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    Lithops: cura, coltivazione, varietà e prezzo dei “sassi viventi”

    Sembrano sassi, ma sono piante. Si chiamano Lithops, sono succulente e appartengono alla famiglia delle Aizoaceae. Piccole ed esteticamente particolari, queste piante grasse arrivano dalle regioni dell’Africa meridionale e dalla Namibia, dove il clima è molto diverso dal nostro e dove l’estate è calda e l’inverno è mite. Particolari e assolutamente uniche nel loro genere, queste piantine hanno la capacità di mimetizzarsi tra le rocce, aspetto che consente loro anche di proteggersi in modo del tutto naturale dai predatori. Crescono lentamente, sviluppando coppie di foglie carnose divise da una fessura centrale, da cui spuntano fiori a forma di margherita nella stagione autunnale. Questa straordinaria adattabilità li rende piante perfette per chi cerca un connubio tra estetica originale e resistenza alle condizioni più secche. Ma come ci si prende cura dei Lithops e come si coltivano? Qui una guida completa, alla scoperta dei sassi viventi.

    Cura dei Lithops: consigli pratici per i “sassi viventi”
    Prendersi cura dei Lithops significa rispettare il loro ciclo vegetativo. La luce è essenziale: queste piante prosperano con esposizione luminosa intensa, ma è fondamentale evitare il sole diretto nelle ore più calde. Troppa luce diretta può bruciare le foglie, alterandone i colori e compromettendo la salute della pianta.

    Il terreno deve essere ben drenante. La combinazione ideale prevede sabbia grossolana, pietrisco e terriccio per succulente, in modo da evitare ristagni d’acqua che potrebbero causare marciume radicale. I Lithops necessitano di annaffiature limitate: durante il periodo di riposo vegetativo (primavera ed estate) è sufficiente fornire acqua solo occasionalmente. Con l’arrivo dell’autunno, invece, quando la pianta produce nuove foglie, si può aumentare leggermente l’irrigazione, sempre con moderazione.

    Un trucco utile per chi coltiva Lithops in casa è osservare attentamente la pianta: foglie morbide o rugose indicano bisogno d’acqua, mentre foglie gonfie possono segnalare un eccesso di irrigazione.

    Coltivazione dei Lithops: come farli crescere in casa
    Coltivare i Lithops in appartamento è possibile anche in spazi ridotti. Vasi piccoli e profondi consentono alle radici di svilupparsi senza ostacoli, mentre posizionare la pianta vicino a finestre luminose garantisce l’apporto di luce necessario. La temperatura ideale è compresa tra 15°C e 25°C ed è importante evitare ambienti troppo umidi, soprattutto durante l’inverno.

    Chi desidera un controllo più preciso sul microclima può utilizzare mini-serre domestiche o coperture trasparenti che mantengano temperatura e umidità costanti. Per le piante coltivate all’aperto, è essenziale ripararle da piogge intense e gelate improvvise, replicando le condizioni aride dei loro habitat originari.

    Varietà di Lithops: forme e colori più diffusi dei “sassi viventi”
    Esistono numerose varietà di Lithops, ciascuna con caratteristiche uniche. Tra quelle più gettonate e conosciute, è bene ricordare:

    Lithops aucampiae: sfumature rosate e verdi, superficie liscia e lucida;
    Lithops karasmontana: macchie marroni che richiamano la terra arida africana;
    Lithops lesliei: striature simmetriche e toni grigio-verdi;
    Lithops optica: forma quasi perfettamente sferica con colori pastello delicati;
    Lithops dorotheae: pattern complessi e tonalità che vanno dal beige al marrone scuro.

    La diversità estetica li rende ideali per collezioni, terrari e composizioni decorative. Alcune varietà rare possono raggiungere valori significativi sul mercato, trasformando il loro possesso in un vero e proprio investimento per gli appassionati.

    Lithops: curiosità e consigli pratici
    I Lithops sono perfetti da tenere esposti in casa: coltivarli è semplice e l’effetto estetico che donano è molto apprezzato anche da chi non è abituato al pollice verde. I fiorellini, che generalmente nascono in autunno, sono molto simili a margherite e rispetto al corpo della piantina sono di grandi dimensioni. Il contrasto è dunque immediato e rende i Lithops ancora più unici.

    Il loro nome deriva dal greco lithos (pietra) e ops (simile a), un chiaro richiamo al loro mimetismo naturale. Sapevate che sono piante longeve? Se curate in modo adeguate, un Lithops può vivere oltre 20 anni: quasi un quarto di secolo, insomma.

    Infine, ma non per minore importanza, questi sassi viventi sono perfetti per interni moderni: infatti, si adattano bene a composizioni minimaliste, terrari di vetro e decorazioni da scrivania. Ottime anche come idea regalo.

    Perché scegliere i Lithops
    I Lithops rappresentano l’equilibrio perfetto tra estetica e semplicità di cura; con pochi accorgimenti, luce adeguata e annaffiature mirate, è possibile avere in casa piante scenografiche e resistenti. I “sassi viventi” sono la scelta ideale per chi ama la natura ma dispone di poco tempo: grazie a loro, trasformare finestre, terrazzi o balconi in piccoli angoli di deserto africano non sarà più impossibile. LEGGI TUTTO

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    Cosmetici bio dagli scarti dei pistacchi

    Kymia nasce a Bronte, nel cuore della Sicilia, ai piedi dell’Etna, da un’intuizione semplice ma potente: trasformare ciò che oggi è considerato uno scarto agricolo in una risorsa preziosa per la salute e la longevità. L’idea prende forma osservando il potenziale inespresso del mallo del pistacchio, una materia prima ricchissima di antiossidanti e polifenoli che, pur essendo di altissimo valore biologico, viene quasi sempre eliminata durante la lavorazione del frutto. Arianna Campione e Anna Cacopardo sono le cofondatrici di Kymia, startup nata nel 2022 in un territorio simbolo del pistacchio siciliano.

    Startup

    Dal siero di latte i prodotti per la cosmesi

    di Gabriella Rocco

    08 Novembre 2025

    Dal mallo del pistacchio alla cosmetica
    Arianna Campione, medico odontoiatra specializzata in medicina estetica anti-age e cosmetologia, e Anna Cacopardo, esperta in marketing industriale e startup, con competenze differenti ma unite da una stessa visione, hanno deciso di partire dal luogo d’origine del pistacchio, Bronte, per creare un’impresa pionieristica capace di valorizzare il territorio e generare un impatto ambientale positivo.

    Il cuore dell’innovazione risiede nello sviluppo di una tecnologia proprietaria di estrazione e purificazione che preserva l’integrità dei principi attivi del mallo del pistacchio, trasformandoli in ingredienti funzionali, stabili e performanti. “Non si tratta più di scarto, ma di una nuova risorsa biologica che trova una seconda vita grazie alla ricerca scientifica”. La tecnologia, replicabile e sostenibile, è basata su un modello di economia circolare che valorizza scarti agricoli sottraendoli all’incenerimento e alle discariche.

    Food e ambiente

    Cibo del futuro, la biotecnologia aiuta a creare alimenti più sani e sostenibili

    di Gabriella Rocco

    05 Novembre 2025

    Il processo di estrazione sostenibile
    La startup ha brevettato a livello internazionale un processo proprietario di estrazione sostenibile che consente di isolare dal mallo del pistacchio molecole bioattive di grande valore, come i polifenoli, senza l’uso di solventi chimici dannosi.

    “Il primo prodotto sviluppato, M-Active, rappresenta il risultato di questa ricerca: un ingrediente naturale ricco di antiossidanti, interamente sviluppato in Italia con un approccio circolare e rispettoso dell’ambiente”, raccontano le fondatrici. Kymia sta attualmente concludendo un round di investimento da 800 mila euro, che si aggiunge ai 135 mila euro già raccolti negli anni precedenti. I primi capitali hanno consentito l’ingresso nel mercato della cosmetica. “La nostra ambizione è quella di diventare un punto di riferimento per l’innovazione biotech italiana nel campo della longevità naturale, partendo dal Made in Italy”. LEGGI TUTTO

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    L’intelligenza artificiale per prevenire i disastri climatici

    Dati, algoritmi, mappe geospaziali. E poi alberi, radici, suolo, biossido di carbonio. Markus Reichstein, direttore scientifico del dipartimento di integrazione biogeochimica del Max Planck Institute for Biogeochemistry di Jena1 e direttore della ELLIS Unit Jena2 per l’intelligenza artificiale applicata al clima, è tra gli scienziati che più si stanno spendendo per integrare le nuove tecnologie nei sistemi di monitoraggio e previsione dei rischi ambientali. Il suo lavoro parte da un’intuizione potente: ogni evento estremo, ogni perturbazione che colpisce un ecosistema lascia tracce. Sta all’IA imparare a leggerle. Lo ha spiegato a margine dell’AIS25, il summit sull’intelligenza artificiale svoltosi a Copenaghen il 3 e 4 novembre sotto l’egida della Presidenza danese dell’UE, in collaborazione con la Commissione europea e l’Università di Copenaghen.

    Dalla previsione del meteo all’impatto sul territorio
    Reichstein ha presentato una serie di progetti che mostrano come l’uso integrato di AI, dati satellitari e modelli fisici possa anticipare eventi climatici complessi e fornire alle istituzioni strumenti per intervenire prima che i danni diventino irreversibili. “L’intelligenza artificiale è già stata molto efficace nel migliorare le previsioni meteorologiche. Ma il nostro punto è che può fare molto di più”, ha spiegato dal palco. “Possiamo passare dalla previsione del meteo all’allerta precoce sugli impatti, ovvero capire cosa il clima fa davvero agli ecosistemi e alle persone”. Un esempio arriva dalla Germania. Due eventi identici di pioggia intensa: 200 millimetri d’acqua in 24 ore. Uno, nel 2021, causa centinaia di vittime e danni enormi nell’ovest del Paese. L’altro, nell’est, non provoca disastri. “Stesso evento meteorologico, ma impatti completamente diversi. In un caso, il terreno argilloso e il paesaggio collinare hanno canalizzato l’acqua, creando onde distruttive. Nell’altro, suoli sabbiosi e rilievi dolci hanno assorbito l’acqua: l’evento ha addirittura aiutato a ricaricare le falde. Serve capire come il paesaggio reagisce al meteo”.

    L’IA come interprete della complessità ecologica
    “Prevedere l’impatto è più difficile che prevedere il tempo: l’atmosfera segue equazioni fisiche consolidate. Ma quando scendiamo al suolo entriamo in un sistema con alberi, erbe, animali, suoli molto complessi, e qui un modello fisico puro non basta”. L’obiettivo è una previsione a 10 o 20 metri di risoluzione, “per sapere cosa accadrà nel tuo campo, nel tuo giardino, alla tua casa”. Qui l’IA diventa fondamentale. Grazie ai dati dei satelliti Sentinel, è possibile osservare con continuità il comportamento dei territori. “Possiamo vedere come reagiscono a diversi climi e meteo, e creare modelli guidati dall’intelligenza artificiale che ci dicono quali saranno gli impatti”. Alcuni sono già operativi: “Abbiamo già ottime previsioni per la vegetazione e per le inondazioni, usando approcci puramente data-driven”.

    Visualizzare il rischio per reagire meglio
    Un altro ambito promettente è la comunicazione del rischio. “Nel caso dell’alluvione in Germania, la previsione era precisa, ma gli allarmi non sono stati presi sul serio. Le autorità non riuscivano a immaginare cosa significassero 200 millimetri o sei metri d’acqua. L’IA può dare avvisi più intuitivi: immagini fotorealistiche di strade allagate, case sommerse. L’idea è che le persone reagiscano meglio se il messaggio è più visivo”. L’IA generativa può addirittura superare i limiti umani: “Quando le persone sono sotto stress, possono avere pregiudizi, sottovalutare o esagerare. Se addestrata con attenzione, l’IA può produrre avvisi migliori di quelli umani”. Il prossimo passo? “Due, in particolare. Primo: integrare nei modelli anche i dati economici, censuari, sociali, per capire davvero gli impatti sulla società. Secondo: anticipare i rischi sistemici e composti, come siccità, incendi e ondate di calore che si sovrappongono. Per farlo servono modelli fondativi, in grado di integrare tutti questi dati diversi e restituire risposte immediate”.

    RAISE e la sfida della coesione europea
    In questo contesto si inserisce anche RAISE (Resource for AI Science in Europe), la nuova piattaforma virtuale lanciata il 3 novembre dalla Commissione europea durante AIS25. “È positivo che l’Europa abbia una strategia chiara e in accelerazione sull’AI. RAISE è un buon primo passo verso una maggiore competenza, ma saprà creare una vera coesione tra Paesi? Per ora, è un inizio promettente”. L’IA è uno strumento, non un fine La sfida è far sì che questi strumenti non restino confinati nei laboratori. “Serve una governance globale. L’accesso alle informazioni ambientali e alla capacità di agire non può essere un privilegio”. LEGGI TUTTO

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    Il problema delle tigri siberiane: sempre più affamate in un habitat ridotto, ora fanno più paura

    In Siberia le tigri fanno sempre più paura. Perché, a quanto pare, si sono avvicinate ai margini dei villaggi. Arrivando a “minacciare” sempre più i residenti. Accade dal 2020, le conseguenze ora fanno notizia: lo scorso gennaio un pescatore è stato sbranato nel cuore della notte, poche settimane dopo una tigre ha ucciso un guardaboschi, a marzo un nuovo attacco. Per quello che è passato agli archivi come l’inverno più mortale per attacchi di tigri agli esser umani da diversi decenni a questa parte. Con alcune regioni che registrano un aumento del 1000% degli incidenti tra essere umani e tigri. Un fenomeno che porta, immancabilmente, anche a una recrudescenza dei fenomeni di repressione e prevenzione: tra ottobre 2024 e settembre 2025, 17 tigri sono state uccise e 27 catturate, spesso emaciate o disidratate (a conferma di progressive difficoltà di alimentazione), non di rado già con ferite per armi da fuoco o traumi da incidente stradale.

    Un equilibrio sembra dunque essersi rotto: qui, nella provincia russa che comprende la maggior parte dell’Asia del Nord, le tigri dell’Amur o tigri siberiane, una sottospecie nota con il nome scientifico di Panthera tigris altaica Temminck, erano a lungo state presenze elusive, quasi avvolte nella leggenda. Difficile incontrarle. E poi, cosa è accaduto? Perché si sono fatalmente avvicinate ai centri abitati, anzitutto ingolosite dal bestiame, cavalli e bovini su tutti, e infine attaccando le persone? Tra i ricercatori l’ipotesi più diffusa, evidenziata da un recente articolo del The Guardian, è che la peste suina – che in questi anni, a partire dal 2018, si è diffusa in Siberia – abbia colpito un gran numero di cinghiali, tra le prede predilette per le tigri, portando in generale a un consistente disastro ecologico, con enormi ripercussioni sugli ecosistemi e su altre specie.

    Anche perché contestualmente hanno agito il bracconaggio incontrollato (con una drastica riduzione delle popolazioni di cervi) e il progressivo disboscamento negli areali di distribuzione delle tigri: una sorta di “tempesta perfetta”, che impone oggi serie riflessioni. Riflessioni che rischiano di ricadere su un terreno particolarmente scivoloso: già nel 2008, il presidente russo Vladimir Putin aveva sostenuto con forza gli sforzi per la conservazione della tigre dell’Amur, impegnandosi ad aumentare il numero di esemplari anche attraverso l’istituzione di un ente ad hoc, l’Amur Tiger Center. Ufficialmente gli esemplari in natura sarebbero 750, con una ripresa della specie significativa rispetto agli anni ’40 del secolo scorso, quando la sottospecie rischiò l’estinzione. Ma non tutti i ricercatori sono così ottimisti.

    E sulle cifre, naturalmente, ci sono posizioni discordanti. Di attacchi mortali agli esseri umani parla Sergey Aramilev, direttore generale dell’Amur Tiger Center, che prova a minimizzare le preoccupazioni per un fenomeno che “resta molto raro, con un totale di 20 attacchi dal 2010 al 2024, che hanno causato 13 feriti e 7 morti”.

    E, sulla scia peraltro di quanto avvenuto qualche mese fa in Nepal (“In un paese così piccolo, abbiamo più di 350 tigri, sono troppe, non possiamo lasciare che divorino gli umani”, sbottò il primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli), anche qui – ai confini tra Russia e Cina, tensioni e preoccupazioni sono già “esplosi”: i cittadini di alcuni villaggi chiedono a gran voce più protezione dagli attacchi delle tigri. Basterebbe forse, spiegano gli esperti, ridurre l’impatto del disboscamento sugli habitat delle tigri, che farebbero volentieri un passo indietro. Peste suina permettendo. LEGGI TUTTO

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    In Cina scoperta una nuova specie di rana “kung fu”

    Una nuova specie di rana è stata scoperta nella città di Foshan, nella provincia del Guangdong, nella Cina meridionale. Le è stato dato il nome di Leptobrachella kungfu, ispirato all’arte marziale cinese, in onore dell’eredità culturale di Foshan, rinomata “Città del Kung Fu”. Questa scoperta, realizzata congiuntamente dai ricercatori del Politecnico di Ingegneria per la […] LEGGI TUTTO

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    Haworthia: coltivazione, cura, fioritura e varietà più diffuse della pianta grassa da interno

    La Haworthia è una pianta grassa da interno sempre più popolare tra gli appassionati di piante succulente. Apprezzata per la facilità di coltivazione e la sua adattabilità agli ambienti domestici, è una delle scelte più indicate per chi desidera portare un tocco di verde in casa senza impegni eccessivi.
    Originaria del Sudafrica, la Haworthia si caratterizza per le foglie carnose disposte a rosetta, spesso attraversate da venature o striature bianche che ne accentuano l’aspetto ornamentale.

    Caratteristiche della Haworthia
    Appartenente alla famiglia delle Asphodelaceae, la Haworthia comprende oltre 150 specie. Le foglie sono compatte, succulente e di colore verde intenso o grigiastro. Alcune varietà mostrano trasparenze sulle punte, un adattamento evolutivo che permette alla luce di filtrare verso l’interno della pianta anche in ambienti ombreggiati.
    A differenza di molte altre succulente, la Haworthia cresce bene anche con luce indiretta, il che la rende ideale per appartamenti e uffici.

    Coltivazione della Haworthia
    La coltivazione della Haworthia è semplice, ma richiede alcune regole base. Partendo dal substrato, bisogna tenere conto di un aspetto fondamentale: deve essere ben drenante. Infatti, la miscela ideale è composta da terriccio per cactacee, sabbia e perlite o pomice, mentre il vaso deve avere un ottimo foro di drenaggio, perché il ristagno d’acqua è la principale causa di marciume radicale (nemico di quasi tutte le piante).

    Le annaffiature devono essere moderate: in primavera ed estate si irriga ogni 10–15 giorni, solo quando il terreno è completamente asciutto. In inverno si può sospendere quasi del tutto.

    Haworthia: esposizione e temperatura
    La Haworthia preferisce un ambiente luminoso ma non esposto al sole diretto, che può provocare macchie sulle foglie. Le posizioni migliori sono vicino a finestre rivolte a est o ovest.

    È una pianta che tollera bene le temperature domestiche (tra i 18 e i 25°C) e resiste a brevi periodi di freddo, purché non si scenda sotto i 10°C. In estate può vivere anche all’aperto, purché riparata dai raggi diretti nelle ore più calde.

    Come prendersi cura della Haworthia e come mantenerla
    La cura della Haworthia è minima ma costante. Non è difficile da gestire, ma è chiaro che ha bisogno di piccole attenzioni da ricordare. Ad esempio, è particolarmente consigliato rimuovere periodicamente la polvere dalle foglie, rinvasare ogni due anni (in primavera) e somministrare un concime liquido per succulente ogni 30 giorni durante la stagione di crescita.

    Una Haworthia curata mantiene foglie turgide e colorazione uniforme; se la pianta dovesse tenere a sbiadire o se le foglie dovessero afflosciarsi, potrebbe essere sintomo di una irrigazione troppo abbondante o di una poca esposizione alla luce.

    Fioritura della Haworthia
    La fioritura di questa meravigliosa succulenta avviene in genere tra la primavera e l’estate. La Haworthia produce sottili steli floreali con piccoli fiori bianchi o verdastri dall’aspetto semplice ma grazioso, che talvolta possono anche raggiungere i 30cm di altezza. Non si tratta di una fioritura appariscente, ma rappresenta un indicatore di buona salute e di condizioni di coltivazione ottimali.

    Le varietà di Haworthia più diffuse
    Tra le varietà più conosciute di Haworthia e quelle maggiormente reperibili nei vivai e garden center troviamo:

    Haworthia fasciata: è la specie più popolare, che presenta foglie rigide e striature bianche trasversali;
    Haworthia attenuata: molto simile ma con foglie più sottili e una crescita più compatta;
    Haworthia cooperi: presenta foglie traslucide e tondeggianti;
    Haworthia cymbiformis: dalle foglie a forma di barchetta e un verde brillante.

    Tutte facili da gestire, perfette anche per chi è alle prime armi con il giardinaggio indoor. Le giuste attenzioni, il giusto tempo, la giusta cura e il giusto amore: sono queste le regole da seguire.

    Perché scegliere una Haworthia per la casa
    Scegliere una pianta di Haworthia significa scegliere sia l’aspetto ornamentale, sia l’aspetto sostenibile. È una pianta che si adatta bene a ogni tipo di ambiente, non richiede cure complesse, occupa poco spazio e contribuisce anche a migliorare la qualità dell’aria negli ambienti chiusi. Non solo, perché grazie alla sua estetica decorativa, è oggi considerata una delle piante da interno più consigliate per chi ha voglia di introdurre un angolo verde sempre curato senza troppa fatica. È la scelta giusta: più Haworthia per tutti. Anche in ufficio. LEGGI TUTTO

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    Miniere sottomarine: una minaccia per la catena alimentare negli oceani

    I rifiuti scaricati dalle attività minerarie in acqua profonde rappresentano una grave minaccia per il già delicato equilibrio degli ecosistemi marini. A lanciare l’allarme è oggi un nuovo studio coordinato dall’Università delle Hawaii a Manoa, secondo cui appunto l’estrazione dei minerali nelle profondità nell’oceano Pacifico potrebbe compromettere la vita marina nella cosiddetta zona crepuscolare, o mesopelagica, un’area compresa tra i 200 e i 1.500 metri sotto il livello del mare che ospita una sorprendente varietà di forme di vita, dai minuscoli krill ai pesci, calamari, polpi e meduse. Lo studio è stato pubblicato su Nature Communcations.

    I rischio dell’attività mineraria
    Per valutare gli effetti dei rifiuti minerari sugli ecosistemi marini, i ricercatori si sono focalizzati sulla Clarion-Clipperton Zone (Ccz), un’enorme area dell’oceano Pacifico diventata nota ultimamente per la presenza sul fondale di grandi giacimenti minerari, e in particolare di noduli (concrezioni) polimetallici, ossia ricchi di minerali critici, come rame e cobalto. Un’area, quindi, che potrebbe essere destinata all’estrazione mineraria in acque profonde, processo che consiste appunto nel prelevare i noduli polimetallici, producendo al contempo sedimenti di scarto, contenenti acqua e le particelle dei noduli polverizzate, che una volta rigettati in mare danno vita a pennacchi torbidi che possono avere impatti significativi sulla vita marina.

    Crisi climatica

    Clima, appello di Guterres a Cop30: “Obiettivi più ambiziosi o conseguenze devastanti”

    di Giacomo Talignani

    28 Ottobre 2025

    I sedimenti diluiscono le particelle cibo
    Analizzando campioni d’acqua raccolti nella zona mesopelagica in cui sono stati scaricati i rifiuti minerari nel 2022, durante una sperimentazione mineraria nella Ccz, i ricercatori hanno scoperto che le particelle di scarto hanno le stesse dimensioni delle particelle di cibo che normalmente vengono ingerite dallo zooplancton che nuota a quelle profondità. L’esposizione ai rifiuti, quindi, porterebbe a una denutrizione di questi piccoli organismi che costituiscono i principali elementi nutritivi dell’oceano, con il potenziale di sconvolgere l’intera catena alimentare.

    “La nostra ricerca suggerisce che i pennacchi minerari non solo creano acqua torbida, ma alterano anche la qualità del cibo disponibile, soprattutto per gli animali che non riescono a nuotare via facilmente”, ha spiegato il co-autore Jeffrey Drazen. “È come riversare calorie vuote in un sistema che ha funzionato con una dieta ben calibrata per centinaia di anni”.

    Biodiversità

    Oceani sempre meno verdi, negli ultimi 20 anni è diminuito il fitoplancton

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    17 Ottobre 2025

    Dagli oceani alla nostra tavola
    I risultati del nuovo studio sollevano preoccupazioni sugli effetti a lungo termine che potrebbero verificarsi se l’attività di estrazione mineraria proseguisse su larga scala in assenza di adeguate misure di salvaguardia ambientale. Senza considerare che la pesca del tonno del Pacifico opera proprio sulla Ccz, e potrebbe quindi avere un impatto negativo sui pesci che finiscono sulle nostre tavole. “L’estrazione mineraria in acque profonde non è ancora iniziata su scala commerciale, quindi questa è la nostra occasione per prendere decisioni consapevoli”, ha commentato Brian Popp, tra gli autori dello studio.

    Biodiversità

    Una spugna carnivora tra le nuove 30 specie trovate negli abissi dell’Oceano Antartico

    di Pasquale Raicaldo

    04 Novembre 2025

    La speranza, quindi, è che lo studio possa contribuire a orientare le decisioni normative attualmente in fase di elaborazione da parte dell’International Seabed Authority e della statunitense National Oceanic and Atmospheric Administration. “Prima di avviare l’attività mineraria commerciale in acque profonde è essenziale valutare attentamente la profondità a cui vengono scaricati i rifiuti minerari”, ha concluso Drazen. “Il destino di queste colonne di rifiuti minerari e il loro impatto sugli ecosistemi oceanici varia a seconda della profondità, e uno scarico improprio potrebbe causare danni alle comunità, dalla superficie al fondale marino”. LEGGI TUTTO

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    Il clima che cambia e viaggi in aereo: turbolenze più frequenti e voli cancellati

    Uragani diventati più violenti e persistenti; ondate di calore e piogge intense che possono danneggiare piste e hangar; incendi. La crisi climatica non è solo ambientale, ma anche una sfida per la sicurezza degli aeroporti e per l’efficienza dell’aviazione mondiale. A preoccupare sono soprattutto gli eventi meteorologici estremi dovuti al riscaldamento globale che provocano infatti turbolenze maggiori e, di conseguenza, costi sempre più elevati a causa delle manovre fatte per evitarle; delle interruzioni dei servizi e della manutenzione richiesta. A rivelarlo uno studio svolto dal gruppo di ricerca internazionale guidato dal Laboratorio di Meteorologia Dinamica dell’Istituto francese Pierre Simon Laplace (Lmd-Ipsl), al quale ha partecipato anche l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Roma. I dati, pubblicati sulla rivista Weather and Climate Dynamics, sottolineano quanto sia ormai necessario che il traffico aereo globale si adatti al clima in trasformazione.

    Voli cancellati
    I ricercatori guidati dall’italiana Lia Rapella dell’Istituto francese hanno analizzato alcuni grandi eventi meteorologici che negli ultimi anni hanno avuto un forte impatto sui voli e sulle infrastrutture aeroportuali.

    Ma la ricerca ha analizzato altri grandi eventi meteoreologici che, negli ultimi anni, hanno avuto un forte impatto sui voli e sulle infrastrutture aeroportuali. Tra questi la tempesta Poly, nel luglio 2023, la prima nel suo genere a raggiungere l’Europa interessando Belgio, Germania, Paesi Bassi e Regno Unito; il complesso di tempeste nordamericane del febbraio 2023 che, con grandine, neve e forti venti, attraversò gran parte degli Stati Uniti; il tifone Hinnamnor, nell’agosto 2022, che colpì Giappone, Corea del Sud e altre aree dell’Asia orientale. Facendo un confronto le analisi hanno mostrato una netta intensificazione delle tempeste con il passare degli anni, caratterizzate da venti sempre più forti e turbolenze sempre più estese. Ciò aumenta i rischi soprattutto nelle fasi di decollo e atterraggio.

    Un problema globale
    “Le nostre analisi mostrano che le tempeste che interessano oggi i principali aeroporti del mondo sono più intense e caratterizzate da maggiore velocità del vento e turbolenza rispetto al passato” ha spiegato Tommaso Alberti, ricercatore dell’INGV e co-autore dello studio.

    “L’aumento di intensità di queste tempeste è strettamente legato al riscaldamento globale: atmosfera e oceani più caldi forniscono maggiore energia e umidità, alimentando la crescita e l’intensificazione di questi sistemi di tempesta, ma anche modificando i loro percorsi tipici” ha continuato il ricercatore. “Tutto ciò non comporta solo minore comfort per i passeggeri, ma anche costi operativi più elevati: volare in aree turbolente o evitarle richiede, infatti, più carburante e comporta maggiori spese di manutenzione. Inoltre – aggiunge Alberti – la chiusura temporanea di un aeroporto a causa di una tempesta, anche solo per poche ore, può avere ripercussioni sociali ed economiche considerevoli”. LEGGI TUTTO