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    Gli scienziati contro Bill Gates: “Il suo memorandum sul clima è pericoloso”

    “Gli scienziati si infuriano per il promemoria di Bill Gates sul clima”. “Gli scienziati criticano gli argomenti fantoccio contenuti nel promemoria sul clima di Bill Gates”. “Perché il promemoria sul clima di Bill Gates viene celebrato dagli scettici mentre frustra gli scienziati”. Sono solo alcuni dei titoli che la stampa internazionale ha dedicato alla polemica scoppiata dopo che la settimana scorsa il fondatore di Microsoft, una delle persone più ricche al mondo, e anche tra le più impegnate in operazioni di aiuto finanziario ai Paesi poveri, ha reso noto un documento di 17 pagine in cui sembra cambiare radicalmente idea rispetto alla crisi climatica.

    Il personaggio

    Le due facce di Bill Gates, il latifondista americano che vuole salvare il Pianeta

    13 Aprile 2021

    Dopo essere stato un paladino (e finanziatore) di iniziative volte a ridurre le emissioni di gas serra, oggi Gates scrive: “Il cambiamento climatico è un problema serio, ma non segnerà la fine della civiltà… L’innovazione scientifica lo arginerà, ed è giunto il momento di una ‘svolta strategica’ nella lotta globale al cambiamento climatico: dal limitare l’aumento delle temperature alla lotta alla povertà e alla prevenzione delle malattie”. Naturalmente i negazionisti (veri e quelli per convenienza) hanno colto la palla al balzo, a cominciare dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump: “Io (NOI!) abbiamo appena vinto la guerra alla bufala del cambiamento climatico. Bill Gates ha finalmente ammesso di essersi completamente SBAGLIATO sulla questione”, ha scritto. Un post che ha irritato lo stesso Gates: “La sua è una gigantesca interpretazione errata del mio promemoria”. Ma devono averla interpretata male anche molti climatologi che, con qualche giorno di ritardo in realtà, stanno contestando le parole del multimiliardario e benefattore.

    Il timore principale degli scienziati è che arrivando a poche ore dall’inizio di Cop30, già indebolita dalla defezione della Casa Bianca, il “dietrofront climatico” di un uomo così ricco e influente possa trasformarsi in una “granata narrativa”, come l’ha definita su The Conversation Ryan M. Katz-Rosene, professore di Geopolitica e ambiente all’Università di Ottawa. Una bomba capace di mandare in pezzi il consenso faticosamente creato nell’opinione pubblica e in parte delle forze politiche sull’urgenza di contrastare l’innalzamento delle temperature.

    C’è chi ha analizzato il testo di Gates parola per parola. E, a detta di molti esperti, non ci sarebbero clamorosi errori tecnici nella descrizione di quanto sta accadendo. Anche se il promemoria sembra minimizzare la gravità del riscaldamento globale osservato fino a oggi, prevedendo un innalzamento delle temperature globali che potrebbe arrivare fino a +2,9 °C in più rispetto all’era preindustriale, un dato considerato fin troppo ottimistico da una parte della comunità scientifica. Ma l’ex patron di Microsoft è anche accusato di riporre troppa fiducia in tecnologie ancora in fase sperimentale e spesso controverse, come i piccoli reattori modulari, la cattura e lo stoccaggio del carbonio e la geoingegneria. Secondo Michael Mann, il decano dei climatologi Usa, questa attenzione alle “soluzioni tecnologiche per il clima … ci condurrà su una strada pericolosa”, perché tali approcci possono distogliere l’attenzione dalle strategie di mitigazione che hanno già dimostrato di funzionare e saranno usate come scusa per continuare a bruciare combustibili fossili.

    Infine, il nodo forse centrale: mettere in competizione l’azione contro la crisi climatica e la lotta alla povertà e alla fame. Secondo Gates, visto che il global warming “non porterà all’estinzione dell’umanità”, occorre dirottare energie e denaro sulle emergenze sanitarie ed alimentari che affliggono il Sud del mondo. L’obiezione è che i due interventi (su clima e povertà) non vanno raccontati come alternativi. E soprattutto che gli effetti del cambiamento climatico, se non mitigati, faranno diventare i poveri ancora più poveri e affamati. In definitiva questa conferma che “gli scienziati del clima continuano e continueranno ad affrontare il difficile compito di comunicare il rischio climatico, l’urgenza e l’incertezza, in un contesto politico poco incline alle sfumature e alla complessità”, scrive il professor Katz-Rosene. “Il promemoria di Bill Gates non cambia la scienza. Ma rivela quanto la politica climatica sia sensibile al contesto. E come lo stesso messaggio possa diventare un’arma usata per perseguire obiettivi anche molto diversi”. LEGGI TUTTO

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    Parigi dice basta alla fast fashion, ma uno dei colossi cinesi apre alle Galeries Lafayette

    Fino a 10 mila capi di abbigliamento caricati ogni giorno sulle piattaforme. È questo il trend di produzione dei due colossi cinesi protagonisti dell’ultra-fast fashion. Uno dei business più inquinanti al mondo: la moda a prezzi stracciati in vendita sui canali online che di sostenibile non hanno nulla. Milioni di lavoratori impiegati nella confezione di capi di abbigliamento, prodotti in condizioni precarie in Bangladesh, India e Vietnam e messi sul mercato a meno dieci euro. I loro salari? Inferiori al minimo vitale. Nel 2024, in media uno stipendio si aggirava sui 90 dollari al mese. Eppure il giro di affari che riguarda la fast-fashion è intorno ai 125 miliardi di dollari all’anno.
    Francia, la prima legge
    Un modello consumistico ed economico che da tempo attira su di se critiche per il forte impatto ambientale e sociale. Soprattutto si discute quali regole imporre ai colossi come Temu e Shein. Non è così semplice, visto che se ne sta occupando anche la Commissione europea con la proposta di riforma del codice doganale. A livello di singoli stati, invece è stata la Francia a muoversi per prima varando una legge anti fast-fashion che introduce una tassa ambientale con l’obiettivo di penalizzare le produzioni inquinanti e le ingiuste condizioni di lavoro; un eco-score per valutare l’impatto dei capi (emissioni, risorse utilizzare, riciclabilità); previsto il divieto di pubblicità delle marche dell’ultra fast-fashion e della promozione tramite influencer per questi brand. Fino alla decisione presa dal Ministero delle Finanze di bloccare l’accesso al sito e-commerce di Shein ritenuto colpevole di aver messo in vendita bambole gonfiabili con sembianze di bambini.

    La sostenibilità ‘sfila’ sulle passerelle di moda

    24 Ottobre 2025

    Il primo negozio permanente Shein nel Marais
    Nonostante le proteste e l’indignazione (sono state raccolte 120 mila firme), il gruppo Shein è riuscito ad aprire ugualmente il suo primo negozio permanente nel cuore di Parigi alle Galeries Lafayette. L’operazione è stata possibile proprio per la partecipazione della Société des grands magasins, che gestisce l’insegna Bhv e in franchising alcuni store delle Galeries. Obiettivo: attirare clienti al centro commerciale.

    Ad assistere all’inaugurazione del suo primo negozio fisico (altre aperture sono previste a Digione, Grenoble, Reims, Limoges e Angers nella Valle della Loira) decine di manifestanti accampati davanti ai grandi magazzini. Proteste che non hanno però scoraggiato la folla di acquirenti. Quindi sito bloccato, ma negozio preso d’assalto da curiosi e fan del marchio che si sono messi in fila per acquistare. Tra loro, molti giovani.

    Sostenibilità

    Un’eco-tassa per Shein e Temu: la battaglia della Francia contro il fast fashion

    di Paola Arosio

    16 Luglio 2025

    Il “Green Gap” dei giovani consumatori
    C’è chi in questo comportamento vede una contraddizione tipica della cosiddetta GenZ, ossia una generazione che se da una parte crede nei valori ecologici, dall’altra non sembra metterli in pratica in modo coerente. Un sondaggio del 2024 lo metteva nero su bianco: il 75% dei giovani europei si diceva preoccupato per il cambiamento climatico, ma solo il 22% dichiarava di aver ridotto concretamente i propri acquisti di moda. Spesso infatti le intenzioni ecologiche si scontrano con le abitudini al consumo e soprattutto le possibilità economiche. Ad esempio, molti considerano che l’alternativa sostenibile di una t-shirt, che nel fast-fashion è in vendita a 7 euro, costi troppo. E poi c’è il mondo dei social che determina “appartenze” e anche gusti. Con il “nuovo ricambio di outfit” e microtrend che spesso durano poche settimane. Forse, ed è l’idea comune degli autori di molte inchieste che riguardano il settore del fashion, è arrivato il momento che il mondo della moda, nella sua globalità, si avvii verso un vero cambiamento strutturale. Diventando certo sostenibile ed etico, ma anche accattivamene e soprattutto economicamente accessibile. LEGGI TUTTO

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    Il premio Nobel Omar Yaghi: “Ecco come catturiamo la CO2 dall’atmosfera”

    Omar Yaghi ha appena vinto il Nobel per la Chimica. Ma il suo è soprattutto un messaggio di pace. Quando gli si chiede una opinione su Gaza, viste le sue origini palestinesi, risponde: “Dobbiamo proteggere la sacralità della vita umana. E rifiutare la violenza, in tutte le sue forme. Per me la scienza è un linguaggio che può superare ogni barriera. È anche per questo che abbiamo bisogno della scienza: per educare le nuove generazioni, per impegnare le persone in attività che favoriscano la loro crescita intellettuale, per dialogare con coloro che percepiamo come avversari”. A lui è successo: la scienza l’ha salvato.

    Nato in Giordania da una famiglia di rifugiati palestinesi, ha avuto una infanzia difficile, è volato negli Stati Uniti che era poco più di un bambino, ha lavorato e studiato duramente, fino a ottenere, a soli 60 anni, il più ambito riconoscimento per chi fa ricerca. La Reale Accademia Svedese lo ha premiato, insieme a Susumu Kitagawa e Richard Robson, per aver sviluppato “strutture metallorganiche” o Mof (Metal-organic framework). Dal 2012 insegna chimica alla Berkeley University, in California, ma i suoi studi lo hanno condotto spesso anche in Italia. “Collaboro da anni con Davide Proserpio dell’Università di Milano”, ricorda. E lo scorso dicembre ha ricevuto al Quirinale, presente Sergio Mattarella, il premio Balzan per lo “sviluppo di materiali nanoporosi per applicazioni ambientali”(l’undicesimo Premiato Balzan a prendere il Nobel). La prossima settimana sarà di nuovo a Roma per l’Apertura dell’Anno accademico ai Licei.

    Professore Yaghi, ci spiega cosa sono i Mof?
    “Materiali nei quali ci sono metalli che collegano tra loro molecole organiche, basate cioè sul carbonio. Le strutture così ottenute hanno spazi al loro interno. E dentro quegli spazi si possono intrappolare altre molecole. E’ possibile realizzare Mof ‘su misura’, a seconda della applicazione che se ne vuole fare, per catturare specifiche molecole. L’acqua presente nell’aria, anche in zone desertiche, per risolvere il problema della sete. La CO2 che è in atmosfera e innalza le temperature. Inquinanti presenti nelle acque di fiumi e mari. O anche sostanze tossiche che contaminano il sangue umano”.

    Tutto questo è teoria o realtà? I dispositivi basati sui Mof sono prototipi o già esistono in commercio?
    “Non parliamo di fiction, ma di realtà: noi possiamo già connettere le molecole ai materiali, ai dispositivi e infine alla società. Ci sono già Mof che sono commercializzati e utilizzati nei cementifici, tra gli impianti industriali con le maggiori emissioni di CO2. Per quanto riguarda il prototipo che abbiamo sperimentato nella Death Valley per catturare acqua dall’aria, esso sarà commercializzato a partire dal prossimo anno”.

    Molta speranza è riposta su questi materiali, proprio per la cattura del carbonio presente in atmosfera. Finora le tecniche di carbon capture si sono rivelate troppo costose. In cosa consiste la novità introdotta dai Mof?
    “Le vecchie tecniche di cattura della CO2 richiedono tantissima energia. Con i Mof in alcuni casi può bastare il calore generato dalla stessa industria che deve catturare la CO2, calore che altrimenti andrebbe disperso. Ma non esiste la soluzione miracolosa e immediata, serve un po’ di tempo. Però da un punto di vista scientifico, noi pensiamo di avere la carta vincente per la cattura della CO2. Tutto il resto è ottimizzazione commercializzazione”.

    Lo sviluppo dei Mof risale alla fine degli anni Novanta. A cosa lavora oggi?
    “Già nel 2005, con il mio team, abbiamo inventato i Cof, i framework organici covalenti. E questi materiali si sono rivelarti essere i migliori in assoluto nella cattura della CO2. Stiamo cercando di renderli meno costosi e di industrializzare il processo in modo da passare da alcuni chili di CO2 catturata a molte tonnellate. Siamo sulla buona strada”.

    Una strada iniziata sessanta anni fa ad Amman…
    “Sì, è lì che sono nato, cresciuto e mi sono innamorato della chimica all’età di dieci anni”.

    Come si è trasferito negli Stati Uniti?
    “Fu mio padre a incoraggiarmi. L’aveva fatto anche con i fratelli maggiori, e in effetti uno di loro già viveva negli Usa. Lo raggiunsi, ma dopo il primo anno dovetti trovare lavoro in un supermercato per mantenermi. Non ho frequentato la high school, ma un community college (una alternativa economica alle università e alle scuole professionali private, ndr). Ero il più piccolo della classe”.

    Con queste premesse, come ha fatto ad arrivare al Nobel?
    “Le avversità dell’ambiente circostante non mi hanno fermato. Mi è stato insegnato che se lavori duro sarai valutato per il tuo lavoro. Quando negli Usa me ne è stata data l’opportunità, ho passato così tanto tempo in laboratorio: era impossibile portarmi via da lì. Penso che sia stata proprio questa passione a permettermi di sopravvivere ai tanti fallimenti e di affrontare comunque grandi sfide. Come creare i Mof: all’epoca tutti pensavano che fosse impossibile realizzarli”.

    Come vive le sue origini palestinesi?
    “I media mondiali hanno alimentato un equivoco e vorrei che Green&Blue e Repubblica mi aiutasse a chiarirlo. In molti resoconti giornalistici è stato detto che sono originario di Gaza, lo riporta anche Wikipedia. E’ sbagliato: la mia famiglia viveva nella ‘vecchia Palestina’, in una città che si chiamava Masmiya, tra Giaffa e Gerusalemme. Poi si sono trasferiti in Giordania nel 1948, con la nascita di Israele. Sono orgoglioso delle mie origini palestinesi, della mia famiglia, dell’essere nato e cresciuto in Giordania, della cittadinanza onoraria saudita, dell’essere un cittadino statunitense”.

    La sua storia può essere di incoraggiamento per il tanti bambini palestinesi che hanno sofferto in questi anni di conflitto? “Avere una infanzia molto faticosa, può produrre grande determinazione. Da bambino per frequentare la scuola dovevo camminare tre chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. E se pioveva stavo con i vestiti bagnati in classe tutto il tempo. Ma considero comunque la mia una vita benedetta”. LEGGI TUTTO

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    Cosa coltivare nell’orto a novembre

    Novembre è il mese del riposo per molti orti, ma non per tutti. Se pensate che l’autunno sia sinonimo di terreno incolto e attività ridotta, vi state sbagliando: esistono infatti numerose coltivazioni adatte a questa stagione, capaci di arricchire la tavola e preparare il terreno per la primavera. In questo articolo scopriremo cosa coltivare nell’orto a novembre, con consigli pratici per chi vuole mantenere viva la propria produzione orticola anche in pieno autunno.

    L’importanza di pianificare l’orto a novembre
    Prima di piantare, è fondamentale comprendere il ruolo di novembre nell’orto. Il clima più freddo e le giornate più corte richiedono una strategia precisa: alcune piante necessitano di protezione, altre possono essere seminate direttamente in piena terra. Pianificare l’orto a novembre significa anche proteggere le colture già presenti, migliorare il terreno e prepararlo per i raccolti futuri. Lavorare a novembre offre vantaggi unici: il terreno è spesso meno secco, l’umidità favorisce la germinazione e alcune piante resistono bene al freddo. Non dimenticate inoltre di considerare le gelate notturne, che possono compromettere le coltivazioni più delicate.

    Verdure da semina autunnale: cosa piantare a novembre
    Anche a novembre si possono seminare diverse verdure, soprattutto quelle resistenti al freddo. Tra le più indicate ci sono:
    Spinaci: si adattano bene ai climi freddi e possono essere seminati direttamente in terra. Richiedono un terreno fertile e ben drenato;
    Insalata invernale: lattuga, valeriana e soncino possono essere seminati sotto tunnel o in vaso, garantendo raccolti fino a dicembre;
    Cavoli e broccoli: ideali per chi vuole un orto pronto per l’inverno. Piantarli a novembre permette di ottenere ortaggi robusti e saporiti;
    Piselli da raccolta precoce: alcune varietà resistono al gelo e possono essere seminate direttamente in piena terra per raccogliere in primavera.

    Tecniche di semina invernale
    Per ottenere buoni risultati a novembre, è utile adottare alcune tecniche specifiche. Tra queste compaiono la semina sotto serra o tunnel, la pacciamatura e la scelta di varietà resistenti. Andando ad analizzarle una per volta, scopriamo che: la prima protegge le piantine dal freddo e accelera la germinazione, la seconda consiste in uno strato di paglia o foglie secche per mantenere il terreno umido e per riparare le radici dal gelo, mentre la terza consiste nello scegliere sementi specificamente volte a resistere al freddo e agli sbalzi di temperatura tipici del periodo.

    Coltivazioni in vaso e balcone a novembre
    Non tutti hanno un orto ampio: chi dispone solo di balconi o piccoli spazi può comunque coltivare diverse verdure. Ad esempio, l’orto in vaso nel mese di novembre può includere: erbe aromatiche come rosmarino, timo e salvia, capaci di resistere bene al freddo. Ottime anche le cipolle e l’aglio, che possono essere piantati in vaso e raccolti in primavera. Perfetti per l’autunno anche i cavoli ornamentali, che oltre a decorare, possono essere utilizzati in cucina. Curare le coltivazioni in vaso a novembre significa anche proteggere i vasi dal gelo: avvolgere i contenitori con tessuto non tessuto o spostarli in zone riparate può salvare le piante più delicate. Il freddo può diventare nemico delle piante, quindi la prevenzione è sempre un’ottima via.

    Raccolti autunnali: cosa raccogliere nel mese di novembre
    Novembre non è solo il mese della semina, ma anche un periodo importante per raccogliere gli ortaggi maturi. Le zucche e le zucchette, ad esempio, mostrano tutta la loro resistenza al freddo e possono essere conservate per mesi. Il terreno fresco, invece, mantiene croccanti radici come carote e barbabietole, rendendo ancora più piacevole il loro consumo. Anche cavoli e verze raggiungono la piena maturazione in questo periodo, perfetti per minestre e zuppe calde, e alcune varietà riescono a restare in campo senza problemi, anche sotto la prima neve leggera. Infine, radicchi e cicorie completano il panorama dei raccolti autunnali, offrendo un tocco di colore e sapore all’orto di fine stagione.

    Conservazione dei raccolti
    Dopo la raccolta, gli ortaggi autunnali richiedono cure specifiche per garantirne la durata. Le cantine fresche e asciutte rappresentano l’ambiente ideale per zucche, carote e cavoli, mentre alcune verdure come spinaci e broccoli possono essere sbollentate e conservate in freezer per avere prodotti freschi anche nei mesi successivi. Chi ama la cucina creativa può trasformare zucche e altre verdure in marmellate, sottaceti o zuppe pronte, assicurandosi così di sfruttare al meglio i prodotti più deperibili e di ridurre gli sprechi.

    Preparare il terreno per il prossimo anno
    Novembre è il momento giusto per dedicarsi alla cura del suolo, lavorandolo, arricchendolo e proteggendolo dai danni causati dall’inverno. L’apporto di sostanze organiche come letame e compost migliora la fertilità del terreno, mentre la pacciamatura o le colture di copertura aiutano a prevenire l’erosione e a mantenerlo morbido e fertile. Una leggera lavorazione, infine, aiuta a ridurre il compattamento e facilita il drenaggio dell’acqua piovana, preparando così l’orto a una primavera rigogliosa e a raccolti più abbondanti.

    Errori comuni da evitare
    Coltivare l’orto a novembre richiede attenzione a piccoli dettagli che possono fare la differenza. Seminare piante non adatte al freddo espone le coltivazioni al rischio di gelate premature, mentre trascurare l’irrigazione può compromettere la crescita di alcune specie che, nonostante il clima più fresco, hanno ancora bisogno di acqua regolare. Anche la protezione dal vento e dal gelo è fondamentale: tunnel, pacciamatura e tessuti protettivi sono strumenti preziosi per salvaguardare le piante più delicate. Evitare questi errori permette all’orto di restare produttivo fino a dicembre e di prepararsi al meglio per la stagione successiva.

    Novembre non è un mese morto per l’orto
    Coltivare nell’orto a novembre significa sfruttare il periodo autunnale per seminare, raccogliere e preparare il terreno. Nonostante le giornate corte e il clima più rigido, le possibilità sono molteplici: verdure resistenti al freddo, raccolti autunnali e piante in vaso possono garantire ortaggi freschi fino all’inverno. Con una pianificazione attenta, la scelta delle varietà giuste e le giuste tecniche di protezione, novembre diventa un mese di lavoro prezioso per ogni appassionato di orticoltura. Preparare oggi l’orto significa raccogliere domani: e in questo periodo dell’anno, anche il più piccolo seme può trasformarsi in una grande soddisfazione. LEGGI TUTTO

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    Influenza aviaria, strage di elefanti marini in Patagonia

    L’epidemia di influenza aviaria, che da anni colpisce uccelli selvatici e allevamenti in tutto il mondo ha compiuto un salto di specie devastante. In Argentina migliaia di elefanti marini del sud (Mirounga leonina) sono stati trovati morti lungo le spiagge di uno dei paradisi naturalistici più famosi: la Penisola Valdés. Ad ucciderli un’epidemia di influenza aviaria (H5N1).

    Secondo uno studio coordinato dall’università della California, Davis e dal Wildlife Conservation Society il virus avrebbe ucciso quasi il 97% dei cuccioli. Un evento senza precedenti che potrebbe portare al declino irreversibile degli elefanti marini nel sud in Argentina, con conseguenze a catena su tutto l’ecosistema.
    “È un disastro ecologico di proporzioni inedite per i mammiferi marini. Quando si rimuove una massa così grande, si sconvolge completamente l’equilibrio dell’ecosistema”, ha spiegato Marcela Uhart, veterinaria specializzata in fauna selvatica presso l’università della California, Davis intervistata dalla Bbc.

    “Nessun’altra specie può sostituire gli elefanti marini nell’oceano”. Non solo. Secondo Elizabeth Ashley, ricercatrice della stessa università americana: “La moria di massa registrata tra gli elefanti marini nella Penisola di Valdés potrebbe essere solo la punta dell’iceberg dell’impatto complessivo dell’influenza aviaria sulle foche e sui leoni marini di tutto il mondo, e sulla vita oceanica in generale”. Da tenere poi conto che si tratta dell’unico luogo di riproduzione continentale per la specie, dichiarato dall’Unesco, Patrimonio dell’umanità.
    Il virus che arriva dal cielo
    Con una lunghezza massima di 5,8 metri e un peso di circa 3,700 chili gli elefanti marini del sud sono la specie di foca più grande del mondo. Trascorrono la maggior parte del tempo in mare, ma una volta all’anno migliaia di esemplari si radunano per riprodursi lungo la costa patagonica argentina. Il primo caso di influenza aviaria su questi mammiferi è stato scoperto nel 2023 quando furono trovate centinaia di foche adulte e neonate morte sempre sulla Penisola di Valdés.

    Le analisi genetiche indicarono come il virus (rilevato per la prima volta nel pollame nel 1996) prima si era trasmesso e diffuso velocemente tra gli uccelli selvatici, poi dal 2022 mutazioni successive ne hanno facilitato il passaggio agli elefanti marini.

    I ricercatori, non sanno ancora spiegare come avviene la trasmissione tra le due specie (se per via aerea oppure attraverso le feci o la saliva) ma ritengono responsabili di aver diffuso l’influenza aviaria, gli uccelli marini migratori, come gli stercorari e le procellarie giganti, che si nutrono delle carcasse infette di altri uccelli o mammiferi. Spesso colonie di questo tipo di uccelli marini, infatti, si riproducono proprio lungo le coste della Penisola di Valdés. Ed è in quel momento che gli elefanti marini entrano in contatto con uccelli infetti. Secondo gli scienziati californiani, una volta contagiati gli adulti, il virus viene trasmesso dalla madre ai cuccioli attraverso la placenta e il latte. Hanno anche notato che il virus è in grado di risalire al contrario: dalle foche agli uccelli.

    Biodiversità

    La maggior parte dei pesci negli acquari marini viene catturata in natura

    di Marta Musso

    08 Ottobre 2025

    Crisi del clima e contagio, la tempesta perfetta
    Il colpo inferto a queste colonia è tragico. Sulla base dei dati nuovi e storici, gli autori della ricerca che hanno monitorato le foche in Argentina sin dall’inizio dell’epidemia, stimano che la popolazione impiegherà probabilmente almeno 70 anni per tornare ai livelli precedenti , sempre che non si verifichino altri problemi ambientali o epidemie. “Eventi come questo dimostrano come il cambiamento climatico e la diffusione dei virus possano combinarsi in una tempesta perfetta per la fauna marina”, spiegano gli autori dello studio. Nel frattempo, secondo le ultime scoperte, il numero totale di maschi alfa è diminuito del 43% (da circa 450 a 260), mentre le femmine adulte sono diminuite del 60% (da circa 12 mila a 4.800), rispetto alle stagioni pre-pandemiche. Anche la prole annuale è diminuita di quasi due terzi, da circa 14 mila a soli 5 mila.

    “Prima del 2023, era impossibile pensare che una popolazione sana come quella della Penisola di Valdés potesse essere messa a rischio da un anno all’altro”, afferma la biologa Valeria Falabella, direttrice per la conservazione delle coste marine presso WCS Argentina. “Questo è un avvertimento”, aggiunge, sottolineando che il cambiamento climatico comporta ulteriori rischi e incertezze per altre a specie. Ma a preoccupare oggi è il destino degli elefanti marini del sud che registrano il più grande calo demografico finora osservato. “Hanno perso più della metà della loro popolazione adulta e abbiamo bisogno di adulti per mantenere una popolazione in crescita”. L’impatto è stato brutale. LEGGI TUTTO

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    “Con gli algoritmi monitoriamo lo stato della Terra”

    Nel sottobosco, la vita si propaga attraverso segnali silenziosi: una foglia che ingiallisce, una colonia di funghi che si espande, un insetto che scompare da un’area un tempo brulicante. Ogni elemento racconta qualcosa, ma spesso in modo frammentario. È proprio in queste crepe dell’osservazione che l’intelligenza artificiale può inserirsi, ricucendo i dati e restituendo mappe dinamiche della natura. A guidare questa visione è Sašo Džeroski, tra i pionieri dell’Intelligenza artificiale applicata all’ambiente. Dirige il dipartimento di Tecnologie della Conoscenza dell’Istituto Jožef Stefan di Lubiana e spesso insegna all’Università di Trento. In apertura al suo intervento, al summit internazionale AIS252 di Copenaghen, ha posto una domanda: può un algoritmo aiutare a proteggere la biodiversità senza snaturare la relazione tra esseri umani e ambiente?

    Quando l’algoritmo legge il paesaggio
    L’attività di Džeroski spazia dalla modellazione delle dinamiche forestali alla previsione di impatti climatici, passando per l’analisi di dati ambientali su larga scala. “L’intelligenza artificiale può aiutarci a monitorare lo stato dell’ambiente, ad esempio attraverso immagini satellitari”, spiega Džeroski. “È difficile raccogliere dati direttamente nei boschi o in altri ambienti naturali, mentre le immagini da satellite sono disponibili con alta frequenza e grande dettaglio”. Proprio da lì è partita la sua ricerca: osservare i processi di ricolonizzazione spontanea delle foreste sui campi agricoli abbandonati. Un fenomeno osservato in molte aree rurali dell’Europa orientale, dove l’abbandono delle coltivazioni ha permesso il ritorno di ecosistemi boschivi. Oggi quelle stesse tecniche permettono di costruire modelli capaci di leggere e prevedere la trasformazione del paesaggio: ad esempio, di stimare l’altezza e la densità degli alberi e calcolare il rischio di incendi. “Se sai dove le foreste sono più dense o più secche, puoi allertare i vigili del fuoco e la protezione civile”, sottolinea. Una prevenzione guidata dai dati, che permette di anticipare gli impatti.

    Agricoltura, habitat, intelligenza
    Il laboratorio di Džeroski lavora anche su un altro fronte: l’agricoltura sostenibile. “Usare l’intelligenza artificiale in agricoltura significa anche aiutare l’ambiente”, afferma. Il suo gruppo ha sviluppato sistemi di supporto alle decisioni per ridurre l’uso di pesticidi, grazie a previsioni meteorologiche, analisi dei suoli e presenza di insetti dannosi. “Abbiamo realizzato un sistema che suggerisce quando e come intervenire, tenendo conto del tipo di coltura, del meteo e del tipo di infestazione. Così si evitano trattamenti inutili che finiscono per inquinare le acque.” Ma non solo. L’IA viene impiegata per mappare gli habitat delle specie benefiche, come le coccinelle che si nutrono di afidi: “Con l’IA possiamo modellare gli habitat e capire dove creare corridoi ecologici tra i campi”.

    Alberi sotto attacco, algoritmi in aiuto
    L’IA può intervenire anche quando il danno è già in atto. In Slovenia, racconta Džeroski, “i nostri boschi sono attaccati dal bostrico, un insetto favorito dal cambiamento climatico. Usando il telerilevamento e il machine learning possiamo identificare le aree colpite e agire in fretta, prima che l’infestazione si diffonda”. Un nuovo paradigma di gestione forestale, basato sulla previsione. E, soprattutto, sulla capacità di leggere segnali deboli in ecosistemi complessi.

    Intelligenza sì, ma ecologica
    Per Džeroski, la sfida dell’IA ambientale non è solo tecnica, ma anche epistemologica. “I modelli devono essere comprensibili, utili, interpretabili. Se sono troppo complicati, non aiutano chi deve prendere decisioni sul campo.” La tecnologia, insomma, deve restare uno strumento, non sostituirsi alla conoscenza ecologica. E serve anche un cambiamento culturale: costruire sistemi aperti, accessibili, che integrino sapere scientifico, esigenze locali e visione ecologica. Solo così l’AI potrà davvero diventare un alleato della biodiversità.

    Una nuova alleanza
    Nell’epoca dei cambiamenti rapidi e delle crisi interconnesse, l’intelligenza artificiale si rivela uno strumento potente per ascoltare la natura, coglierne i segnali deboli, anticiparne le trasformazioni. Ma la vera sfida resta aperta: usare la tecnologia non per semplificare ciò che è vivo, ma per rispettarne la complessità. Come ricorda Džeroski, “l’IA ci aiuta a comprendere meglio gli ecosistemi, ma anche a gestirli in modo più saggio”. A condizione che resti al servizio della natura, e non il contrario. LEGGI TUTTO

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    Inquinamento, se gli animali domestici diventano “sentinelle” per la nostra salute

    Respirano la nostra stessa aria, spesso bevono la nostra stessa acqua, talvolta dormono nei nostri letti. Così gli animali domestici, cani e gatti in primis, possono aiutarci a decifrare i pericoli che minacciano le nostre vite. Fungendo da vere e proprie “sentinelle” ambientali. Anche in considerazione di alcuni aspetti spesso sottovalutati: gli uccelli, per esempio, sono particolarmente vulnerabili all’inquinamento, estraendo dall’aria quantità di ossigeno, in percentuale decisamente più alta rispetto ai mammiferi. E ancora: cani e gatti sono fatalmente esposti a un rischio maggiore di esposizione a contaminanti chimici potenzialmente cancerogeni, visto che tendono a trascorrere molto tempo a contatto con il suolo, esposti anche alla polvere, dove tendono ad accumularsi metalli i metalli pesanti. E allora perché non approfittarne? Se lo chiede il New York Times, con un articolo che esplora le opportunità di comprensione dell’ambiente che ci circonda attraverso l’aiuto – passivo, s’intende – dei nostri amici a quattro zampe.

    Non mancano, del resto, storie iconiche: nel 2023, per esempio, un treno merci, che trasportava sostanze chimiche tossiche, deragliò nei pressi della cittadina americana di East Palestine, in Ohio. Una catastrofe ambientale dalle ricadute importanti, difficili da quantificare. Gli scienziati si concentrarono allora sui cani, chiedendo ai loro proprietari di applicare speciali targhette in silicone assorbente ai loro collari. Dai risultati preliminari della ricerca è emersa l’esposizione a livelli insolitamente elevati di alcune sostanze chimiche per i cani che vivono in prossimità dell’incidente: ora si indaga sulla possibilità di innesco di alterazioni genetiche associate al cancro. “Studi del genere andrebbero avviati sempre, in occasione di disastri”, ha spiegato al New York Times Elinor Karlsson, genetista presso la UMass Chan Medical School e il Broad Institute. “Del resto – ha aggiunto – gli animali domestici che vivono nelle nostre case sono esposti alle stesse sostanze a cui siamo esposti noi”. Non vi è dunque dubbio, secondo gli scienziati, che capire di più su come l’inquinamento influisca sulla salute degli animali domestici possa fornire spunti in grado di preservarci da malattie e criticità. L’esempio più citato è quello, fortunatamente anacronistico, dei canarini da miniera, uccelli usati nelle miniere di carbone come sistema di allarme per rilevare la presenza di gas tossici come il monossido di carbonio. “Ma in quel caso gli animali venivano sacrificati, con i nostri cani e gatti ciò non accade”, annota Audrey Ruple, epidemiologa veterinaria presso la celebre Virginia Tech.

    Gli incendi e gli effetti sugli amici a quattro zampe
    La letteratura scientifica mostra, del resto, casi in cui gli animali domestici si sono già efficacemente rivelati sentinelle ambientali. E’ per esempio accaduto nel 2020 in California, in occasione di una straordinaria stagione di incendi boschivi. Stephen Jarvis, all’epoca studente, notò che alcuni sintomi (mal di testa, occhi irritati, respiro corto e dolore al petto) lo accomunavano al gatto asmatico del suo compagno Manolo. Così Jarvis, oggi docente alla London School of Economics, si è per così dire illuminato: ha analizzato cinque anni di dati veterinari provenienti da tutta la Gran Bretagna, incrociandoli con i livelli di particolato fine nell’aria, tra i principali inquinanti presenti nel fumo degli incendi boschivi e nocivo per la salute umana. Insieme con un team di ricercatori, ha così documentato come con l’aumento dell’inquinamento atmosferico sia aumentato il numero di visite veterinarie per cani e gatti. Sentenziando che se il Paese mantenesse l’inquinamento atmosferico al di sotto della soglia raccomandata dall’OMS, si potrebbero evitare tra le 80.000 e le 290.000 visite veterinarie all’anno. Con conseguente risparmio economico, tra le altre cose. Una relazione che fa senz’altro riflettere, soprattutto in vista delle conseguenze della crisi climatica in atto, non ultima proprio l’intensificarsi degli incendi boschivi. “Quando pensiamo a come proteggerci dall’aria malsana, dovremmo pensare anche ai nostri animali domestici e alla fauna selvatica”, sottolinea Olivia Sanderfoot, ecologa della Cornell University: i suoi studi vertono proprio sugli effetti del fumo sugli animali selvatici.

    Monitoraggi costanti per leggere i rischi di cancro
    Tra le questioni più complesse, c’è però l’esposizione regolare a bassi livelli di sostanze nocive, che in alcuni casi può aumentare il rischio di cancro nel corso di una vita. Gli animali domestici hanno una vita più breve degli uomini e maggiori probabilità di trascorrerla in un’unica area geografica: per questo, è tendenzialmente più facile per gli scienziati individuare alcuni di questi possibili effetti. “Non solo, le persone sono anche spesso comprensibilmente preoccupate per i loro animali domestici”, sottolinea ancora Elinor Karlsson, che tra l’altro guida “Darwin’s Dogs”, un ampio progetto scientifico comunitario che mira a identificare i fattori genetici e ambientali che contribuiscono alla salute e al comportamento dei cani. “Questa attenzione è per noi un’opportunità da cogliere”, aggiunge. Così decine di migliaia di proprietari di cani americani hanno iscritto i loro animali a “Darwin’s Dogs” e a iniziative simili, tra cui il “Dog Aging Project” e il “Golden Retriever Lifetime Study”: si tratta di progetti di natura scientifica che raccolgono informazioni sull’esposizione quotidiana degli animali a sostanze chimiche, misurano i livelli di erbicidi nelle loro urine, spediscono per posta piastrine in silicone assorbenti per cani e chiedono ai proprietari di inviare campioni dell’acqua bevuta dei loro cani. “L’adesione è massiccia, non tanto perché la gente ha fiducia nella ricerca scientifica ma perché l’amore per i cani è una leva decisamente forte”. LEGGI TUTTO

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    Il lino, il tessuto sostenibile e dai mille usi

    Conosciuto fin dall’antichità e ancora oggi tra i materiali più apprezzati, il lino (Linum usitatissimum) è una fibra naturale composta al 70% da cellulosa. Robusto, elegante, traspirante, ha saputo attraversare i millenni senza perdere il suo fascino. Qui scopriremo tutto sul lino e sui suoi utilizzi.

    La storia del lino
    Le tracce più antiche del lino risalgono all’8.000 a.C. in Medio Oriente e già gli Egizi lo utilizzavano per avvolgere le mummie dei faraoni. I Fenici lo commerciavano nei porti del Nord Europa, i Romani lo destinavano sia all’abbigliamento, sia alla biancheria da casa, mentre durante il Rinascimento diventò simbolo di eleganza e raffinatezza. Oggi, invece, il cuore della produzione mondiale si concentra in Europa: oltre il 70% del lino che arriva sul mercato nasce in Francia, Belgio e Paesi Bassi. In queste aree il clima umido e i terreni fertili creano le condizioni ideali per coltivarlo, e non a caso i produttori della zona hanno ottenuto il marchio di qualità Master of Linen.

    Che cos’è il lino e che tipo di tessuto è
    Chi lo indossa d’estate conosce bene la sensazione di leggerezza che regala. Il lino, fibra tessile naturale ottenuta dalla pianta omonima e coltivata da migliaia di anni, è traspirante e termoregolatore: mantiene il corpo fresco durante le giornate calde, ma allo stesso tempo protegge dal freddo nelle stagioni intermedie. È anallergico e non trattiene polvere, qualità che lo rendono particolarmente adatto anche alle pelli più sensibili. È, insomma, un tessuto che sa unire comfort e salute, e che continua a essere apprezzato tanto nell’abbigliamento quanto nei tessuti d’arredo.

    Cotone e lino: le differenze tra i due tessuti
    A prima vista lino e cotone possono sembrare simili, ma le differenze sono significative. Il cotone è più morbido e uniforme, meno soggetto a pieghe, mentre il lino, più rigido, tende a stropicciarsi, caratteristica che però oggi è diventata sinonimo di naturalezza ed eleganza. Sul fronte ambientale, invece, il lino ha un vantaggio: richiede meno acqua per la coltivazione e non necessita di pesticidi. È quindi una fibra sostenibile, riciclabile e biodegradabile al 100%.

    Quali tipologie di lino esistono
    Non tutti i lini sono uguali: la finezza della fibra ne determina la destinazione d’uso. Le varietà più sottili si utilizzano per realizzare tele pregiate e tessuti raffinati come la batista, mentre quelle di media grandezza finiscono per diventare camicie, asciugamani o lenzuola. Infine, le fibre più grosse e robuste trovano spazio nelle tovaglie o nei canovacci. Anche i residui della lavorazione non vanno sprecati: la stoppa, ad esempio, è perfetta per spaghi e corde.

    Le proprietà e i vantaggi del lino
    Il lino ha molte virtù. Intanto, è un tessuto molto resistente che non si deforma con i lavaggi, anzi. Con il tempo, per quanto possa sembrare paradossale, tende a diventare più morbido e piacevole al tatto. È anche particolarmente traspirante e lascia che la pelle respiri in modo naturale, assorbendo l’umidità senza trattenerla. Non solo, perché filtra persino i raggi UVA ed è anche una fibra dalle proprietà antibatteriche e ipoallergeniche. Questo significa che chi soffre di sensibilità cutanea, con il lino non avrà problemi di alcun tipo. Ciò che però lo rende un ottimo tessuto prezioso è la sua sostenibilità; coltivarlo non impoverisce il terreno, non richiede irrigazioni intensive e, una volta lavorato, resta completamente riciclabile e biodegradabile.

    Quali sono i difetti del lino
    Nonostante i suoi pregi, il lino non è esente da difetti, o comunque “punti deboli”. Ad esempio, il primo che salta alla mente è la tendenza di questo tessuto pregiato a stropicciarsi molto facilmente, un aspetto che richiede cure specifiche. I capi bianchi, infatti, possono essere lavati fino a 60 gradi, mentre quelli colorati devono essere trattati con detergenti delicati e temperature più basse. Inoltre, dopo il lavaggio è fondamentale asciugarlo bene e stirarlo ancora umido, preferibilmente al rovescio. Solo così manterrà la sua eleganza naturale.

    Lino: come si lavora
    La lavorazione del lino è lunga e complessa. Tutto inizia con la raccolta, quando la pianta viene estirpata interamente dal terreno per mantenere la fibra il più lunga possibile. Dopo la macerazione, che permette di separare il fusto dal tessuto, si passa alla strigliatura: le fibre vengono pulite e pettinate ed è a questo punto che inizia la filatura, che può essere più o meno fine a seconda del risultato che si vuole ottenere. Infine, arriva la fase di nobilitazione, in cui il lino viene candeggiato, tinto o irrigidito con appretti per prepararlo al mercato. Sono passaggi che richiedono esperienza e cura, e che spiegano perché questo tessuto venga considerato di pregio da secoli.

    Gli usi del lino
    Il lino è oggi onnipresente: si trova nell’abbigliamento estivo, nelle lenzuola fresche e traspiranti, nelle tende leggere che filtrano la luce, ma anche nei rivestimenti per divani e poltrone. Non manca nemmeno nel packaging ecologico, sempre più ricercato da chi vuole ridurre l’impatto ambientale. La sua versatilità è tale che viene utilizzato perfino nella produzione di carta e, grazie alla stoppa, per corde e spaghi resistenti.

    Perché preferirlo ad altri tessuti
    Scegliere il lino significa optare per un tessuto che unisce tradizione e modernità. È bello, resistente, rispettoso dell’ambiente e, soprattutto, capace di regalare comfort e freschezza in ogni stagione. Un materiale nobile che ha attraversato i secoli e che, oggi più che mai, risponde alle esigenze di chi cerca qualità senza rinunciare alla sostenibilità. LEGGI TUTTO