12 Luglio 2024

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    “Con il cambiamento climatico il caffè è in pericolo. Ma abbiamo gli strumenti per un futuro sostenibile”

    “La sostenibilità è rispetto: per l’ambiente, per le persone, per l’economia. È un valore imprenditoriale, politico e culturale che si declina con tutto ciò con cui entra in contatto“, spiega Giuseppe Lavazza – presidente dell’azienda made in Torino produttrice di caffè – durante un’intervista per Green&Blue da Wimbledon. Il gruppo Lavazza è partner del torneo di tennis dal 2011 e quest’anno celebra i due decenni della Fondazione Giuseppe e Pericle Lavazza, attiva in diversi Paesi per generare sviluppo sostenibile attraverso la produzione di caffè.

    Londra è una seconda capitale: in città c’è il loro primo flagship store all’estero e in questi giorni girano i taxi brandizzati con le nuove pubblicità dedicate a Jannik Sinner, ambassador del brand. Impossibile non notare uno degli italiani più famosi al mondo in questo momento: “Un vero numero uno, un’eccellenza non solo nel tennis che ci riempie di orgoglio”, dice Lavazza. Proprio in questa settimana finale di torneo, però, il prezzo del caffè sui mercati internazionali è aumentato ancora, raggiungendo valori mai visti. Il valore alla tonnellata della qualità Robusta ha raggiunto i 4490 dollari: l’anno scorso era a 2600 dollari a tonnellata, a inizio 2020 appena 1300.

    Presidente, il caffè diventerà privilegio per pochi?
    “Il caffè è da secoli una bevanda popolare e rimarrà tale, anche se i prezzi della materia prima stanno aumentando senza dare segno di rallentamento. Ma il caffè ha una storia lunghissima proprio grazie alla sua accessibilità: è un momento per mettere insieme le persone. Non è un caso che il caffè non abbia mai avuto un preciso status symbol: in Turchia era la bevanda degli incontri ufficiali, in Francia se lo litigavano i Re, in Italia è diventato popolare durante il Risorgimento. È di tutti. Fortunatamente oggi noi aziende produttrici, grazie alla tecnologia e agli investimenti, siamo ancora in grado di assorbire le fluttuazioni della materia prima”.

    Perché il prezzo del caffè sale così tanto?
    “La crisi ha almeno quattro ragioni: il cambiamento climatico, che provoca danni alle coltivazioni ovunque, dal Sud America all’Africa; il blocco del canale di Suez, che rende impossibile l’ingresso nel Mediterraneo delle merci e costringe i carichi a circumnavigare l’Africa; la guerra in Ucraina che ha cambiato gli equilibri geopolitici internazionali; e poi c’è un tema finanziario: il dollaro è forte e la crisi è così prolungata che ha attirato gli interessi di chi specula sul prezzo del caffè”.

    Che tempi vede per l’uscita da questa “crisi”?
    “Molti pensavano che già con il 2024 i prezzi sarebbero scesi, ma siamo destinati a vederli alti ancora per molto, probabilmente fino al 2025”.

    Il costo per il trasporto internazionale dei chicchi quanto è aumentato?
    “Le faccio un paragone: durante il Covid, quando l’intero pianeta era bloccato, il costo dello shipping era aumentato di dieci volte. Oggi il costo è superiore di quattro volte e i ritardi medi sono di un mese. Alcune zone, come tutta l’East Africa, rischiano di essere tagliate fuori a lungo”.

    Il vostro mercato russo quanto valeva e quanto vale oggi?
    “Ottanta milioni di euro, e ora zero, perché abbiamo deciso di tagliare ogni rapporto con la Russia di Putin. Era per noi un mercato importante, così come quello ucraino, che valeva circa 8 milioni ma oggi è bloccato dalla guerra”.

    Arriviamo alla crisi per eccellenza: il cambiamento climatico come impatta le vostre attività?
    “Almeno da vent’anni ci siamo accorti del cambiamento climatico nella filiera di produzione del caffè. Alluvioni, periodi troppo caldi, siccità e ovviamente pressione costante sulle tante possibili fragilità di un territorio o di una popolazione. In Colombia abbiamo visto da vicino gli effetti della ruggine del caffè, la Roya, un fungo devastante per la pianta, che si sta diffondendo più rapidamente a causa delle piogge intense e del caldo. In Vietnam si allungano i periodi di siccità, alternati con piogge senza fine. In Brasile le gelate. Per affrontare il problema ci vuole lucidità e lungimiranza: mitigare e affrontare con il giusto approccio il problema, sensibilizzando tutti gli attori della catena produttiva”.

    Quali sono le possibili soluzioni?
    “Intanto non bisogna aggredire nuovi territori per coltivare caffè, ma piuttosto trovare soluzioni per le zone dove già si coltiva, per consentire che si continui a produrre bene e anche di più. A volte bastano degli accorgimenti e una maggiore conoscenza delle tecniche corrette, altre volte è necessaria la tecnologia. Nel 2018 abbiamo mappato il codice genetico del caffè arabica, collaborando anche con Illy”.

    Un concorrente?
    “Sì, per dimostrare che queste iniziative sono pre-competitive. Esiste un istituto che si chiama World Coffee Research fondato da noi produttori di caffè che si occupa di garantire futuro alle piante del caffè. Bisogna studiare le ibridazioni, i cloni, le tante varianti di specie capaci di resistere al forte caldo, alla siccità o all’abbondanza d’acqua. La varietà è fondamentale per la qualità del caffè, per trovare aromi originali. La Fondazione Lavazza poi è lo strumento che abbiamo per portare queste “buone pratiche” e queste conoscenze nei luoghi più vulnerabili della coffee belt”.

    Caraibi, Guatemala, Ecuador, ma anche Yemen, dove siete attivi dal 2021. Come si affronta un territorio del genere?
    “In Yemen ci sono le tracce archeologiche delle prime caffetterie, ma oggi il Paese è devastato da una guerra che va avanti da anni. Abbiamo coinvolto migliaia di lavoratori, avviando il più grande vivaio del Paese. Il 60% delle persone raggiunte è donna e per la prima volta in Yemen delle produttrici sono state in grado di vendere direttamente i loro prodotti di qualità. Bisogna costruire una cultura del caffè anche attraverso l’empowerment femminile. Una cultura che arriva fino alle qualità come prodotto finito, altrimenti chi coltiva caffè rischia di essere schiacciato dagli intermediari”.

    Anche in Colombia avete affrontato le cicatrici della guerra.
    “Siamo andati a Meta, un dipartimento rurale isolato dalla guerra e in mano al narcotraffico, per portare uno strumento di sviluppo sostenibile. Ma abbiamo avviato progetti anche nella prima periferia di Medellín, con un sistema agro-forestale dove gli alberi da frutta attorno alle piante di caffè creano ombra, preservano la biodiversità e offrono frutti per la sussistenza della popolazione. Il caffè è un megafono di pace”.

    La Fondazione ha fatto vent’anni. Obiettivi per i prossimi venti?
    “Raddoppiare le persone coinvolte: oggi sono 180.000, sarà un enorme orgoglio arrivare a 360.000. Coinvolgendo nuovi Paesi, come il lavoro fatto a Cuba, ma anche lavorando nel nostro Paese”.

    Torniamo in Europa, anzi a Bruxelles. Si è chiuso un Green deal, se ne aprirà probabilmente un altro. Avrà successo se…?
    “Se la politica dialogherà con il sistema, con tutti gli stakeholders. Noi operatori dei diversi settori non siamo nemici ma anzi alleati, vogliamo la stessa cosa ovvero un Pianeta più sano, un ambiente più resiliente. Ma l’approccio top-down di questo Green deal ha portato ad alcuni cortocircuiti: il caffè, per esempio, è stato incluso nella regolamentazione contro la deforestazione. Secondo queste regole possiamo importare solo dai produttori capaci di garantire che non siano state abbattute nuove porzioni di foresta”.

    Un principio più che giusto. Cosa non funziona, dal vostro punto di vista?
    “La scelta è giusta, certamente. Nessuno che produce caffè vuole deforestare. Ma i requisiti sono impossibili da rispettare per moltissimi Paesi produttori di caffè. Solo il 20% dei produttori è pronto, 4,5 milioni di agricoltori su 12,5 milioni totali. 8 milioni sarebbero tagliati fuori dal commercio con l’Europa. In Brasile hanno un sistema di certificazione già avviato, ma pensate all’Etiopia o ad altri Paesi fragili: è impossibile per loro stare dietro alla burocrazia. Gli ambasciatori di 17 Paesi hanno mandato una lettera alla Commissione, ma non sono stati ascoltati. La cosa più incredibile sa qual è?”

    Quale?
    “Il caffè istantaneo non è incluso nella regolamentazione, ma è quello che dovrebbe destare più preoccupazione. Ha un codice doganale diverso, ed è stato lasciato fuori”.

    Quando i trattori protestano contro contro l’Europa hanno ragione, quindi?
    “Sono sicuramente un’indicatore di una situazione critica. L’Europa deve ascoltare e dialogare, parlando con i settori interessanti, evitando un approccio chiuso e sordo che rischia di rovinare i tanti traguardi raggiunti. La sostenibilità è rispetto, ogni azione deve esserlo, dalla protesta alla politica”.

    Viviamo nell’epoca delle poli-crisi. Qual è la sua speranza per il futuro?
    “Noi ci ripetiamo spesso un’espressione: umanizzare l’umanità. Il caffè è molto più di una tazzina: una bevanda di pace, è sempre l’inizio di una storia di rigenerazione. Vendiamo 33 miliardi di tazzine all’anno, dal 2010 il nostro fatturato è triplicato (3,1 miliardi di euro nel 2023, ndr): tutti gli anni riusciamo ad accumulare le risorse per poter promuovere la crescita e lo sviluppo sociale di chi si trova vicino a noi”. LEGGI TUTTO

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    “100% Rinnovabili Network”, scienziati e ambientalisti contro il ritorno del nucleare

    “Mentre si allunga la lista dei Paesi europei che dicono ‘no’ all’energia nucleare, prima la Germania che ha deciso la chiusura degli ultimi tre reattori, ora la Spagna che entro il 2035 spegnerà le cinque centrali ancora operative, annunciando entrambi i paesi che la percentuale di fabbisogno energetico verrà rimpiazzata dalla rinnovabili, l’Italia che fa? E’ l’unico Paese che mette nero su bianco che vuole tornare al nucleare, una fonte energetica in forte declino”. Non usa mezzi Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile nella sua analisi al nuovo Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC) il documento che definisce la strategia energetica e climatica del governo Meloni. Inviato alla Commissione europea, è già al centro di critiche. La risposta è infatti in un appello che ha raccolto cento adesioni in poco tempo dal titolo “100% Rinnovabili Network”. Un appello a non ripetere l’errore.

    Dopo l’anteprima dei giorni scorsi, ieri c’è stata la presentazione ufficiale dell’iniziativa che riunisce movimenti, associazioni, ma anche rappresentanti del mondo accademico e imprenditoriale e personaggi di spicco della società civile. Tra loro Ermete Realacci, presidente di Symbola; il meteorologo Luca Mercalli; Carlo Petrini fondatore di Slow Food; Jacopo Fo di ReteEcofuturo oltre i leader delle associazioni ambientaliste tra cui Legambiente, WWF, Greenpeace, Kyoto Club, ma anche della Cgil, Cnr Acli, Arci, Libera, Banca Etica, Forum terzo settore. Cento firme che chiedono al governo di rivedere la politica energetica virando sulle rinnovabili, tra cui emerge il mondo accademico italiano. Tra i firmatari ci sono docenti universitari, fisici e ricercatori (da Maria Cristina Facchini, direttrice dell’Isac-Cnr a Marco Frey della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, da Giuseppe Scarascia Mugnozza dell’università della Tuscia a Roberto Danovaro, docente di biologia dell’università Politecnico delle Marche.

    A ottobre gli stati generali
    “Sono 36 le istituzioni accademiche e universitarie che hanno aderito e questo per noi è un segnale forte” ha tenuto a sottolineare Ronchi che ha annunciato per settembre la riunione a Roma degli stati generali del network in una grande iniziativa pubblica per discutere di politica energetica “per un’Italia libera dalle fossili e dal nucleare”.

    Quale strada intraprendere
    Intanto nella sede nazionale del WWF i promotori dell’appello, forti delle cento firme, hanno fatto il punto sul Piano nazionale integrato per l’energia “che non è credibile e praticabile”. Si perché se l’obiettivo a cui anche l’Italia deve arrivare è quello di tagliare del 55% le emissioni che alterano il clima entro il 2030, bisogna capire quale strada intraprendere. E se il governo Meloni da parte sua ha deciso per un rilancio del nucleare, per i firmatari dell’appello non solo sarebbe un danno per l’ambiente, ma nemmeno conveniente dal punto di vista dei costi.
    “Dati alla mano, l’unica strada che l’Italia deve seguire per un futuro energetico sostenibile e per contrastare la crisi climatica è quella tracciata dallo sviluppo delle rinnovabili, solare, eolica, idrica, biomassa, geotermica, in grado di produrre fino al 100% di energia a bassi impatti ambientali e a costi economicamente convenienti al contrario del nucleare – ha ribadito Ronchi – una posizione sorprendente perché i dati dell’International Energey Agency mostrano un netto declino dell’impiego dell’energia nucleare e un forte aumento dei suoi costi. Tra il 2010 e il 2022 in Europa c’è stato un calo del 29% dell’energia nucleare, mentre nello stesso periodo le rinnovabili sono cresciute del 66%. Anche perchè il prezzo del chilowattora da rinnovabili è ormai molto più basso di quello del chilowattora da nucleare anche calcolando i costi dell’accumulo”.

    “Nemmeno sappiamo dove costruire il deposito nazionale”

    E a chi replica che oggi grazie alla tecnologia ci sono nuovi modelli di reattori più piccoli rispondono: “Una proposta che venne già presa in considerazione negli anni Ottanta e che è stata bocciata – ha detto Giuseppe Onufrio di Greenpeace – Per produrre la stessa quantità di energia di un EPR da 1.650 megawatt bisognerebbe costruirne almeno sei, cioè trovare per sei volte il consenso necessario sui territori. Tutto questo in un Paese che non riesce a trovare un luogo dove costruire il deposito nazionale delle scorie nucleari, proprio per la forte opposizione delle comunità locali. Inoltre l’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti ha recentemente analizzato le diverse tipologie di SMR proposti e ha concluso che con i piccoli reattori la produzione di rifiuti nucleari aumenterebbe in modo consistente. Esistono un’ottantina di progetti diversi allo studio, ma i prototipi funzionanti di SMR sono pochissimi: uno in Russia, un altro in Cina. Entrambi hanno avuto costi tra il triplo e il quadruplo del previsto. Un terzo in costruzione in Argentina. Quanto è costato? Otto volte più del previsto”. LEGGI TUTTO

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    Cellulari vietati in classe, le reazioni. “Decisione a metà, le superiori sono il momento più critico”, “Sconfitta per i genitori”, “Non si insegna a colpi di divieti”

    Iniziativa condivisibile, quella del ministro Valditara sul divieto dei cellulari a scuola e sull’uso del corsivo. Ma poco coraggiosa. Ecco le reazioni alla circolare pubblicata ieri dal ministero dell’Istruzione e del merito su due argomenti oggetto di studio ormai da anni da parte di neuroscienziati, pedagogisti, psicologi e addetti ai lavori. LEGGI TUTTO

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    Carlo Ratti: “Travisati i dati sulle strade a 30 all’ora. La misura funziona”

    Carlo Ratti, il ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha detto che le città con un limite di velocità a 30 chilometri orari creano “più code e inquinamento, e i dati scientifici esterni pubblicati ci danno finalmente ragione”. Si riferisce alla sua ricerca.
    “I dati che ho presentato all’Urban Mobility Council qualche giorno fa non sono stati interpretati correttamente dalla stampa…”.

    Ci sono decine di siti web con lo stesso titolo: “Le città a 30 chilometri orari hanno più inquinamento”. Come è stato possibile travisare il senso della ricerca?
    “Non lo so, forse potevamo stare più attenti anche noi. In realtà la slide sulle emissioni avevamo deciso di levarla dalla presentazione perchè lo scostamento era irrisorio e non teneva conto degli effetti nel medio periodo…”.

    Nel suo intervento infatti non ne parla mai.
    “Mai. Ma quella slide per qualche ragione è finita nella cartellina stampa e i giornalisti hanno fatto il resto… Ripeto: noi avremmo dovuto essere ancora più chiari ma in venti anni che dirigo il Senseable City Lab del MIT una cosa simile non mi era mai successa”.

    Qualcuno ha insinuato: visto che tra i promotori del Forum ci sono diverse case automobilistiche i risultati della ricerca sono stati aggiustati.
    “Impossibile: chi paga una ricerca del MIT non ha alcuna influenza sui risultati. E l’evento era organizzato da Unipol che in quanto compagnia di assicurazione ha piuttosto l’interesse a sostenere una soluzione che riduce moltissimo gli incidenti stradali e la loro gravità”.

    E’ quello che lei afferma nella prima slide della sua presentazione: le 40 città europee a 30 chilometri orari hanno registrato “una forte riduzione degli incidenti (23%), della mortalità (37%), e dei feriti (38%)”. Basterebbe questo per dire che sono un toccasana.
    “Ma c’è di più. Noi stessi, in un’altra ricerca, abbiamo dimostrato che l’introduzione delle Zone 30 a Parigi ha impattato positivamente l’attività pedonale ed economico-sociale delle strade coinvolte. Ha reso quelle aree della città più vibranti, più vive. E’ tornata la vita di quartiere”.

    Con i dati reali, cioè tratti dalle auto circolanti e forniti da Unipol, avete studiato gli effetti su Milano.
    “?Il nostro studio a Milano, che usa i big data in maniera innovativa, si è concentrato sulla predizione dei tempi di percorrenza: analizzando oltre 3.4 milioni di viaggi si vede che i tempi di percorrenza aumentano in maniera irrisoria (appena 34 secondi nello scenario più drastico, di riduzione del limite su tutte le strade residenziali e terziarie del territorio comunale). Le Zone 30 non hanno quindi un impatto negativo dal punto di vista dei tempi di percorrenza”.

    Quindi: 34 secondi in più in media per ogni viaggio in cambio di una riduzione della mortalità del 37 per cento: ce lo possiamo permettere.
    “Sì. E poi c’è il dato sulle emissioni che riporta un leggero incremento – ma irrisorio – per quanto riguarda CO2 e PM nelle Zone 30”.

    Perché le emissioni dovrebbero aumentare?
    “Perché gli attuali motori sono progettati per avere una maggiore efficienza attorno ai 50 chilometri orari. Ma la verità è che le zone 30 scoraggiano l’uso dell’auto e favoriscono le biciclette e la scelta di andare a piedi e quindi le emissioni totali sono destinate a diminuire”.

    Diciamolo una volte per tutte, anche per quelli che non vogliono capire: cosa avete scoperto?
    “L’interpretazione corretta dei dati è: l’aumento delle emissioni è insignificante e peraltro le emissioni, man mano che si riduce l’uso delle automobili, scenderanno. E i tempi di percorrenza sono praticamente costanti. Le code non esistono. Sono due ottimi motivi per fare le zone 30 e non il contrario. Ma questi due dati sono diventati: la città a 30 chilometri orari aumenta code e inquinamento. La verità è che non c’è nulla di negativo nelle zone 30 e ci sono anzi molti aspetti positivi”.

    Quindi il suo consiglio è fare le zone 30 ovunque?
    “Non ovunque. Anzi, adesso con l’intelligenza artificiale vogliamo analizzare dove i limiti sono giusti e dove invece sono sbagliati. Sono controproducenti. Stiamo studiando la possibilità di limiti dinamici, magari in base alle fasce orarie della giornata. E a Parigi stiamo usando l’intelligenza artificiale visuale per studiare delle modifiche alla configurazione delle strade che inducano automaticamente uno stile di guida diverso. Senza bisogno di autovelox”.

    La ricerca è finita?
    “I dati sono quelli che ho menzionato. L’analisi sarà oggetto di revisione paritaria in ambito scientifico nei prossimi mesi. Poi saranno disponibili i risultati definitivi”.

    Cosa le insegna questa vicenda?
    “Che in questo mondo bianco e nero, così polarizzato, un concetto appena più elaborato come quello che abbiamo provato ad esprimere noi, una cosa che richiede un ragionamento che va oltre il numero dei caratteri di X/Twitter e che implica quattro pensieri collegati, non viene colta, non passa. E’ come se la gente non vedesse la sottigliezza ma soltanto quello che vuole vedere, rovesciando il senso del messaggio. La prossima volta dovremo essere più bravi a spiegarci”. LEGGI TUTTO

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    Copenaghen premia i turisti green che raccolgono rifiuti o arrivano a piedi e in bici

    Se pianificate di andare in vacanza a Copenaghen tra il 15 luglio e l’11 agosto prossimi, date un’occhiata a questo sito: Visitcopenhagen.com/copenpay. Potreste scoprire che, in cambio di piccoli comportamenti di turismo sostenibile, avrete l’opportunità di sorseggiate gratis un caffè in un museo del centro o di fare un giro in kayak per i canali della capitale danese senza pagare.L’iniziativa, per ora in fase di sperimentazione, è stata ribattezzata CopenPay e voluta dall’ufficio turistico della città: alla base c’è l’idea di incentivare i comportamenti virtuosi dei tanti che scelgono Copenaghen come meta di vacanze (l’anno scorso 12 milioni di pernottamenti). Piccole cose: muoversi in bici e con i mezzi pubblici anziché con l’automobile, tenere pulita la città e i suoi canali, magari andando “a pesca” di rifiuti su apposite barchette, unendo così una visita guidata a pelo d’acqua con una azione ecologica.In cambio? Una mappa interattiva della città elenca tutti i servizi che si possono ottenere: se si arriva in bici o a piedi, un tuffo gratis nel canale su cui si affaccia la stazione balneare di Kanalhuset; se si è fatta una azione green si ha diritto a 45 minuti di noleggio gratuito di una bici della compagnia Donkey Republic; dimostrando di non essere arrivati in automobile al Museo di Copenaghen si ha diritto a una tazza di caffè; un gelato invece attende che si è spostato in modo sostenibile per visitare il Muso Nazionale Danese; un aperitivo verrà offerto dal Level Six Rooftop Bar & Terrace; chi raccoglierà la spazzatura nell’area BaneGaarden guadagnerà un pasto biologico gratuito; chi, partecipando a un corso di surf, contribuirà a pulire la spiaggia riceverà un pranzo gratuito alla Copenaghen Surf School.

    Biodiversità

    Australia, vietato abbracciare i koala nello storico santuario

    di Giacomo Talignani

    05 Luglio 2024

    In tutto le attrazioni che hanno aderito all’iniziativa sono 24. E c’è anche la celeberrima pista di sci artificiale CopenHill, che “nasconde” il locale termovalorizzatore: arrivando a piedi, in bici o con i mezzi pubblici si avranno 20 minuti di discesa gratis. Chi non ama lo sci, potrà salire in cima alla “pista” e godersi il panorama sorseggiando un caffè.ll progetto è “basato sulla fiducia”, è cioè improbabile che i responsabili di musei e attrazioni chiedano la prova che l’attività ecologica sia stata completata. “In alcune casi potrebbe essere richiesto di mostrare una foto mentre si guida la bici o il biglietto per i trasporti pubblici”, ha spiegato Rikke Holm Petersen, responsabile delle comunicazioni dell’ente turistico. E non ci sono soldi pubblici a finanziare l’iniziativa: le compagnie aderenti hanno scelto di farlo a loro spese. “È un piccolo passo verso la transizione verde”, ha ammesso Petersen. ”Ma come ente turistico, una delle cose che possiamo cambiare è convincere le persone ad agire in modo più sostenibile nella meta delle loro vacanze”.

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    Gaura lindheimeri: coltivazione, cura, esposizione e potatura

    La gaura è una pianta che si trova soprattutto oltreoceano, in Texas e Louisiana. È apprezzata per la sua incredibile resistenza e per la meravigliosa fioritura che avviene tra la primavera e l’autunno.

    Come coltivare all’esterno

    Nonostante questa sia una bella pianta, in Italia non è così diffusa: la gaura, però, ha tutte le carte in regola per poter arricchire il giardino e donare un tocco di colore allo spazio verde. Questa pianta è facile da coltivare: infatti, ha bisogno di un buon terreno che sia drenato per offrire il meglio della sua fioritura. Si può collocare in un’aiuola oppure posizionare lungo i bordi della casa per creare un’area davvero scenografica. I suoi fiori sono particolarmente belli e ricordano una farfalla. I fiori della gaura lindheimeri possono essere di diversi colori: bianchi, rosa oppure un mix bilanciato tra i due colori.

    Coltivazione in vaso

    La gaura è una pianta che si può coltivare anche in vaso. In tal caso, è fondamentale recuperare un contenitore delle giuste dimensioni e sistemare all’interno materiale a sufficienza che garantisce un terreno asciutto e privo di ristagni idrici. È importante collocare uno strato di 3 cm di argilla espansa sul fondo del vaso, poiché questo materiale aiuta proprio a drenare l’acqua. Dopodiché si può aggiungere lo strato di terriccio e invasare la pianta e procedere con l’aggiunta di eventuale terra nei punti in cui non è presente.

    Quanto cresce?

    La gaura lindheimeri è una pianta che può raggiungere addirittura 1,5 metri di altezza se coltivata in piena terra, prendendosi correttamente cura della pianta. Proprio per questo, è da considerarsi un’ottima pianta per creare delle siepi in piena terra. In questa maniera, è possibile realizzare una vera e propria parete fiorita, colorata e profumata, che dona la giusta privacy alla propria abitazione.

    Come comportarsi in inverno?

    Come detto in precedenza, la gaura si presenta come una pianta rustica molto resistente. Infatti, in inverno è in grado di resistere addirittura fino a -15°C. In tal caso, quindi, può essere un’ottima specie da coltivare anche nel nostro paese, specie nelle regioni dove il clima è particolarmente temperato. Nelle regioni dove le temperature calano in maniera importante, è possibile sfruttare il tessuto non tessuto per proteggere la pianta ed aggiungere della pacciamatura.

    Quando e come annaffiarla

    La gaura necessita di annaffiature regolari, ma mai senza eccessi: infatti, proprio come avviene per la maggior parte delle piante, non gradisce troppa acqua. I ristagni idrici possono mettere a rischio la sua vita, portando al marciume delle radici. Un consiglio da tenere presente, specie durante la sua crescita, riguarda anche l’uso del fertilizzante. È suggerito prendere quelli a rilascio lento, così da favorire la fioritura della pianta.

    Dove posizionare la pianta?

    Questa pianta ama un’esposizione in pieno sole o, comunque, in un’area dove parzialmente ha la possibilità di godere di un’ottima esposizione al sole. Infatti, la luce favorisce la crescita dei meravigliosi fiori che sbocciano tra i mesi primaverili, prolungando la loro presenza fino all’autunno.

    Quando occuparsi della potatura?

    Come succede per tutte le piante, la potatura è importante: infatti, quest’azione permette di eliminare i rami secchi e favorisce una crescita più rigogliosa. In questo modo, fiori e foglie saranno presenti in maniera folta e daranno bella mostra di sé in giardino o in balcone.

    Le malattie e gli insetti che danneggiano la Gaura lindheimeri

    Quando la cura e la coltivazione della gaura non sono corrette si può incorrere in malattie. In particolare, un terreno eccessivamente umido favorisce la comparsa di malattie fungine in cui il fogliame e i fiori sono messi a dura prova. La gaura può essere anche attaccata da parassiti se trattata in maniera errata. Il consiglio è di munirsi di prodotti specifici per curare le malattie da funghi oppure per allontanare gli insetti presenti sulla pianta. LEGGI TUTTO