Settembre 2024

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    L’intelligenza artificiale contro lo spreco del cibo. Ci pensa una startup olandese

    C’è un filo sottile che lega cibo, energia, natura e perdite economiche. Quel filo è lo spreco alimentare, una delle facce di un sistema alimentare globale, sempre più insostenibile. Infatti, nonostante gli impegni per una transizione ecologica scritti sulla carta, ad oggi una buona parte della produzione alimentare globale, un terzo secondo la FAO, non arriva sui nostri piatti. Si perde o si spreca da qualche parte lungo le filiere produttive che vanno dalla raccolta alla trasformazione, dal trasporto alla conservazione, ma soprattutto all’interno delle nostre case. E se le tendenze attuali persisteranno, la perdita e lo spreco di cibo raddoppieranno entro il 2050. Perdite e sprechi non sono soltanto chilogrammi o tonnellate di alimenti, ma sono anche uno ‘spreco di natura’ e uno spreco economico enorme. Si tratta di costi nascosti, una enorme fetta di capitale naturale, pari per l’Italia a 140 miliardi di litri solo guardando all’acqua sprecata insieme al cibo che gettiamo ogni anno, ma anche di capitale economico che buttiamo via con alimenti che nessuno mangia. In questo scenario, con un obiettivo molto ambizioso, nasce la startup Orbisk, che utilizza l’intelligenza artificiale per raccogliere informazioni sugli sprechi alimentari nelle cucine delle mense e dei ristoranti.

    Nel dettaglio, la startup olandese utilizza la tecnologia di riconoscimento delle immagini AI per quantificare lo spreco alimentare nelle cucine. L’obiettivo è creare informazioni sui flussi di rifiuti e identificare le inefficienze strutturali nelle cucine professionali per contribuire a ridurre lo spreco alimentare.

    Lo studio

    In Italia 7,8 milioni di tonnellate di CO2 all’anno legate a spreco alimentare

    04 Giugno 2024

    I dati dello spreco alimentare
    In Italia, secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio Waste Watcher, nonostante una recente maggior attenzione agli sprechi alimentari, gettiamo individualmente poco meno di mezzo chilo di cibo a testa ogni settimana, circa 25 kg in un anno. Ad oggi finiscono nella pattumiera solo dallo spreco che avviene nelle nostre case circa 6 miliardi di euro a cui vanno aggiunti 9 miliardi euro dello spreco di filiera, che fanno in media circa 15 miliardi di euro all’anno, circa un punto di Pil. Eppure, sempre in Italia, cresce il numero di persone che fatica a nutrirsi regolarmente, oltre il 9,4% della popolazione versa in condizione di povertà. È urgente agire per eliminare una pratica ormai appartenente ad un sistema economico e sociale insostenibile sotto tutti i punti di vista, riducendo a zero lo spreco alimentare dal produttore al consumatore. Per questa ragione l’ONU ha inserito tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030, il Goal 12.3 che prevede di “dimezzare lo spreco alimentare pro capite globale”.

    Nel complesso, l’eliminazione degli sprechi è anche un’importante strategia di mitigazione ambientale. Se lo spreco alimentare fosse un Paese, sarebbe il terzo maggiore produttore di gas climalteranti dopo gli Usa e la Cina. Lo spreco di cibo è responsabile del 20% del consumo di acqua dolce e di fertilizzanti, e del 30% dell’uso globale dei terreni agricoli. E c’è di più: il valore economico del cibo sprecato a livello globale si aggira intorno a 1.000 miliardi di dollari all’anno, ma sale a circa 2.600 miliardi di dollari se si considerano alcuni dei costi «nascosti» legati all’acqua e all’impatto ambientale. Sebbene il cibo venga perso lungo tutta la catena di approvvigionamento, nei Paesi ad alto reddito le perdite si verificano soprattutto a livello di post-vendita e di consumo e variano tra 124 e 154 kg pro capite all’anno e comportano un costo economico elevato, stimato al 10-25% della spesa alimentare annua delle famiglie.

    Sostenibilità

    Lotta allo spreco alimentare: le associazioni che aiutano a recuperare il cibo

    di Fiammetta Cupellaro

    05 Febbraio 2024

    La storia di Orbisk
    Orbisk nasce in Olanda a fine 2017 da un’idea di Olaf van der Veen, manager d’azienda, che a un certo punto della sua vita decide di abbandonare il suo lavoro da dirigente per dedicarsi ai temi di sostenibilità ambientale, concentrando tutte le sue energie sulla gravità dello spreco di cibo nel suo paese. Da li l’idea di fondare un’impresa innovativa, al cui progetto si uniscono gli amici (e co-fondatori) Bart van Arnhem e Richard Beks. La startup olandese utilizza l’intelligenza artificiale per quantificare lo spreco di cibo nelle cucine dei ristoranti. L’obiettivo è creare informazioni sui flussi di rifiuti e identificare le inefficienze strutturali nelle cucine professionali per contribuire a ridurle. Nel dettaglio, una telecamera (apposta sul bidone dei rifiuti) è collegata a una sofistica bilancia digitale in grado di riconoscere tutti gli alimenti gettati nella spazzatura fino al livello degli ingredienti, fornendo un quadro dettagliato dei flussi di rifiuti e identificando così tutte le inefficienze di speco di cibo. L’algoritmo AI riconosce con precisione che tipo di cibo viene buttato via, in quale quantità e a che ora del giorno.

    Come funziona il dispositivo AI
    Il dispositivo tech è utilizzabile dai ristoranti con una formula di leasing, non necessita di alcuno spazio aggiuntivo in cucina o di nuove infrastrutture. Il sistema si integra perfettamente con il bidone dei rifiuti già esistente, che può essere mantenuto nello stesso posto di sempre. I dati sono inviati automaticamente al cloud tramite rete mobile o Wi-Fi. Al software viene affiancato un ciclo di giornate di formazione per il personale della cucina, per imparare a leggere i dati e sfruttarli a loro vantaggio. Ad esempio, i formatori di Orbisk mostrano le fasi in cui si verificano sprechi nel processo e suggeriscono i possibili miglioramenti.

    “Ci sono diverse informazioni che il nostro software può identificare in quelle immagini: il tipo di cibo, la quantità di cibo, il livello di lavorazione (preparato, intero o tagliato), il momento dello smaltimento e il motivo dello smaltimento. Non solo, il software può determinare se il cibo proviene da una padella, un tagliere, o un piatto. Identificando in quale parte del percorso il cibo è andato perso”, racconta Olaf van der Veen. Che aggiunge: “Oggi, i contenitori dei rifiuti alimentari sono un grande descrittore di tutte le inefficienze in cucina. Ma insieme a molti dei nostri clienti, ci stiamo spingendo oltre combinando i dati sui rifiuti alimentari con i loro dati di vendita, i dati di acquisto, il numero dei coperti e persino informazioni circostanti come le previsioni del tempo che potrebbero avere un impatto sul numero degli ospiti. Questo sarà il nostro passo successivo: non solo guardare ai rifiuti generati ieri per rimediare lo spreco, ma anche prevedere quale pensiamo sarà il consumo di domani. Solo in questo modo stroncheremo sul nascere l’enorme spreco di cibo che flagella il mondo intero”. All’inizio di quest’anno i dispositivi Orbisk installati nelle cucine dei ristoranti olandesi erano venti, a giugno il numero è salito a 120, entro la fine dell’anno ne saranno installati altri trecento. A partire dal 2025 i fondatori di Orbisk hanno in programma di diffondere il loro dispositivo d’intelligenza artificiale negli Stati Uniti, paese noto per il primato dello spreco alimentare. LEGGI TUTTO

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    Attenti ai “vermi di fuoco”, in Texas l’allarme corre sul web

    In Texas hanno lanciato l’allarme. Senza troppi giri di parole, come spesso accade in America. “Attenzione! I vostri peggiori incubi si stanno materializzando attraverso la forma di vermi di fuoco”, ha scritto sui social l’Harte Research Institute, un ente scientifico che, con un approccio interdisciplinare, si occupa di sostenibilità e conservazione della biodiversità nel golfo del Messico. Con potenziale effetto psicosi sui bagnanti.

    Nelle foto, ecco comparire un vermocane, probabilmente una specie ‘sorella’ di quella che da qualche mese ha alimentato il dibattito anche nel Mar Mediterraneo, l’Hermodice carunculata, volgarmente – per l’appunto – verme di fuoco. L’allarme riguarda, ovviamente, la neurotossina che le sue minuscole setole bianche sono in grado di secernere, se toccate. “Negli ultimi giorni abbiamo trovato alcuni esemplari di questi policheti marini depositati su grandi tronchi trascinati a riva”, scrivono i ricercatori dell’Harte Research Institute. “I tronchi erano ricoperti di cirripedi a collo d’oca, i lepadi, probabilmente cibo potenziale per gli stessi vermi”. E del resto i vermocani – 28 specie differenti diffuse su scala globale – sono veri e propri spazzini del mare: amano nutrirsi di organismi morti, morenti o poco mobili. Sono, vale a dire, sapofaghi.

    In America, Texas in primis, l’alert sembra essere diventato virale, complici i toni alti della comunicazione. “Per la verità molte cose nell’oceano sono in grado di pungerci”, prova a rassicurare Jace Tunnell, biologo marino che – presso l’Harte Research Institute – si occupa prevalentemente dei rapporti con le comunità locali: è stato lui a imbattersi accidentalmente nei vermocani. Intanto, il National Park Service ha diramato qualche istruzione a uso e consumo di bagnanti che dovessero essere punti dai vermocani: consigliato, per esempio, usare del nastro adesivo per rimuovere le setole e ammoniaca per aiutare ad alleviare il dolore.

    E se i media americani sembrano aver optato per un tenore particolarmente sensazionalistico (“I bagnanti rimangano vigili di fronte alla crescente presenza di queste creature, probabilmente legata ai cambiamenti nelle correnti oceaniche, alle condizioni meteorologiche e ad altri fattori ambientali”, esorta lo “Statesman”), chi ha a quotidianamente a che fare con policheti marini, vermocani in primis, che abitano i fondali marini rocciosi dell’Atlantico, dall’Algeria alla Liberia, ma sono anche stabilmente presenti sul versante occidentale dalla costa sud-orientale degli Stati Uniti, è pronto a smorzare i toni. “Non è particolarmente sorprendente la notizia dello spiaggiamento di un tronco con crostacei sessili accompagnanti da vermocani, che amano nutristi di organismi morti o morenti, né giustifica alcun tipo di preoccupazioni nell’opinione pubblica, trattandosi di animali con i quali è difficile entrare a contatto, anche accidentalmente, e le cui punture causano al più alcune forme di eritema, certo fastidiose, ma che non creano danni permanenti”, spiega Luigi Musco, che insegna zoologia all’Università del Salento.

    E gli avvistamenti di vermocani anche nei nostri mari hanno, nei mesi scorsi, riportato l’attenzione su una specie che non è considerata aliena (abita da sempre il Mar Mediterraneo) e che tuttavia, essendo termofila, sembra avvantaggiarsi del riscaldamento globale: opportunista e vorace, è uno dei vincitori (temporanei) della battaglia per la sopravvivenza del nuovo millennio. Della sua presunta esplosione demografica si lamentano così i pescatori (che lo trovano nelle nasse, pronto a cibarsi opportunisticamente del pescato) e ne sono fatalmente preoccupati i bagnanti, mentre i fotografi subacquei lo immortalano sempre di più. Alimentando l’attenzione. I ricercatori, invece, provano a quantificare gli eventuali squilibri negli ecosistemi marini (è per esempio partito il progetto “Worms Out”, ente capofila l’OGS, l’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale, che lavora in collaborazione con gli atenei di Catania, di Messina, di Modena e Reggio Emilia, l’Ispra e l’Area marina protetta Capo Milazzo.

    “Ma nelle regioni meridionali, Sicilia, Calabria e Puglia in particolare – il vermocane c’è sempre stato – spiega ancora Musco – e bagnanti informati e pescatori ci convivono serenamente. Stiamo ora cercando di comprendere quanto consistente sia il suo spostamento verso nord, un fenomeno sul quale siamo ancora cauti. Del resto, per affermare che le sue popolazioni si stiano espandendo è necessario avere serie storiche di osservazioni che non abbiamo. Quanto alla sua pericolosità, ribadiamo che è molto relativa ed è legata a sistemi di difesa dell’organismo dalla predazione. Le sue setole, dette anche chete, iniettano una neurotossina che sarebbe termolabile: basta, qualora si entri accidentalmente a contatto con il vermocane, immergere la parte lesa nell’acqua calda per ottenere sollievo, e poi rimuovere le setole, che sembrano piccoli aghi, con delle pinzette, o del nastro adesivo”. LEGGI TUTTO

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    Scuola, Valditara: “La sperimentazione dell’IA partirà in 15 classi”

    “Siamo uno dei primi Paesi ad avere avviato quest’anno scolastico una sperimentazione nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale per la personalizzazione della didattica. Parte in 15 classi, in alcune regioni: Calabria, Lazio, Toscana, Lombardia”. Lo ha annunciato il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, al Teha Forum di Cernobbio. “Se il modello funzionerà pensiamo di estenderlo ulteriormente […] LEGGI TUTTO

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    Fuori i genitori dalla scuola, i pedagogisti invocano un passo indietro: “Stanno trasformando i figli in pupazzi contestano i voti e gli rifanno i compiti”

    Genitori che sistemano meticolosamente lo zaino ai propri figli, anche al liceo. Genitori che pretenderebbero di concordare il voto delle verifiche col docente. Genitori che mettono bocca su qualsiasi cosa. Genitori che hanno smesso di fare i genitori e sono diventati i sindacalisti dei figli. LEGGI TUTTO

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    Rifiuti in montagna, come comportarsi

    Cosa c’è di meglio di una passeggiata nella natura, al fresco, tra boschi e vette? Però, passo dopo passo, ci capita spesso di vedere fazzoletti che segnalano toilette improvvisate, sacchetti con all’interno i bisogni dei cani a terra o appesi agli alberi come precoci palline di Natale, croste di formaggio, bucce di banana, confezioni di snack, lattine, bottigliette… “Marchiamo il territorio” con i nostri rifiuti, per disattenzione o scarsa voglia di portarne il peso anche in discesa. Proviamo a capire, però, quanto impiegano questi materiali a sparire dalle nostre montagne.

    Bisogna, innanzitutto, fare una distinzione tra due termini: compostabile e biodegradabile. Partendo dall’ultimo, un elemento lo è se può essere scisso in composti chimici semplici come acqua, anidride carbonica e metano da batteri, luce e altri agenti fisici naturali. Per essere definito tale, però, la normativa europea ha stabilito che deve decomporsi del 90% entro sei mesi. Essere compostabile significa qualcosa in più: deve essere biodegradabile in soli tre mesi, disintegrabile, quindi in grado di frammentarsi secondo criteri stabiliti, e deve superare i test di ecotossicità come prova che non possa esercitare alcun effetto negativo sull’ambiente. Si trasforma in compost, ricco di proprietà nutritive e usato in genere come fertilizzante. Per questi materiali, quindi, esiste una normativa che stabilisce regole e tempistiche precise, riferite però a condizioni controllate.

    Turismo sostenibile

    Anche la montagna soffre di “overtourism”

    di Giulia Negri

    10 Agosto 2024

    Questo significa che in natura e all’aperto, soprattutto in montagna dove temperature e altri parametri possono essere molto diversi da quelli in cui si sono ottenute le certificazioni, i tempi potranno risultare molto più lunghi. Ecco perché, anche se si tratta di sostanze naturali come nel caso di scarti e bucce alimentari, è meglio riportarli a casa con noi: impiegheranno mesi, se non anni, a sparire, se sono presenti semi potremmo far germogliare piante alloctone, e i rifiuti, poi, chiamano altri rifiuti. Vederli in giro, infatti, porta a emulazione e a situazioni di degrado. Basti pensare alle “toilette” di cui sopra: quando compare un fazzoletto, finisce poi per moltiplicarsi in molti altri, e servono dai tre mesi in sù perché si disperdano (per la carta igienica ci vuole circa un quarto del tempo). La gomma da masticare, pur essendo un alimento, non è del tutto biodegradabile e si stima impieghi intorno ai cinque anni per degradarsi.

    Non sempre, però, tempo e danni per l’ambiente vanno di pari passo. Il vetro, in natura, è sostanzialmente immortale, ma si tratta di un materiale inerte – che, in tempi molto lunghi, ridiventerebbe sabbia -, non arrecando quindi grandi danni a flora e fauna. Discorso diverso vale per la plastica: anche quando si degrada – e potrebbe riuscirci in 100, 400 o 1000 anni – continua a rimanere un inquinante, frammentandosi in microplastiche e nanoplastiche, delle quali stiamo ancora studiando gli effetti sulla salute. Pur volendoci un tempo inferiore, quindi, l’impatto riuscirebbe a essere decisamente maggiore: se possibile riduciamo al minimo l’utilizzo di questa tipologia di imballaggi e non abbandoniamoli mai nell’ambiente. Lattine e carta stagnola hanno bisogno dai 10 ai 100 anni; considerati i grandi costi ambientali dell’estrazione dell’alluminio, riciclare questi materiali è davvero fondamentale.

    Biodiversità

    Dieci regole per rispettare la flora in montagna

    di Fabio Marzano

    01 Agosto 2024

    Una parentesi è d’obbligo per i fumatori: i pacchetti di sigarette ci mettono circa 5 mesi a scomparire, per i mozziconi si va dai due ai dieci anni. Il filtro, contrariamente a quanto alcuni potrebbero pensare, non è in carta o cotone, ma di materiale plastico, e rilascia sostanze tossiche in grado di inquinare le acque, uccidere organismi acquatici, danneggiare gli ecosistemi. Fumando si inquina anche l’aria, quell’aria pura di montagna che siamo saliti apposta per poter respirare… Se proprio non possiamo aspettare di tornare a valle per la pausa sigaretta, portiamo almeno con noi un contenitore per i mozziconi per scongiurare sia i danni ambientali che gli incendi. LEGGI TUTTO

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    Il recupero delle acque reflue, un grande aiuto contro la siccità

    La purificazione delle acque reflue non è mai stato un argomento da grandi riflettori, ma a volte basta un singolo exploit di innovazione per cambiare tutto: è il caso della tecnologia sviluppata dalla startup Gradiant. “Prendiamo acque reflue altamente contaminate che contengono solventi, sali disciolti, sostanze organiche, ed eliminiamo tutti i rifiuti liquidi”, ha spiegato a CNBC Prakash Govindan, co-fondatore e direttore tecnico dell’azienda. “Altre tecnologie possono recuperare forse dal 50 al 60% dell’acqua, ma noi possiamo recuperarne il 99%”. È in questo ultimo dato eclatante che si svela il potenziale della startup, fondata nel 2013 come spinoff del Massachusetts Institute of Technology (MIT). Per altro sarebbe più corretto chiamarla unicorno – come si dice in gergo startupper – poiché lo scorso anno, pur non essendo quotata in borsa, ha raggiunto un valore di un miliardo di dollari.

    La tecnologia Gradiant si basa sul principio con cui si crea la pioggia nell’atmosfera, ovvero l’azione di condensazione del vapore acqueo. Nello specifico le acque reflue confluiscono in un impianto dove il flusso viene riscaldato e poi pompato in un umidificatore a contatto con aria a temperatura ambiente. La tecnologia proprietaria consente poi di trasferire il vapore ottenuto in una colonna di acqua pulita. E così l’aria di raffredda e si ottiene una sorta di pioggerellina pulita, che secondo l’azienda, abbatte i costi di depurazione del 50%. Da rilevare che ormai Gradiant ha centinaia di brevetti relativi al trattamento di acque con inquinanti di diverso tipo.

    Ambiente

    Riscaldamento globale, a rischio la potabilità dell’acqua per milioni di persone

    di Sara Carmignani

    22 Luglio 2024

    Il metodo pare funzionare così bene che fra i clienti ci sono già colossi come Coca-Cola, Tesla, Amd, Bmw, TSMC, Micron e Pfizer. E il motivo di tale entusiasmo è facile da spiegare: il 50% del consumo dell’acqua globale si deve a esigenze industriali e con la diffusa siccità si rischiano ripercussioni sulle attività, al netto delle rinnovate sensibilità ambientali. Si pensi anche solo al settore alimentare, tessile e farmaceutico. Senza contare l’industria dei semiconduttori dove l’acqua è una componente critica per la produzione poiché se ne necessita di ultra pura e poi si ha bisogno di una gestione efficiente delle acque reflue. Gradiant in tal senso assicura di essere riuscita a massimizzare il recupero, ridurre i prelievi di acqua dolce, recuperare minerali e reagenti preziosi e ridurre l’impronta di carbonio e di acqua della produzione. Come ha spiegato a Forbes promette infatti di ridurre i consumi di una classica fab di semiconduttori: da 37 milioni di litri al giorno a 757mila litri al giorno. E sul fronte farmaceutico per GlaxoSmithKline è riuscita a risolvere l’annoso problema delle acque reflue, del grande impianto di amoxicillina di Singapore, che contenevano sostanze pericolose difficili da gestire. Dal 2020 l’ingrediente fondamentale di uno dei più noti antibiotici dell’azienda non è più un problema: Gradiant estrae circa cinque tonnellate di rifiuti al giorno dalle acque reflue dell’impianto.

    In Italia un sistema come quello di Gradiant consentirebbe di migliorare notevolmente il trattamento delle acque. Secondo l’ultimo report Istat relativo agli anni 2020-2023 gli impianti di depurazione italiani gestiscono ogni anno più di 6,7 miliardi di metri cubi di acqua reflua, di cui 4,7 dovuti alla potabile e il resto a scarichi industriali, perdite e il resto. Dopodiché il 70% subisce un trattamento avanzato che ne consente l’impiego per irrigazione e nuovamente l’ambito industriale. “Scalare queste tecnologie è difficile. È facile trovare un prodotto, ma è molto più difficile trovare una soluzione end-to-end completa per i clienti, ed è quello che ha fatto Gradiant”, ha puntualizzato uno degli investitori, Mark Danchak di General Innovation Capital Partners. Oggi la startup ha più di 600 impianti di trattamento delle acque nel mondo e tratta circa 8,5 miliardi di acque reflue giornaliere. Assicura di poter riciclare il 98% dell’acqua contaminata dei suoi clienti, e farlo più e più volte, facendo risparmiare 6,4 miliardi di litri di acqua al giorno; quanto consumano circa 48 milioni di persone. LEGGI TUTTO

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    Quello che i ghiacciai dicono (su di noi e sull’ambiente)

    Che cosa sarebbero le Alpi senza ghiacciai? La sola prospettiva di perdere un elemento così caratteristico del paesaggio naturale a cui siamo stati abituati ci lascia interdetti. Le conseguenze per gli ecosistemi e per la società sarebbero drammatiche. La realtà è che oggi la “situazione clinica” dei ghiacciai è a dir poco critica. Dal 2000 al 2019 ogni anno sono stati persi in media 267 miliardi di tonnellate di ghiaccio a livello globale e con l’aumento delle temperature la velocità con cui i ghiacciai fondono è destinata a crescere. Non è un caso che le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2025 “anno internazionale della conservazione dei ghiacciai”.

    Da anni, in realtà, non mancano le iniziative che mirano a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’emergenza della fusione dei ghiacciai. Nell’agosto 2019 in Islanda, per esempio, si è svolto il funerale del ghiacciaio Okjökull. Sempre in Islanda, poche settimane fa un gruppo di ricercatori della Rice University ha dato vita al primo “cimitero dei ghiacciai” (con tanto di lapidi che si sciolgono a ricordare il loro declino inesorabile), accompagnato dalla Global Glacier Casualty List, una piattaforma in cui tenere traccia dei ghiacciai in grave pericolo e di quelli che sono già scomparsi negli ultimi anni. Per chi volesse conoscere meglio i ghiacciai da poco c’è anche un libro: “I ghiacciai raccontano”, edito da People e scritto da Giovanni Baccolo, ricercatore all’università di Roma Tre e membro del Comitato Glaciologico Italiano. Con spirito divulgativo e senza mai cadere nel tecnicismo, Baccolo ci porta dentro questo tanto fragile quanto affascinante mondo.

    L’emergenza

    La morte dei ghiacciai e il vuoto che lasciano

    di Vanda Bonardo*

    28 Agosto 2024

    Partiamo dal titolo: che cosa raccontano i ghiacciai?
    “È riduttivo vedere i ghiacciai soltanto come vittime del cambiamento climatico. Certo, confrontare una fotografia scattata oggi con una scattata 50 anni fa ha un forte impatto sullo spettatore. Ma i ghiacciai sono molto di più che dei giganti agonizzanti. La glaciologia va a toccare numerosi aspetti del mondo naturale e umano, perché la nostra storia è fortemente intrecciata con quella dei ghiacciai. Non sono solo un elemento che impreziosisce i paesaggi montani, ma sono anche degli autentici archivi che conservano la memoria del clima e dell’ambiente, con il loro carico di storie da raccontare. C’è poi da tenere in considerazione il fatto che i ghiacciai non sono tutti uguali. Il secondo capitolo del libro si intitola ‘glaciodiversità’ e ha proprio l’obiettivo di mostrare come ogni ghiacciaio racconti una storia diversa dal punto di vista scientifico. Le storie più antiche vengono dai ghiacci polari che sono più estesi e più spessi e dunque permettono di andare più indietro nel tempo”.

    Se scomparissero i ghiacciai che cosa perderemmo?
    Proprio perché i ghiacciai sono una componente fondamentale del mondo naturale, toglierli significherebbe sconvolgere una serie di equilibri. In prima battuta, tutta quella riserva di acqua dove andrebbe a finire? Si alzerebbe in maniera considerevole il livello dei mari e degli oceani e la geografia del Pianeta sarebbe sconvolta: molte zone diventerebbero inabitabili e milioni di persone sarebbero costrette a migrare. Molte comunità montane si ritroverebbero senza la loro fonte primaria di acqua dolce. O ancora, scomparirebbero quelle specie che si sono sviluppate e adattate agli ambienti glaciali. L’elenco potrebbe proseguire ancora a lungo”.

    L’emergenza

    La morte dei ghiacciai e il vuoto che lasciano

    di Vanda Bonardo*

    28 Agosto 2024

    Si tratterebbe anche di un’enorme perdita culturale.
    “Certamente. Questo è un aspetto che ci tengo sempre a sottolineare anche se non è il più importante, visto che non va a toccare direttamente la sopravvivenza della specie umana. I ghiacciai, con il loro declino, hanno avuto un ruolo di primo piano nel plasmare la consapevolezza sugli effetti del cambiamento climatico. Fanno parte del nostro immaginario collettivo: se chiedi a un bambino di disegnare una montagna, senz’altro disegnerà in cima un cappello bianco. Chissà se un bambino lo continuerà a fare anche nel 2100. La vedo dura. Per la fine del secolo di ghiaccio sulle Alpi ne rimarrà davvero poco”.

    Ma quindi i ghiacciai alpini sono spacciati? Non c’è più alcuna speranza di salvarli?
    “Anche se saremo virtuosi nel contenere le emissioni di gas serra, sappiamo già che nei prossimi decenni perderemo una frazione considerevole del ghiaccio presente oggi sul Pianeta. I ghiacciai sotto i 3500 metri, ahimè, è quasi sicuro che scompariranno. Ma non voglio nemmeno essere catastrofista, perché dire ‘non c’è più niente da fare’ è un messaggio sbagliato e spinge all’inazione. Inoltre, per un contesto come quello dei ghiacciai alpini non utilizzerei il termine tipping point (punto di non ritorno, ndr). Diverso è il caso dell’Antartide o della Groenlandia dove la scienza ci dice di essere molto più cauti nel superare determinate soglie perché la risposta del sistema potrebbe essere non lineare e difficile da gestire una volta che il meccanismo si innesta. Insomma, sarebbe una vera e propria catastrofe ambientale”.

    Il 2022 e il 2023 sono stati due anni difficilissimi per i ghiacciai alpini (basti pensare alla tragedia della Marmolada del 3 luglio 2022 che è costata la vita a 11 persone). Il 2024 sembra andare un po’ meglio: si può parlare di un anno positivo per i ghiacciai?
    “Nel 2022 e nel 2023 si sono verificate le due peggiori condizioni per i ghiacciai, insieme: poca neve durante l’inverno e alte temperature durante l’estate. Nel 2024 i danni sono stati limitati dalle abbondanti nevicate primaverili, ma sarà un altro anno negativo per i ghiacciai. Anche quest’estate, infatti, è stata caldissima e per settimane la quota dello zero termico si è mantenuta al di sopra dei 4000 metri. Ormai la neve caduta la scorsa primavera è stata consumata quasi completamente”.

    Nel capitolo conclusivo del libro dice che il futuro dei ghiacciai è nelle nostre mani. Che cosa dobbiamo fare per tentare di salvare il salvabile?
    “È chiaro che la tutela dei ghiacciai va di pari passo con il contrasto ai cambiamenti climatici. L’unica soluzione possibile è dunque limitare l’aumento della temperatura terrestre. Facile a dirsi, molto più difficile a farsi: occorre per esempio, come ripetono da anni gli scienziati dell’IPCC, abbandonare i combustibili fossili, con tutte le ricadute sociali ed economiche che possiamo immaginare. Ma i costi della transizione saranno comunque inferiori a quelli dell’inazione climatica”.

    A proposito di soluzioni mirate per i ghiacciai, si sente spesso parlare dei teli geotessili, come quelli che vengono installati da diversi anni in estate sul Presena (in Trentino). Funzionano o sono parte del problema?
    “Per funzionare, funzionano benissimo da un punto di vista tecnico: è stato verificato che coprire il ghiacciaio con i teli geotessili permette di ridurre il tasso di fusione del 50-60%. Tuttavia, questo intervento presenta alcuni aspetti di insostenibilità sia economica sia ambientale. Coprire un ghiacciaio è molto costoso. Economicamente parlando, ha senso solo dove è possibile ottenere un ritorno che ripaghi queste spese: quindi piste da sci, attrazioni turistiche visitabili a pagamento (come delle grotte di ghiaccio, per esempio) eccetera. E poi c’è un problema ambientale. Coprire un ghiacciaio richiede l’utilizzo di grandi quantità di combustibili fossili. Mi riferisco non solo al carburante per i gatti delle nevi, ma anche alle coperture stesse dei teli che sono realizzati con materie plastiche. Certo, qualcuno potrebbe dire che è una goccia nell’oceano in termini di emissioni, ma ai miei occhi rimane un controsenso”.

    Quali sono gli strumenti per aumentare la consapevolezza sull’importanza dei ghiacciai?
    “Il mio consiglio è quello di viverli in prima persona, senza filtri. Prendi una fotografia di qualche anno fa di un ghiacciaio a cui sei legato in qualche modo o che ti piace esteticamente e poi vai di persona a vedere con i tuoi occhi la differenza con il presente. Solo con un’esperienza del genere è possibile capire quanto velocemente i ghiacciai stiano reagendo al clima che cambia e quanto urgente sia la necessità di fare qualcosa per salvarli”. LEGGI TUTTO