seghettato.

    Il terreno ideale per la coltivazione del tiglio
    Per la messa a dimora del tiglio andrebbe preferito un terreno con un buon drenaggio, idealmente sabbioso, che non dev’essere né troppo umido né troppo asciutto. La pianta preferisce soprattutto i terreni neutri.

    L’irrigazione e la concimazione del tiglio
    Il tiglio è un albero che richiede un’irrigazione abbondante e regolare nel periodo che segue la messa a dimora. Nei primi anni di vita, è importante assicurare costantemente l’apporto di acqua, dopodiché è un albero che si accontenta delle piogge. In caso di periodi siccitosi prolungati, si può però prevedere l’innaffiatura del tiglio. Per quanto riguarda la concimazione, possiamo prevederla nel caso di messa a dimora in terreni non particolarmente ricchi. In questi casi, si può usare del letame o del concime organico nel periodo autunnale.

    Dove piantare il tiglio: esposizione e messa a dimora
    A causa delle dimensioni che raggiunge una volta raggiunta la piena maturità, il tiglio è solitamente piantato in contesti sufficientemente spaziosi, dove trova le condizioni ideali per vegetare. Non è difficile trovarlo ad esempio all’interno dei parchi o, comunque, di aree verdi piuttosto estese. La pianta è anche prescelta per ornare vialetti e viali, dove contribuisce a creare una piacevole ombreggiatura. L’esposizione ideale del tiglio è in pieno sole o mezza ombra, mentre per la messa a dimora si scelgono solitamente esemplari di età superiore ai cinque anni. Scaviamo una buca che sia larga e profonda tra 3-4 volte la zolla radicale, sistemando del compost all’interno della stessa.

    Quanto ci mette a crescere il tiglio?
    Al di là delle singole particolarità delle cultivar o specie, il tiglio si contraddistingue per un ritmo di crescita iniziale piuttosto lento: entro i primi cinque anni, raggiunge un’altezza di un paio di metri. In seguito, l’albero cresce più velocemente. Il tiglio raggiunge solitamente la maturità attorno ai cinquant’anni: in quel momento, può superare anche i venti metri di altezza, con una fronda larga più di una decina di metri.

    La potatura del tiglio
    Dobbiamo prevedere la potatura del tiglio sia per guidarne la crescita sia per eliminare i numerosi polloni che si sviluppano alla base della pianta. Il momento ideale per potare la pianta è durante la stagione invernale.

    Le caratteristiche del legno di tiglio
    Il tiglio è un albero che si contraddistingue per offrire un legno contraddistinto da una bassa durezza e da un basso peso, caratteristiche che lo rendono lavorabile senza particolari difficoltà. L’essenza è contraddistinta da una colorazione chiara, che solitamente oscilla tra il bianco e il giallo paglierino. Viene sfruttato per realizzare sculture, mobili e giocattoli.

    Le avversità che colpiscono il tiglio
    Nonostante la sua fama di pianta longeva e rustica, non è raro che il tiglio possa essere colpito da diverse avversità. La pianta può essere attaccata dagli afidi: in questo caso, bisogna ricorrere ad un prodotto fitosanitario. Anche la cocciniglia può infestare l’albero: in questo caso, il lato inferiore delle foglie si presenta con le classiche macchioline bianche. Per contrastare questo insetto, che può provocare la defogliazione, si usa un prodotto ad hoc.

    I lepidotteri possono inoltre attaccare la pianta, mangiandone le foglie: questi insetti possono essere contrastati con la lotta biologica (ad es. ditteri o imenotteri) o con prodotti chimici. Il tiglio può essere anche attaccato dalla gnomonia tiliae, un fungo che provoca delle macchie marroni sulle foglie: anche in questo caso, bisogna ricorrere ad un prodotto chimico per contrastarne la diffusione. LEGGI TUTTO

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    Scuola, in classe senza smartphone, ora si educa alla Patria. L’anno inizia tra novità e riforme mancate

    Come sarà la scuola del 2025? Cosa troveranno sette milioni di studenti nel terzo anno d’istruzione (e merito) a guida Valditara? E che fine hanno fatto il voto in condotta, i lavori utili, le misure antibullismo, la battaglia agli smartphone, l’educazione affettiva e l’intero pacchetto di riforme e controriforme annunciate? Spoiler: ci sono almeno quattro […] LEGGI TUTTO