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    Perché il nuovo Papa Leone XIV potrebbe portare nuova luce nella battaglia climatica

    Riuscirà la nuova luce portata da Papa Leone XIV a far riemerge dal buio la lotta alla crisi climatica oggi oscurata da nuovi squilibri globali? È una domanda che molti ecologisti, ambientalisti e persone attente all’ambiente si stanno ponendo dopo l’elezione del nuovo pontefice Robert Francis Prevost. Ci si chiede infatti se il Papa americano sarà in grado di proporre messaggi che sfidino apertamente le politiche di un altro americano, il presidente Donald Trump, che oggi sta contribuendo ad affossare sempre di più la questione ambientale, negando la crisi del clima e cancellando ogni sforzo fatto finora nel tentativo di fermare le emissioni globali che surriscaldano il Pianeta. La risposta, stando alle posizioni tenute da Papa Leone XIV durante il suo percorso da cardinale, potrebbe essere affermativa: Prevost finora ha sempre appoggiato le politiche ambientaliste di Papa Francesco e il senso di quel Laudato Sì che, già nel 2015, diede una grande spinta positiva alle politiche ambientaliste.

    Da Laudato si’ ai messaggi sulla crisi climatica: papa Francesco paladino dell’ambiente

    21 Aprile 2025

    L’idea è che il nuovo papa continui nella stessa direzione, ma come lui stesso ha affermato nel novembre del 2024, sarà necessario passare dalle “parole ai fatti”. Un passaggio dettato dall’urgenza, anche in termini di quelle disuguaglianze sociali da ridurre che è un tema centrale per la Chiesa.

    Curiosamente, proprio il giorno prima della scelta del nuovo pontefice, su Nature Climate Change è stato pubblicato un nuovo studio di un team di ricercatori internazionali che sostiene come il 10% più ricco del mondo sia oggi responsabile di due terzi del riscaldamento globale dal 1990 ad oggi, un fatto che in passato il neo Papa ha implicitamente condannato parlando della necessità di combattere “azioni tiranniche a beneficio di pochi”.

    La nuova ricerca ci ricorda che in sostanza i ricchi, con la loro impronta di carbonio elevata, sono i principali responsabili della crisi del clima che fra aumento delle temperature e riscaldamento dei mari stanno portando ad eventi estremi e siccità che si traducono poi in fame e povertà in molte aree meno sviluppate del Pianeta. Qualcosa che Papa Leone XIV ha potuto osservare da vicino durante le sue missioni in Perù, terra a cui è molto legato e fra le più colpite dalla crisi del clima, così come in larghe parti del Sudamerica, tra cui l’Amazzonia dove a novembre si svolgerà la COP30, Conferenza delle Parti sul clima che potrebbe prevedere anche un intervento del neo Papa. La stessa ricerca parla, a causa delle emissioni dei ricchi, di disuguaglianze sociali e ingiustizie climatiche, sottolineando come i consumi e gli investimenti dei ricchi abbiano avuto un impatto sproporzionato sugli eventi meteorologici estremi e sulle comunità più povere.

    Proprio su questo tema, con parole chiare, si era espresso solo sei mesi fa l’allora cardinale Robert Francis Prevost. “Il dominio sulla natura non deve diventare tirannico” aveva detto”. Deve essere invece un “rapporto di reciprocità” con l’ambiente, sostenne Prevost.

    Stati Uniti

    La Noaa smetterà di monitorare i costi dei disastri causati dalla crisi climatica: “Grave perdita”

    di Luca Fraioli

    09 Maggio 2025

    Durante il suo discorso l’attuale pontefice aveva infatti sottolineato l’urgenza di passare “dal discorso all’azione” parlando di crisi ambientale, un’azione che richiede una risposta radicata nella Dottrina della Chiesa e spiegò come il “dominio sulla natura” delegato da Dio all’uomo non deve essere “dispotico” dato che egli è “amministratore che deve rendere conto del suo lavoro” in un rapporto di “reciprocità” con l’ambiente. “Per questo, la nostra missione è quella di trattarlo come fa il suo Creatore” aveva detto il neo Papa proprio condannando appunto “azioni tiranniche a beneficio di pochi”, una frase che sembra tuttora puntare il dito proprio contro quella parte ricca di mondo che oggi è responsabile di due terzi delle emissioni globali. Sempre Prevost ha poi sottolineato in passato le possibili conseguenze “nocive” degli sviluppi tecnologici, così come evidenziato esempi di “luce” come quelli portati avanti dalla Santa Sede in termini di sostenibilità ambientale, dall’istallazione di pannelli solari sino ai veicoli elettrici e le energie rinnovabili promosse in Vaticano, simbolo di volontà di una svolta green da parte della Chiesa.

    In questo contesto sarà inoltre interessante capire se ora, da Papa, Prevost si esporrà nuovamente contro le politiche del presidente Usa Donald Trump (in passato lo ha contestato su questioni come immigrazione ed espulsioni di cittadini) anche sul clima. Attualmente Trump, dopo l’uscita degli States dagli Accordi di Parigi, sta rilanciando ogni politica anti-clima, dai tagli alla scienza all’implementazione del fossile, del fracking e perfino del deep mining, il tutto mettendosi in contrapposizione al multilateralismo climatico, quello necessario per trovare una soluzione alla crescita delle emissioni. Un negazionismo e oscurantismo sfrenato che, secondo Gina McCarthy, ex amministratrice dell’EPA (Agenzia per la Protezione Ambientale degli Stati Uniti, farà si che quando Trump se ne andrà “lascerà dietro di sé una scia di devastazione”. Proprio nella contrapposizione a Trump e alle sue politiche negazioniste Papa Leone XIV avrà l’opportunità di mostrare il suo sostegno al Laudato Si’ e all’implemento al percorso lanciato da Papa Francesco a protezione della natura e delle persone più povere al mondo e più colpite dalla crisi del clima. Volendo, un palcoscenico internazionale per farlo, lo avrà già fra pochi mesi quando a novembre, in Brasile, i leader del mondo si riuniranno alla COP30 per tentare di affrontare con forza la questione climatica, magari appunto con il sostegno del nuovo Papa in nome di quel “fatti” e non solo parole che sono dottrina di Leone XIV. LEGGI TUTTO

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    Qual è la durata media di un impianto fotovoltaico

    Quando si decide di installare un impianto fotovoltaico, uno degli aspetti più importanti da considerare è la sua durata nel tempo. Un impianto fotovoltaico è un investimento che può offrire significativi risparmi energetici, ma è fondamentale capire quanto durerà prima di necessitare di interventi di manutenzione o sostituzione di componenti. Vediamo dunque cos’è un impianto fotovoltaico, da cosa è composto, come funziona, quanto costa, come si installa e perché conviene.

    Come (e dove) si installa un impianto fotovoltaico e quanto costa
    L’installazione di un impianto fotovoltaico è un processo che richiede attenzione a diversi fattori. Prima di tutto, è fondamentale scegliere la posizione giusta. I pannelli devono essere orientati verso il sud, con una inclinazione di circa 30-35 gradi, per massimizzare l’esposizione al sole. I tetti delle case, ma anche i terreni privati, sono i luoghi più comuni per l’installazione. L’installazione vera e propria inizia con il montaggio dei pannelli solari sulla struttura di supporto, che deve essere robusta e resistente agli agenti atmosferici. Successivamente, i pannelli vengono collegati al sistema elettrico tramite cavi e inverter, che convertono l’energia solare in elettricità utilizzabile. È importante che l’impianto sia collegato a un sistema di protezione contro i sovraccarichi e i cortocircuiti.

    Infine, l’installazione deve essere effettuata da professionisti certificati per garantire la sicurezza e il rispetto delle normative locali. Un impianto fotovoltaico ben posizionato e installato correttamente, nonostante l’investimento iniziale – il costo medio è di 8.000 euro – offre energia pulita e risparmi sui consumi a lungo termine.

    Cos’è un impianto fotovoltaico e come funziona: i componenti di un pannello
    Un impianto fotovoltaico è composto da più pannelli fotovoltaici. Ogni pannello fotovoltaico è composto da diversi elementi essenziali che lavorano insieme per produrre energia solare. Il componente principale è la cellula fotovoltaica, che converte la luce del sole in elettricità grazie all’effetto fotovoltaico. Le celle sono realizzate in silicio, un materiale semiconduttore molto efficiente. Le celle vengono poi unite in serie o in parallelo per formare un pannello. Il vetro temperato che ricopre il pannello protegge le celle solari dagli agenti atmosferici, garantendo al contempo una buona trasparenza per il passaggio della luce. Sotto le celle, c’è uno strato di film antiriflesso, che riduce le perdite di luce e migliora l’efficienza del sistema.

    Al di sotto delle celle c’è la cornice in alluminio, che rende il pannello resistente e facile da installare. Inoltre, il cavo di connessione e l’inverter (un dispositivo esterno) trasformano l’elettricità continua in corrente alternata, pronta per l’uso domestico o industriale. Ogni parte di un pannello fotovoltaico ha un ruolo preciso nel garantire una produzione di energia solare ottimale e duratura. È bene controllare con costanza tutte le componenti nel tempo per essere sicuri che il pannello continui a lavorare con efficienza e senza problemi.

    La durata dei pannelli fotovoltaici
    La durata media di un impianto fotovoltaico si aggira generalmente tra i 20 e i 30 anni. I pannelli solari, che costituiscono la parte principale del sistema, sono progettati per durare decenni. La loro efficienza diminuisce leggermente nel tempo, ma con una buona manutenzione e condizioni di utilizzo ottimali, i pannelli possono funzionare anche oltre i 30 anni. In media i pannelli fotovoltaici perdono circa 0,5% – 1% della loro efficienza ogni anno. Questo significa che dopo 20-25 anni, i pannelli potrebbero generare circa l’80% dell’energia che producevano inizialmente, mantenendo comunque un buon rendimento. Alcuni produttori offrono garanzie di 25 anni sul rendimento, assicurando che i pannelli non scendano sotto una certa soglia di efficienza.

    Durata degli inverter
    Uno degli altri componenti cruciali di un impianto fotovoltaico è l’inverter, che trasforma l’energia prodotta dai pannelli in corrente alternata utilizzabile in casa. La durata dell’inverter è più breve rispetto a quella dei pannelli fotovoltaici: generalmente è tra i 10 e i 15 anni. A causa dell’usura e della continua operatività, potrebbe essere necessario sostituirlo prima di altri componenti. La durata dell’inverter dipende da vari fattori, tra cui la qualità del modello, la manutenzione e le condizioni ambientali. Un inverter ben mantenuto e di alta qualità può durare più a lungo, ma in generale, è una parte dell’impianto che richiede attenzione periodica.

    Manutenzione e cura dell’impianto fotovoltaico
    Per prolungare la durata di un impianto fotovoltaico è fondamentale eseguire una manutenzione regolare. In genere i pannelli fotovoltaici richiedono poca manutenzione, ma è consigliabile pulirli periodicamente per rimuovere polvere, foglie o sporco che potrebbero ridurre l’efficienza. Inoltre è consigliato monitorare l’impianto tramite appositi sistemi di controllo che permettono di rilevare eventuali anomalie o cali di rendimento. L’inverter, invece, potrebbe necessitare di ispezioni più frequenti. In alcuni casi, potrebbe essere utile farlo sostituire prima che raggiunga la fine della sua vita utile, per garantire il massimo della performance dell’impianto. In generale, dunque, un impianto fotovoltaico è una soluzione a lungo termine che può durare tra i 20 e i 30 anni, con i pannelli solari che continuano a produrre energia per la maggior parte di questo periodo. Nonostante la necessità di sostituire l’inverter ogni 10-15 anni, l’investimento iniziale si ripaga nel tempo grazie ai risparmi sulla bolletta energetica. LEGGI TUTTO

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    Perché Blair è contro la transizione ecologica?

    Un “reset” alla logica delle zero emissioni. Un malcelato invito a rallentare la transizione energetica basata sulla eliminazione dei combustibili fossili a breve termine e sulla riduzione dei consumi. Perché? Perché è un approccio “destinato a fallire”, trattandosi di strategie ambientali “irrazionali”, legate a una “piattaforma climatica irrealistica e quindi impraticabile”. E soprattutto perché sarebbe sbagliato, sostiene, chiedere agli elettori dei Paesi sviluppati sacrifici finanziari e cambiamenti allo stile di vita “quando si sa che il loro impatto sulle emissioni globali è minimo”. Lui è Tony Blair, ex primo ministro britannico (lo è stato da 1997 al 2007). E dire che al suo nome sono legate le prime reali misure contro il cambiamento climatico nel Regno Unito, facendo del contrasto al global warming una priorità nel G8 del 2005. Oggi, scrive il “Guardian”, potrebbe invece diventare “una seria minaccia per una politica climatica sensata”. A far emergere nuove preoccupazioni il documento che il Tony Blair Institute for Global Change (TBI), il suo think tank, ha pubblicato nei giorni scorsi. La prefazione è proprio a firma di Blair. Pochi i giri di parole. “I leader politici – scrive – sanno che il dibattito è diventato irrazionale. Ma sono terrorizzati all’idea di ammetterlo, per paura di essere accusati di essere negazionisti del clima”.

    “Un rapporto confuso e fuorviante”
    Immediate le reazioni. Di “rapporto confuso e fuorviante” parla per esempio l’economista Nicholas Stern, la cui storica analisi del cambiamento climatico, pubblicata proprio dal governo Blair nel 2006, è diventata punto di riferimento. “Si stanno facendo molti più progressi in tutto il mondo per decarbonizzare l’economia globale di quanto si pensi. – aggiunge – E il rapporto minimizza il contributo della scienza, in quanto non percepisce il senso di urgenza né la necessità che il pianeta raggiunga l’obiettivo di zero emissioni nette il prima possibile, al fine di gestire la crescita degli impatti del cambiamento climatico che stanno già danneggiando famiglie e imprese in tutto il mondo e nel Regno Unito. Rimandare è pericoloso”. Di “analisi debole e soluzioni sbagliate” parla, invece, Bob Ward, direttore politico del Grantham Research Institute della London School of Economics: “Si trascura la certezza che più tempo ci vorrà per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette nel Regno Unito e nel mondo, più famiglie e imprese soffriranno dei crescenti impatti del cambiamento climatico”.

    Crisi climatica

    Il 2024 è il primo anno in cui si superano gli 1.5 gradi rispetto al livello preindustriale

    di redazione Green&Blue

    10 Gennaio 2025

    E il rischio insito nel dossier è che, come denuncia Shaun Spiers, direttore esecutivo del think tank “Green Alliance”, “si maturi l’idea che gli attivisti abbiano già fatto la loro parte e ora combattere il cambiamento climatico sia un compito per le élite, non per la gente comune”. Il che favorirebbe “il gioco dei populisti minando il sostegno del grande pubblico al contrasto diffuso al cambiamento climatico”. Un vero e proprio polverone, che ha spinto il Tony Blair Institute for Global Change a parlare di cattive interpretazioni, provando a sottolineare come gli autori del rapporto si siano già pronunciati a favore degli obiettivi e delle politiche per le zero emissioni nette. Un dietro front poco convincente, tanto più che il rapporto è stato intanto ben accolto di conservatori, a cominciare dalla leader Kemi Badenoch, leader del Conservative Party, che sul tema ha da tempo le idee chiare. E dal fronte progressista arrivano letture più profonde sulle posizioni di Blair in merito alla crisi climatica e, ancor di più, sulla sua vicinanza alle petrolpotenze arabe. Frequentazioni e consulenze che, a partire dalle sue dimissioni da primo sinistro, avrebbero influenzato la visione di Blair. Insomma, per dirla con una delle fonti citate dal “Guardian”, “aggirarsi in cerchie di potere espressione di nazioni autoritarie e con politiche spesso basate sui combustibili fossili avrebbe distorto la sua visione”.

    L’amicizia con Al Jaber, mister Cop 2023
    Sotto la lente d’ingrandimento anche la presunta amicizia con Sultan Ahmed Al Jaber, ceo della compagnia petrolifera nazionale degli Emirati Arabi Uniti, la Adnoc, tra le figure imprenditoriali più imponenti dell’intero mondo arabo e presidente della Cop28 del 2023, ospitata da Dubai (con buona pace degli ambientalisti, che a lungo contestarono la scelta). Il ruolo di Blair da consigliere di Al Jaber, in quella circostanza, non sarebbe in discussione, malgrado TBI abbia dichiarato al “Guardian” che l’ex primo ministro non fosse stato pagato. Nel corso della Cop, ad ogni modo, si raggiunse lo storico accordo di “abbandonare i combustibili fossili”. Eppure a quella successiva, in Azerbaigian, altro stato dalla forte vocazione petrolifera, con un ruolo diretto del think tank di Blair, i riferimenti alla transizione dai combustibili fossili sparirono, come per incanto. E chissà cosa accadrà a novembre in Brasile, dove ci sarà il vertice Cop30: il Paese, che conta di riaffermare l’impegno di eliminare gradualmente i combustibili fossili spingendo i paesi a presentare nuovi piani per la riduzione delle emissioni di gas serra, avrebbe rifiutato l’offerta di una consulenza gratuita del think tank di Blair. Che, per inciso, nel contestato rapporto della scorsa settimana ha scritto, senza troppi fronzoli: “Qualsiasi strategia basata sull’eliminazione graduale dei combustibili fossili a breve termine o sulla limitazione dei consumi è una strategia destinata a fallire”.

    Finanza climatica

    Cosa prevede l’accordo sui finanziamenti per il clima raggiunto alla Cop29

    25 Novembre 2024

    Il “Guardian” ha così provato a capire quanto le relazioni di Blair in Medio Oriente, dove ha a lungo ricoperto l’incarico di inviato per la pace, abbiano inciso sulla sua visione. E da un portavoce di TBI arriva una risposta quasi seccata: “Perché chi non è d’accordo con le argomentazioni esposte da TBI nel documento non le affronta, invece di concentrarsi sulle presunte motivazioni?”. Ribadendo come “una politica basata sull’eliminazione a breve termine dei combustibili fossili semplicemente non è credibile, me dimostrano i fatti. La domanda di combustibili fossili sta aumentando, non diminuendo. E molti paesi in via di sviluppo hanno bisogno sia dell’energia che del reddito che deriva dai combustibili fossili”. Di qui l’esigenza di “un mix di politiche differenti”, dicono le fonti vicine a Blair. “Da buon sussurratore globale, Blair non fa altro che proporsi come consigliere”, denuncia Tom Burke, co-fondatore del think tank verde E3G. “Ma quello che ha detto è nell’interesse dei gruppi sauditi che hanno donato milioni al suo istituto, non certo di tutti noi”, aggiunge Ami McCarthy, responsabile politico di Greenpeace UK. LEGGI TUTTO

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    Barbecue: quale scelta tra carbone, elettrico e gas

    Quando le temperature diventano più miti e i primi raggi di sole fanno capolino, cosa c’è di meglio di una grigliata in compagnia? Che sia in giardino, nel cortile, sulla terrazza, è sempre un’occasione per fare festa in famiglia o con gli amici, celebrando l’arrivo della bella stagione. Certo la spensieratezza potrebbe essere un po’ minore se si pensa alla sostenibilità.
    Uno studio pubblicato nel 2025 su Applied Sciences e realizzato dai ricercatori del Politecnico di Varsavia, in Polonia, indica, infatti, che la cottura alla griglia contribuisce non poco all’aumento dei livelli di PM1, ovvero le particelle inquinanti di dimensioni inferiori a 1 micron (un millesimo di millimetro), che hanno un’elevata capacità di penetrare nell’apparato respiratorio, causando irritazioni, asma, riduzione della funzionalità polmonare. Non stiamo suggerendo, ovviamente, di mettere al bando questi piacevoli momenti conviviali, ma semmai di organizzarli e gestirli con maggiore consapevolezza. Nel rispetto dell’ambiente e anche della nostra salute.
    Il tipo di carbone fa la differenza
    Importante è anzitutto la scelta del dispositivo di cottura. Dal punto di vista delle emissioni, i barbecue a carbone sono in generale quelli che rilasciano più inquinanti. Anche se il tipo di carbone impiegato può fare la differenza: da un lato c’è il carbone vegetale in pezzi di legno tostato, dall’altro le bricchette auto infiammabili imbevute di sostanze chimiche. Secondo gli esperti, il carbone vegetale, commercializzato come un prodotto più naturale, potrebbe effettivamente limitare le emissioni atmosferiche. Inoltre, avrebbe anche il potenziale per diventare carbon neutral, perché realizzato a partire dal legno, che potrebbe essere recuperato in modo sostenibile. Nella realtà, però, ciò avviene di rado. Le bricchette sono, al contrario, generalmente prodotte con scarti e rifiuti del legno, il che potrebbe evitare l’abbattimento degli alberi.

    Cibo e ambiente

    Carne coltivata si riapre lo scontro, Coldiretti in piazza ma c’è chi difende l’Efsa

    di Fiammetta Cupellaro

    18 Marzo 2025

    Tanti additivi nocivi
    In entrambi i casi, come riporta The Atlantic, la questione si riduce a come viene reperito e prodotto il carbone. Difficile, comunque, che quest’ultimo sia puro. Uno studio del 2020 ha rivelato che molti carboni, sia in pezzi sia in bricchette, contengono vari additivi, tra cui metallo, plastica, resina, biomassa. E maggiore è la quantità di contaminanti presenti, peggiori saranno le emissioni derivanti dalla combustione. Per limitare tale contaminazione, l’Europa sta imponendo alcuni standard che i produttori devono rispettare, insieme a un test di conformità.

    Dal gas naturale al grill elettrico
    Oltre ai barbecue a carbone, ci sono quelli a propano e a gas naturale. Sebbene emettano minore inquinamento rispetto alla carbonella, bruciano comunque combustibili fossili, una fonte di energia non rinnovabile. Se si sceglie questo dispositivo per grigliare, il propano è solitamente preferibile al gas naturale, perché è più efficiente e brucia più velocemente e a temperature più elevate, consumando, quindi, meno combustibile. In generale, l’opzione più ecologica in fatto di barbecue sarebbe un grill elettrico collegato a una rete di energia rinnovabile.

    Il libro

    “Noi e gli animali, ripensiamoci. Anche a tavola”

    di Marino Midena

    03 Aprile 2025

    Meglio evitare la carne
    Tuttavia, se la selezione del dispositivo non può essere lasciata al caso, lo stesso vale per il cibo da grigliare: di solito carne, spesso rossa. Una pessima scelta, che non fa bene né al nostro organismo, né agli animali, né all’ambiente: basti pensare che le mucche allevate per la produzione di bistecche e costine provocano il 14,5% delle emissioni globali di gas serra ogni anno. Per fortuna, le alternative non mancano. Si possono, per esempio, provare il tofu, le verdure di stagione, gli hamburger a base vegetale. Piatti gustosi, salutari e soprattutto etici. E per chi proprio non volesse rinunciare alle proteine animali, ecco un compromesso: rosolare pollame o maiale che, se non altro, generano minori emissioni rispetto ai bovini.

    I consumatori possono ridurre l’impatto dell’85%
    Attenzione anche allo spreco alimentare, che ha un impatto sull’ambiente non trascurabile. Per ridurre lo sperpero è importante acquistare le quantità necessarie, conservare correttamente i prodotti, riutilizzare eventuali avanzi per i pasti futuri. Inoltre, è bene ricordare che sia un ridotto ciclo di vita del barbecue sia procedure di smaltimento non idonee possono aumentare gli effetti negativi di una singola grigliata. Secondo uno studio pubblicato nel 2024 su Sustainability e condotto dai ricercatori dell’Università di Stoccarda, in Germania, i comportamenti dei consumatori possono avere un’influenza significativa sulla sostenibilità: in particolare, la combinazione di tutte le pratiche virtuose è in grado di ridurre l’impatto ecologico del barbecue fino all’85%. LEGGI TUTTO

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    Inquinamento atmosferico, emerge il legame tra Pm10 e rischio Parkinson

    Lo smog ci fa ammalare. Sotto accusa: i livelli di microparticolato Pm10 nell’aria. Principali fonti di queste micropolveri sono gli scarichi delle automobili, la fuliggine, la combustione del legno, le industrie, le attività agricole e zootecniche che le immettono nell’aria dove possono restare sospese. Una volta respirate, le polveri sottili scendono nei polmoni. Ma se fino adesso gli effetti nocivi a breve e lungo termine sulle salute sono stati analizzati per le malattie respiratorie, cardiopolmonari e cardiovascolari e l’indebolimento del sistema immunitario, un nuovo studio rivela una possibile connessione tra Parkinson.
    La ricerca “Moli-sani”
    La ricerca coordinata dall’Irccs Neuromed di Pozzilli, l’Università Lum di Casamassima (Bari), l’Università dell’Insubria (Varese) e la Sapienza è stata pubblicata sulla rivista Parkinson’s Disease. Si basa sull’analisi di un ampio campione della popolazione italiana, i partecipanti al progetto epidemiologico Moli-sani, che coinvolge 25 mila adulti residenti in Molise la cui salute viene monitorata da 20 anni. Di queste persone è stata valutata l’esposizione ad alcuni inquinanti ambientali, in particolare le cosiddette Pm10, particelle inferiori a 10 millesimi di millimetro presenti nell’aria che possono penetrare nelle vie respiratorie e venire assorbite dall’organismo. Partendo dai dati forniti dall’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale del Molise (ARPA Molise), provenienti da quattordici stazioni di monitoraggio, i ricercatori hanno ricostruito un quadro dettagliato dell’ambiente in cui ciascun partecipante ha vissuto nel corso degli anni, incrociando queste informazioni con le diagnosi di Parkinson.

    L’esposizione al Pm10
    “Abbiamo osservato – spiega il primo autore Alessandro Gialluisi dell’Università Lum di Casamassima – che un incremento dei livelli di Pm10 nell’aria si associa a un notevole aumento del rischio di sviluppare il Parkinson. Questa associazione appare indipendente da una serie di altri fattori di rischio che includono l’età, il sesso, altre patologie prevalenti e fattori occupazionali”. Il dato ottenuto attraverso lo studio di una popolazione italiana e con un lungo periodo di osservazione supporta l’ipotesi di un ruolo centrale delle polveri sottili nell’incrementare il rischio di malattia.
    Una proteina, il possibile mediatore
    “Un dettaglio interessante dello studio – prosegue Gialluisi – riguarda la lipoproteina(a), una molecola che ha un ruolo nel rischio cardiovascolare, che interagisce con l’alfa-sinucleina. Questa proteina è risultata, infatti, un possibile mediatore della relazione tra Pm10 e rischio di Parkinson, spiegandone una piccola, ma significativa parte. Naturalmente saranno necessari ulteriori studi per chiarire a fondo il suo ruolo”. Il lavoro scientifico si colloca in un ambito di ricerca più ampio che da alcuni anni studia i fattori di rischio per l’insorgenza di patologie neurologiche.

    Crisi del clima

    Più arsenico nel riso a causa del cambiamento climatico

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    23 Aprile 2025

    “La malattia di Parkinson è una delle principali cause di disabilità nella popolazione anziana – sottolinea il professor Alfredo Berardelli, professore emerito di Neurologia presso l’Università la Sapienza e coordinatore dell’Unità di Ricerca e di Neurofisiopatologia Clinica dell’Ircss Neuromed – Comprendere i fattori ambientali che possono contribuire al suo sviluppo è fondamentale per pensare a strategie di prevenzione efficaci, che possano affiancarsi agli sforzi in atto nella ricerca farmacologica”.

    Inquinamento

    La spuma che rimuove i Pfas dal percolato delle discariche

    di Dario D’Elia

    10 Maggio 2025

    Smog e clima: patologie legate all’invecchiamento
    Lo studio è parte del progetto PNRR AGE-IT che studia gli effetti dell’inquinamento atmosferico e il cambiamento climatico sulle patologie legate all’invecchiamento. “L’inquinamento atmosferico è uno dei più rilevanti problemi di salute pubblica a livello mondiale – commenta la professoressa Licia Iacoviello, responsabile dell’Unità di Epidemiologia e Prevenzione del Neuromed – Questo studio aggiunge un tassello importante al quadro dei danni che l’esposizione a inquinanti può provocare soprattutto in una popolazione fragile come gli anziani, evidenziando l’urgenza di politiche ambientali mirate a ridurre le emissioni di particolato fine, a tutela non solo della salute respiratoria e cardiovascolare, ma anche di quella neurologica”. LEGGI TUTTO

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    “Sostenibilità o competitività: un falso dilemma”: al via il Festival dello sviluppo sostenibile

    Mille e duecento eventi da Bolzano a Siracusa, dal 7 al 23 maggio: torna da oggi il Festival dello Sviluppo Sostenibile: l’ASviS (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) inaugura la nona edizione del Festival dello Sviluppo Sostenibile a Milano presso il Museo Nazionale Scienza e Tecnologia “Leonardo da Vinci”, con un incontro dal titolo “Sostenibilità […] LEGGI TUTTO

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    Clima, particelle di aerosol nel cielo per abbassare le temperature

    Dopo aver causato il cambiamento climatico, innalzando le temperature con le emissioni inquinanti, stiamo cercando di correre ai ripari. In ritardo, e con una consapevolezza incerta rispetto ai rischi che stiamo correndo. Ora che l’evoluzione climatica a noi sfavorevole, è in atto stiamo tentando di ristabilire l’equilibrio. Una delle tecniche più controverse per raffreddare la Terra, si chiama geoingegneria solare: un processo che raffredda in modo artificiale il pianeta, riflettendo una parte della luce solare nello spazio.

    Non si agisce sulle emissioni
    In realtà, non si agirebbe sulla causa del cambiamento climatico (cioè le emissioni di gas serra), ma sulla mitigazione degli effetti, abbassando la temperatura terrestre in modo temporaneo.Uno dei processi già noti, prevede l’immissione di particelle di aerosol riflettenti nell’atmosfera, come i solfati, imitando gli effetti di grandi eruzioni vulcaniche, che raffreddano temporaneamente il clima e che potrebbero essere rilasciate utilizzando aerei commerciali già esistenti, senza la necessità di sviluppare velivoli appositi. Questo è quanto suggerisce un nuovo studio guidato da ricercatori dell’University College London e pubblicato sulla rivista Earth’s Future, che esamina la tecnica nota come iniezione stratosferica di aerosol.

    Una strategia alternativa
    Si era ipotizzato che fosse necessario intervenire a quote molto elevate – oltre i 20 chilometri – e con aerei progettati su misura, quindi dai costi molto elevati. Il nuovo studio indica una strategia alternativa, secondo cui le particelle di aerosol rilasciate a circa 13 chilometri di altezza sopra le regioni polari, potrebbero avere dei buoni risultati, anche usando aerei come il Boeing 777F.
    Nella stratosfera
    La ricerca dimostra che spruzzando 12 milioni di tonnellate di diossido di zolfo all’anno in primavera ed estate, in prossimità dei poli nord e sud, si potrebbe abbassare la temperatura media globale di circa 0,6°C. Un raffreddamento paragonabile a quello registrato dopo l’eruzione del vulcano Pinatubo, sull’isola di Luzon, nelle Filippine, nel 1991.Il team di ricerca ha utilizzato il modello climatico UKESM1 per simulare gli effetti dell’iniezione di diossido di zolfo (che forma particelle riflettenti) in diverse aree e stagioni. Iniezione che sarebbe effettuata a latitudini di circa 60° – equivalenti a città come Oslo o Anchorage, in Alaska – sfruttando il fatto che la stratosfera è più vicina al suolo nei pressi dei poli, permettendo a normali aerei modificati di raggiungerla.

    L’intervista

    “Per vincere la sfida climatica dobbiamo cambiare mentalità. Il momento è adesso”

    di Giacomo Talignani

    22 Aprile 2025

    Tecnica controversa
    Tuttavia, la geoingegneria solare è una tecnica molto controversa, che “comporta rischi significativi e necessita di ulteriori ricerche”, ha dichiarato Alistair Duffey, dottorando presso il Dipartimento di Scienze della Terra della UCL, secondo il quale “l’analisi mostra che raffreddare il pianeta con questa tecnica potrebbe essere più semplice del previsto, il che apre riflessioni su tempi e modalità di attuazione.”
    Ma quali sono le limitazioni? Rilasciando aerosol al di sotto dei 20 km da Terra, l’efficacia è ridotta di circa un terzo rispetto all’iniezione ad alta quota, il che implicherebbe l’utilizzo di tre volte più aerosol, aumentando i rischi collaterali come le piogge acide. Questo perché con l’iniezione di anidride solforosa a 20 km, le particelle restano nella stratosfera per diversi anni, mentre per pochi mesi a 13 km.
    Da utilizzare per scenari di emergenza
    Inoltre, raffredda soprattutto le zone polari e molto meno i tropici, dove gli effetti del cambiamento climatico sono spesso più gravi. Certamente per scenari di emergenza climatica potrebbe avere senso, perché il pianeta si raffredderebbe con rapidità, ma bisogna fare i conti con gli effetti collaterali globali imprevedibili, come le piogge alterate, cambiamenti nei monsoni, acidificazione. E ancora, se venisse interrotta questa pratica, le temperature potrebbero risalire rapidamente. Infatti, qualsiasi iniezione di aerosol stratosferico dovrebbe essere introdotta gradualmente e ridotta gradualmente, per evitare impatti catastrofici dovuti a un riscaldamento o raffreddamento improvviso.
    “Non è una scorciatoia: bisogna agire sulle emissioni”
    Gli autori avvisano che la geoingegneria non sostituisce la necessità di ridurre le emissioni di gas serra. “Non è una scorciatoia, né una soluzione miracolosa” avverte uno degli autori, Matthew Henry, dell’Università di Exeter, per il quale “solo arrivando a emissioni nette zero potremo ottenere una stabilità climatica duratura”. LEGGI TUTTO

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    Biennale 2025: l’architettura impara dalla scienza per combattere la crisi del clima

    Per decenni la progettazione architettonica ha cercato di rispondere alla crisi climatica con la “mitigazione”, cercando di ridurre il nostro impatto, ma oggi questo approccio non è più sufficiente. Stiamo vivendo nell’età dell’adattamento: le condizioni climatiche ci costringono a ripensare nuovi modi di vivere e abitare. Questo è il messaggio che la Biennale Architettura 2025 che s’inaugura il 10 maggio (pre apertura il 7-8-9) invia al mondo. “L’architettura rappresenta da sempre una risposta alle sfide poste dalle condizioni climatiche. Fin dalle ‘capanne primitive’, la progettazione umana è stata guidata dalle necessità di ripararci per sopravvivere: le nostre creazioni hanno cercato di colmare il divario tra ambienti ostili e spazi sicuri e vivibili. Oggi però per affrontare un mondo in fiamme l’architettura deve sfruttare tutta l’intelligenza che ci circonda”.

    Carlo Ratti, curatore della Biennale Architettura 2025  LEGGI TUTTO