consigliato per te

  • in

    L’industria energetica ha creato il falso mito che i consumatori possano fermare la crisi del clima

    Si fa presto a dire “zero emissioni”. Tutti noi viviamo in un mondo dove le terribili notizie legate alla crisi climatica sono all’ordine del giorno: dalle condizioni secche e calde che alimentano gli incendi della California sino alla perdita di biodiversità che ha visto sparire oltre il 70% della dimensione media delle popolazioni di animali selvatici in soli 50 anni. Tutti noi sperimentiamo gli effetti delle mortalità delle ondate di calore che colpiscono durissime in Europa, così come abbiamo imparato a conoscere come l’innalzamento dei livelli del mare sta portando alla scomparsa di isole e luoghi, oppure dopo l’anno più caldo di sempre – il 2024 – prendiamo atto di segnali sempre più drammatici per la sopravvivenza dei ghiacci e delle riserve idriche. Tutte queste condizioni sono strettamente legate alle emissioni umane di gas serra, quelle che alimentano il riscaldamento globale e che, con la complicità di incendi ed enormi quantità di metano legate alle nostre azioni, hanno portato la quantità di CO2 in atmosfera a livelli record.

    Così nella nostra quotidianità – per tentare di invertire la rotta di un binario che ci sta portando verso la catastrofe – la narrativa generale a cui siamo soggetti è quella che ognuno di noi dovrebbe fare “buone azioni” per scongiurare il peggio e combattere la crisi del clima: dall’installare i pannelli solari nelle nostre case a guidare auto elettriche, da impegnarsi di più nelle pratiche ecologiche sino a imparare a risparmiare acqua in ogni occasione. Questo creare un senso di responsabilità che si basa sulla singola azione individuale di ognuno di noi per riuscire ad affrontare il cambiamento climatico è però “un falso mito” secondo una nuova ricerca dell’Università di Sydney. Un falso mito che affida ai consumatori, attraverso le loro scelte oculate, l’idea di ergersi a paladini della battaglia per “le zero emissioni”, un falso mito che è stato creato negli anni dai settori dell’energia e delle fonti fossili. I ricercatori australiani hanno esaminato centinaia di resoconti pubblici, dichiarazioni, comunicati stampa per esempio del settore energetico australiano individuando sempre la stessa storia comune: quella che i singoli cittadini debbano essere degli eroi del “net-zero” grazie ai loro comportamenti. Tutto falso, dicono, perché ignora la realtà su come davvero potremmo affrontare il problema, ovvero con scelte precise dei governi, con un freno alle emissioni dei combustibili fossili e con sistemi di sostegno e supporto, calati dall’altro, che ci rendano davvero partecipi della transizione. “La nostra ricerca ha scoperto che questa idea, quella dei consumatori come paladini del net-zero, è stata costantemente perpetuata dagli attori del settore energetico” sostiene il professor Tom van Laer della University of Sydney Business School. “Se i consumatori acquistano l’auto giusta, spengono gli elettrodomestici, usano acqua calda fuori stagione, installano pannelli solari, ecc., allora possono svolgere un ruolo chiave nel salvare il Pianeta e che se solo i cittadini riuscissero a comprendere, monitorare e gestire il loro consumo energetico, allora potrebbero davvero fare la differenza. È una bella storia, ma ignora del tutto il quadro più ampio dei cambiamenti aziendali e normativi che sono essenziali davvero per affrontare questo problema”.

    World economic forum

    Global Risks Report 2025, l’emergenza climatica tra i primi 10 rischi globali

    di  Fiammetta Cupellaro

    15 Gennaio 2025

    Nell’analisi pubblicata sul Journal of Public Policy & Marketing i ricercatori mostrano come nel materiale pubblicato tra il 2015 e il 2022 da parte di oltre quaranta operatori del mercato energetico, tra cui fornitori di energia, organizzazioni non governative e decisori politici, la narrativa fosse troppo spesso incentrata proprio sulle responsabilità dei cittadini. Ma “senza adeguati sistemi di supporto, i consumatori hanno difficoltà a svolgere il ruolo di eroi delle emissioni nette zero e c’è il rischio che l’enorme responsabilità attribuita agli individui possa portare a sentimenti di impotenza e disimpegno, anziché di empowerment”. Prendiamo l’Australia, per esempio, Paese ancora legato al carbone e una fra le nazioni sviluppate con le emissioni pro capite più elevate insieme agli Stati Uniti. I dati ci dicono che il settore energetico australiano produce quasi la metà delle emissioni climalteranti, il 47,3%. Eppure, viene fatto credere che è attraverso le scelte dei cittadini che si possono invertire queste emissioni e cavalcare l’onda del net-zero. In pratica è come se il settore energetico stia creando un “mercato mitico” composto da piccoli consumatori di energia, in cui tutti contribuiscono in egual misura alle emissioni totali, ma non è così. “Spostando la responsabilità delle emissioni nette zero ai consumatori, rischiamo di minimizzare la responsabilità di entità più grandi che hanno un impatto più sostanziale sull’ambiente. Invece di imporre un onere irrealistico ai consumatori, dobbiamo affrontare i cambiamenti sistemici necessari per ottenere un impatto ambientale reale” dice il professore.

    In generale, aggiunge un’altra ricerca, questa volta condotta da esperti statunitensi, in un contesto che come sappiamo è già connotato da negazionismo e scetticismo sulle questioni climatiche, a fare da cassa di risonanza sul fatto (falso) che non siano l’emissioni dei combustibili fossili a creare il problema, c’è anche uno sforzo “continuo e coordinato” da parte delle aziende del settore sui social network. Nello studio pubblicato su PLOS ONE dai ricercatori di varie università degli States, viene spiegato ad esempio come dal 2008 al 2023, nove dei più grandi gruppi e aziende commerciali del settore petrolifero, agrochimico e della plastica degli Stati Uniti abbiano pubblicato migliaia di tweet sul social X con messaggi sulle questioni ambientali sorprendentemente “ostruzionistici” per le politiche e le azioni sul clima. Messaggi che spesso venivano ri-condivisi dalle varie aziende oppure in cui venivano taggati anche enti governativi. “Il nostro studio suggerisce che l’ostruzione climatica in diversi settori è più coordinata di quanto generalmente riconosciuto. Se a ciò si aggiunge l’elevato coinvolgimento dei settori dei derivati petrolchimici e dei carburanti con le entità governative di regolamentazione, ciò suggerisce tentativi strategici di indebolire e sovvertire la politica sul clima attraverso i social media” ha spiegato Jennie Stephens, professoressa di Scienze e politiche della sostenibilità presso la Northeastern University. Dunque non solo come sostengono gli esperti australiani da parte del settore energetico e industriale c’è una spinta a spostare le responsabilità della crisi verso i consumatori, ma c’è anche un tentativo “coordinato” da parte delle industrie fossili e agrochimiche nel negare i determinati impatti di certi settori come scrivono i ricercatori statunitensi che oggi sono ulteriormente preoccupati dal ritorno alla presidenza Usa di Donald Trump, evento che ci indica come “il negazionismo climatico non è finito, anzi, è tornato come una forza potente”. LEGGI TUTTO

  • in

    Deforestazione e conversione a palmeti devastano gli ecosistemi

    La deforestazione, com’è noto, ha profondi effetti negativi sull’ambiente: impoverisce la biodiversità, riduce la quota di anidride carbonica catturata dalla vegetazione, rende il suolo più instabile. Ma non solo: ai fini della valutazione dell’impatto della deforestazione, è importante anche valutare cosa accade dopo: un gruppo di ricerca guidato dagli scienziati della University of Oxford ha appena condotto la valutazione degli effetti della conversione delle foreste disboscate in piantagioni di palme da olio, una pratica molto comune specie nelle regioni tropicali, mostrando che non solo entrambe le operazioni (disboscamento e conversione) hanno effetti negativi sugli ecosistemi, ma che tali effetti sono diversi e si cumulano tra loro, il che amplifica la portata del danno. Un caso in cui, sostanzialmente, il totale è maggiore della somma delle parti.

    Lo studio è stato pubblicato sulle pagine di Science. La comprensione degli effetti combinati di deforestazione e conversione in piantagioni di palma da olio, spiegano gli autori del lavoro, è fondamentale per identificare gli habitat prioritari per la conservazione e per prendere le decisioni corrette sull’uso del territorio – nella fattispecie, per esempio, se una foresta disboscata debba essere protetta, ripristinata o se se ne possa autorizzare la conversione. Al momento, però, mancava ancora uno studio comprensivo sulla questione, il che rendeva difficile valutare l’impatto complessivo sull’intero ecosistema. Nello studio appena pubblicato, gli esperti hanno esaminato oltre 80 parametri relativi alla struttura, alla biodiversità e al funzionamento degli ecosistemi delle foreste tropicali, al contenuto di nutrienti nel suolo, all’immagazzinamento dell’anidride carbonica, al tasso di fotosintesi e al numero di specie di uccelli e pipistrelli. La valutazione è stata eseguita in tre regioni tropicali della Malesia che ospitano foreste secolari, foreste disboscate (a livelli diversi) e foreste disboscate e riconvertite in piantagioni di palma da olio.

    Agricoltura

    Il caffé a “deforestazione zero”, in Ecuador si coltiva il futuro

    di Nicolas Lozito

    19 Ottobre 2024

    I risultati dell’analisi mostrano, poco sorprendentemente, che disboscamento e conversione hanno effetti negativi sulla maggior parte dei parametri (60 su 82), ma in modo chiaramente diverso. Il disboscamento impatta maggiormente i parametri associati alla struttura e all’ambiente della foresta. Nelle zone tropicali si opera di solito un disboscamento selettivo, ossia concentrato su alberi con particolari qualità commerciali: questo rende l’operazione ancora più pericolosa per l’ecosistema, perché (per esempio) la rimozione di alberi alti e vecchi lascia spazio a specie a crescita rapida con caratteristiche molto diverse, tra cui legno meno denso e foglie più sottili, più vulnerabili agli animali erbivori. Le cose peggiorano se le foreste disboscate, o parzialmente disboscate, vengono convertite in piantagioni da palma, il che ha un impatto sulla biodiversità molto maggiore di quello del solo disboscamento: in particolare l’analisi ha mostrato una riduzione significativa nell’abbondanza e nella diversità di specie di uccelli, pipistrelli, scarabei stercorari e microrganismi del suolo.

    L’effetto, probabilmente, è dovuto ai cambiamenti nelle risorse alimentari messi a disposizione dalle piante e alla trasformazione del microclima, che diventa più arido e secco sotto gli strati di palme: “Uno dei messaggi chiave del nostro studio”, ha affermato Andrew Hector, uno degli autori dello studio, “è che il disboscamento selettivo e la conversione differiscono nel modo di influenzare l’ecosistema forestale, il che significa che la conversione in piantagione implica un impatto più profondo che si aggiunge a quello del solo disboscamento”. Lo studio, dicono ancora gli autori, dimostra che le foreste, seppur disboscate, possono ancora rappresentare una risorsa preziosa per il mantenimento della biodiversità e non dovrebbero essere automaticamente adibite ad altro: “Anche le foreste disboscate”, sottolinea Ed Turner, un altro degli autori, “sono preziose e importanti in termini di biodiversità e funzionamento dell’ecosistema rispetto ai livelli molto ridotti osservati nelle piantagioni di palma da olio che le stanno sostituendo”. Un’informazione di cui i decisori dovrebbero fare tesoro. LEGGI TUTTO

  • in

    Stop alla caccia ai canguri: in Australia partono gli appelli dopo gli incendi

    Il dilemma dei canguri infiamma il dibattito in Australia. E sul più iconico dei mammiferi marsupiali si polarizza anche la comunità scientifica. Sotto la lente d’ingrandimento la regione dei Grampians, nello stato del Victoria, estremità sudorientale dell’Australia, 1.600 chilometri di costa.Qui gli incendi hanno mandato in fumo 76 mila ettari di vegetazione del Grampians National Park, con profondi sconvolgimenti della sua fauna. Quanto basta, secondo alcuni naturalisti, per porre fine – anche solo temporaneamente – all’abbattimento controllato delle popolazioni di canguri.

    Già, perché in cinque Stati australiani continentali la caccia per scopi commerciali dei mammiferi è consentita nel numero di 5 milioni di esemplari all’anno: carne e pellame alimentano un’industria controversa, che alcuni stati – in America, per esempio – e diversi brand tendono a boicottare (secondo la Lav, invece, l’Italia sarebbe il maggior importatore europeo di pelli di canguro, con 381 tonnellate tra il 2019 e il 2022).

    Nello stato del Victoria, in particolare, dallo scorso primo gennaio la quota di abbattimento consentita è di 106 mila canguri grigi all’anno, 32 mila dei quali proprio nelle are sud-occidentali, quelle più colpite dagli incendi. “Finché non saranno chiari gli impatti immediati e a lungo termine dei roghi, l’abbattimento dovrebbe essere precauzionalmente interrotto”, dice al “Guardian” Lisa Palma, amministratore delegato di Wildlife Victoria, organizzazione no profit che si occupa di fornire risposte alle emergenze legate alla fauna selvatica nello stato australiano. Palma ribadisce inoltre le preoccupazioni generali sulla pratica dell’abbattimento dei canguri, in particolare sull’individuazione delle quote, sull’assenza di una supervisione del programma e “sull’intrinseca crudeltà dello strumento”.

    Biodiversità

    Alberi più piccoli ed elefanti senza zanne: così la natura si adatta all’uomo

    di  Giacomo Talignani

    07 Gennaio 2025

    “La caccia commerciale è la migliore soluzione”
    Che gli incendi boschivi sia una cattiva notizia per i canguri è fatto abbastanza acclarato: ricercatrici come Holly Sitters, ecologista, impegnata nella tutela di specie animali minacciate: “Tutti i piccoli mammiferi – spiega – mostrano una preferenza schiacciante per le aree rimaste intatte negli ultimi decenni”. Studiando l’impatto degli incendi sui mammiferi, Sitters ha ammesso infine che piccoli incendi possono giovare ai canguri e ai mammiferi di grandi dimensioni, mentre quelli più vasti – proprio come quelli che hanno investito i Grampians – creano condizioni differenti: alcuni animali possono migrare in tempo, altri restare feriti o morire o, ancora, faticare a sopravvivere per scarsità di ciba”. E le stime parlano di 200 mila esemplari, tra canguri e wallaby, morti a seguito degli incendi estivi.Insomma, ce ne sarebbe abbastanza per ridiscutere le linee strategiche di ridimensionamento della popolazione dei canguri.

    Anche se non mancano pareri discordanti: “La cattura a scopi commerciali dei canguri può essere utile in alcune circostanze, e calcolare gli effetti degli incendi sulla fauna selvatica è complesso”, spiega al Guardian Euan Ritchie, docente di ecologia e conservazione della fauna selvatica alla Deakin University. La rimozione del predatore naturale dei canguri, il dingo, ha causato un incremento della loro popolazione, con effetti negativi sul recupero della vegetazione post-incendi.

    “In assenza di un equilibrio naturale, la caccia è forse la migliore soluzione che abbiamo al momento, soppesando pro e contro”. E il Dipartimento per l’Ambiente dello stato della Victoria non sembra intenzionato a tornare sui suoi passi.

    Biodiversità

    Così il lupo in Europa torna a essere un bersaglio

    di WWF ITALIA

    03 Dicembre 2024

    Genovesi (Ispra): “Non venga meno il principio di sostenibilità”
    Al caso australiano guarda con interessa anche Ispra, in prima linea in Italia nello studio dell’equilibrio degli ecosistemi e nel suggerimento di strategie efficaci per scongiurare squilibri e declino delle singole specie. “Bisogna distinguere tra prelievi fatti per la caccia, che dovrebbero sempre seguire un principio di sostenibilità, e il controllo di specie che causano impatti eccessivi o che sono pericolose per l’uomo. – spiega subito Piero Genovesi, che per Ispra è responsabile della conservazione della fauna e del monitoraggio della biodiversità – Quando parliamo di attività ricreative sarebbe corretto, nel caso di incendi o altri fenomeni che causano impatti sulle specie selvatiche, sospendere o ridurre i prelievi, per non sommare un ulteriore effetto negativo. Diverso – prosegue Genovesi – è il discorso se parliamo ad esempio di specie aliene, introdotte dall’uomo, il cui controllo è essenziale per tutelare gli habitat naturali. L’Australia è il paese al mondo che ha avuto più estinzioni nei secoli passati, causate nella gran parte dei casi da specie aliene, come conigli, volpi, gatti, ratti o cammelli.

    Per esempio, in Australia vivono 1.7 milioni di volpi, introdotte dall’uomo, che uccidono ogni anno oltre 300 milioni di animali autoctoni e hanno causato molte estinzioni di mammiferi autoctoni. Una sospensione dei piani di controllo di alcune di queste specie potrebbe mettere in pericolo specie uniche e vulnerabili”.

    In casi analoghi a quanto sta accadendo in Australia, in concomitanza cioè con incendi boschivi di grandi dimensioni o di tempeste come Vaia, Ispra ha suggerito alle Regioni di sospendere o regolamentare meglio i prelievi delle specie, in attesa di comprendere i danni agli ecosistemi.

    Le idee

    Coesistenza tra uomo e fauna selvatica: il futuro in una pillola

    di Andrea Monaco

    22 Ottobre 2024

    Dagli orsi ai cervi, quando il “problema” è a casa nostra
    Ma il tema dei piani di abbattimento delle specie di fauna selvatica continua, dunque, ad alimentare dibattito, con posizioni spesso polarizzate tra i due estremi, il partito di chi preferirebbe scongiurare l’uccisione degli animali considerati in eccesso, soprattutto quando si tratta di specie carismatiche e di appeal per il grande pubblico, e quello di chi invece propende per metodi risoluti, nei quali l’uomo si assegna il ruolo di regolatore del riequilibrio degli ecosistemi. “La verità è che se in alcune aree abbiamo irrimediabilmente eliminato o ridotto i fattori che naturalmente limitavano la diffusione incontrollata di alcune specie animali, il fattore di riequilibrio possiamo essere solo noi”, spiega Nicola Bressi, naturalista e zoologo del Museo Civico di Storia Naturale di Trieste.

    Ma se per i cinghiali e per le nutrie, la cui diffusione incontrollata ha creato diversi problemi in Italia, l’opinione pubblica non sembra osteggiare i piani di contenimento, è per specie più carismatiche che divampano, puntuali, le polemiche. Con code giudiziarie, come per il piano di abbattimento dei cervi in Abruzzo, con il Consiglio di Stato che lo scorso novembre, ribaltando l’ordinanza del Tar, ha disposto la sospensione della delibera con cui la giunta regionale bandisce la caccia selettiva di 469 cervi considerati “in soprannumero”, per limitare i “danni all’agricoltura” e “gli incidenti stradali”. Accogliendo le ragioni di Wwf, Av, Lndc e Animal Protection. Qualche mese fa aveva invece fatto discutere, per esempio, la decisione della Svezia di concedere licenze per abbattere il 20% della popolazione di orsi bruni, una percentuale che le associazioni impegnate nella difesa degli animali e della biodiversità avevano considerato troppo elevata. LEGGI TUTTO

  • in

    Maratona, i tempi si allungano quando l’inquinamento aumenta

    Le maratone più blasonate, per storia, percorsi, organizzazione e partecipazione, hanno luogo presso grandi centri cittadini – vedi le magiche Majors -, con tutti i pro e i contro del caso. Se da un lato in genere organizzare una maratona in una città permette di rendere più semplice la logistica e l’offerta dei servizi, dall’altro correre in città non è l’ideale per la salute dei runner. I centri cittadini infatti possono avere concentrazioni maggiori di inquinanti, che rischiano di minare la loro salute e di pesare sulle performance degli atleti stessi. Lo suggerisce oggi uno studio pubblicato su Sports Medicine da alcuni ricercatori interessati a comprendere se, come e quanto il particolato atmosferico influenzasse gli esiti della gara stessa.

    Nel dettaglio, si legge nel paper, sono stati analizzati i tempi di arrivo di circa 1,5 milioni di uomini e di un milione circa di runner donne, che avevano partecipato a diverse maratone americane tra gli anni 2003 e 2019, messi in correlazione con i livelli di inquinanti. Ed è in questo modo che i ricercatori hanno osservato come, all’aumentare dell’inquinamento, i tempi di arrivo erano generalmente più lunghi per gli atleti. Di quanto? In media sul cronometro si avevano 32 secondi in più per gli uomini e 25 secondi in più per le donne all’aumentare di solo 1 µg/m3 nei livelli di particolato PM2.5.

    Salute

    Restare al chiuso non salva dall’inquinamento: lo studio

    di Giuditta Mosca

    03 Dicembre 2024

    Se lo applicassimo al momento in cui scriviamo, un freddo giorno di gennaio, per le città di Roma e Torino (sedi di maratone a fine inverno e tardo autunnali), che hanno esattamente questa differenza per questo inquinante secondo i dati riportati dalla piattaforma IQAir, i maratoneti potrebbero andare più lenti nella città piemontese rispetto alla capitale (in entrambi i casi comunque con livelli di particolato considerati accettabili, tra 5 e 6 µg/m3).

    Secondo i ricercatori della Brown University School of Public Health di Providence, a capo dello studio, a inficiare le performance sarebbero una serie di possibili effetti a livello cardiorespiratorio indotti dal particolato, dall’aumento della pressione alla ridotta funzionalità polmonare. Se siano effettivamente questi i motivi non è chiaro, ma vale la pena approfondire gli studi: “Sebbene siano necessarie ulteriori ricerche per caratterizzare l’eterogeneità degli effetti nell’intero spettro delle prestazioni – concludono gli autori – questi risultati mostrano l’impatto del PM2.5 sulle performance in maratona e l’importanza di considerare i dati di più competizioni quando si stimano gli effetti del PM2.5”.

    Le città europee con l’aria più pulita

    di Roberto Bargone

    20 Settembre 2024

    Anche perché, fa notare dalle pagine di Outside Alex Hutchinson, ex ricercatore ed esperto reporter del mondo sportivo dell’endurance, i tempi di percorrenza di una stessa maratona, per un runner, corsa in condizioni di inquinamento molto diverse, potrebbero differire di diversi minuti. LEGGI TUTTO

  • in

    Bucaneve, il fiore dell’inverno

    In apparenza fragili e delicati, i Bucaneve in realtà sono molto resistenti, tanto da fiorire nel bel mezzo della stagione invernale. Conosciuti anche come “stelle del mattino”, i Bucaneve, lo dice il nome stesso, sono tra i primi a spuntare direttamente dalla neve: bianchi ed eleganti affascinano sempre per la loro incredibile bellezza. Prendersi cura dei Bucaneve non è così complesso, motivo per il quale sono adatti anche a chi è meno esperto in giardinaggio.

    Bucaneve, il fiore dell’inverno: coltivazione
    Coltivare i Bucaneve (nome botanico Galanthus nivalis) non è difficile. Pianta bulbosa perenne, è tipica del periodo invernale e non ama di conseguenza le temperature alte o il sole diretto. Le piantine solitamente raggiungono un’altezza di circa 15 cm e possono essere piantate sia in giardino (aiuole soprattutto), sia in vaso, abbinandole in questo caso con altri bulbi a fiore.

    Esposizione: dove posizionare il Bucaneve
    I Bucaneve crescono sia in pieno sole, sia in zone di mezz’ombra, purché ci sia un’adeguata illuminazione e ci sia un costante riparo dagli agenti atmosferici fastidiosi come il vento. Durante l’inverno, la sua stagione preferita, al Bucaneve piacciono anche posizioni assolate, mentre in estate preferisce l’ombra.

    Affinché il benessere di questa pianta bulbosa sia sempre costante, converrebbe coltivarla o sotto alberi e arbusti decidui (quindi spogli in inverno e rigogliosi in estate), o in vasi da spostare a seconda delle necessità ma soprattutto a seconda della luce.

    Bucaneve: terreno e concimazione
    La preparazione del terreno per il Bucaneve è forse una delle parti più importanti riguardanti la sua coltivazione. Anzitutto, questo deve essere un mix perfetto tra umidità, drenaggio e concimazione. Prima ancora di piantare i Bucaneve, il terreno dovrà essere lavorato per renderlo il più soffice possibile, ma dovrà anche essere ripulito da eventuali residui e/o sassi che potrebbero ostacolarne la crescita.

    I piccoli bulbi di Bucaneve vanno messi a dimora presto (da settembre in poi), a una profondità di circa il doppio del loro diametro e in terreni leggeri, freschi e ricchi proprio di humus. Durante il periodo estivo si devono obbligatoriamente evitare terreni aridi e soleggiati. Se i Bucaneve sono coltivati in vaso, è consigliabile porre uno strato di biglie d’argilla sul fondo: questo favorirà il benessere della pianta e ne ridurrà il ristagno idrico, nemico numero uno della pianta.

    Irrigazione
    Durante il periodo della fioritura, quindi dall’inverno all’inizio della primavera, la siccità è da evitare assolutamente. In caso di mancate piogge o se semplicemente il vaso in cui il Bucaneve è piantato non è esposto alla pioggia, è necessario procedere con l’innaffiatura, che deve essere regolare e non eccessiva. Tra un’irrigazione e l’altra deve passare del tempo: prima di procedere con la successiva assicurarsi sempre che il terreno si sia asciugato adeguatamente. Viene da sé che in estate, con la siccità che avanza, le irrigazioni dovranno essere più frequenti.

    Anche la qualità dell’acqua è importante: al di là della pioggia, la migliore per le piante, si dovrebbe utilizzare acqua povera di calcare, cercando anche di evitare il più possibile la formazione di acqua stagnante.

    Quando (e come) piantare i bulbi di Bucaneve
    Quanto è importante la messa a dimora dei Bucaneve? Moltissimo. Anzi, potremmo definirla essenziale ai fini di una corretta fioritura della pianta. Il momento ideale per piantare i bulbi di Bucaneve è l’autunno, tra settembre e novembre. In questo modo i bulbi avranno tutto il tempo necessario per radicarsi nel terreno prima dell’arrivo ufficiale del freddo e troveranno un terreno ancora tiepido/caldo dall’estate, perfetto per la crescita delle radici.
    I bulbi di Bucaneve dovranno essere piantati a una profondità di circa 5-7 cm e a una distanza di 7-10 cm l’uno dall’altro. Così facendo si garantirà loro il giusto spazio per crescere liberamente senza ostacoli.

    Fioritura del Bucaneve: ecco cosa sapere
    Il Bucaneve è un fiore che fiorisce in pieno inverno, anche con freddi molto pungenti. È proprio questa la caratteristica che lo rende affascinante e meraviglioso: vederlo spuntare da sotto la neve è sempre suggestivo! La fioritura di questa pianta bulbosa avviene tra gennaio e febbraio (ma può estendersi anche a marzo) ed è proprio per questo che si considera simbolo di rinascita, rappresentando a tutti gli effetti l’avvicinarsi della primavera. I fiori del Bucaneve si riconoscono per la loro forma a campanula, per il colore bianco candido e per il gradevole profumo che emanano. L’estetica è un punto molto forte della pianta, che la rende elegante e raffinata, ma allo stesso tempo assai resistente.
    Cosa fare quando il Bucaneve sfiorisce
    Una volta finita la fase della fioritura, i Bucaneve entrano d’ufficio in quella che di solito si chiama “fase di riposo”, essenziale nella preparazione della pianta a un nuovo ciclo di vita. Passata la fioritura, si comincerà a notare un certo ingiallimento delle foglie: in questo caso è importante lasciare che la pianta faccia tutto da sola, evitando di rimuovere le parti secche e/o morte, perché questo potrebbe sia impoverire i bulbi, sia comprometterne la nuova fioritura.
    Inoltre, è consigliabile anche nutrire il terreno subito dopo la fioritura dei Bucaneve: in questo modo i bulbi si arricchiranno delle giuste sostanze durante tutto il resto dell’anno.

    Bucaneve: come proteggerlo da malattie e parassiti
    Sebbene sia particolarmente resistente, il Bucaneve può essere “vittima” di qualche malattia. Il suo nemico numero uno è senza ombra di dubbio il ristagno idrico, capace di fare nascere funghi e marciume. Anche la muffa grigia può colpirlo e di solito questo avviene quando la pianta inizia a germogliare. Riconoscere la muffa grigia è piuttosto semplice: si presenta come peluria bianca e avvolge le punte dei germogli. Se doveste notare una situazione simile, è bene intervenire subito, eliminando questo leggero strato di peluria e, successivamente, applicare un prodotto specifico. Le regole per il benessere del Bucaneve? Giusta quantità di luce, terreno umido e ben drenato. LEGGI TUTTO

  • in

    Vuoto a rendere per il bicchiere di plastica: l’esperimento riuscito in Danimarca

    In Danimarca la più grande città della penisola dello Jutland, Aarhus, detiene un invidiabile primato: grazie al vuoto a rendere nel 2024 ha sottratto agli inceneritori 735.000 bicchieri di plastica. Su una popolazione di circa 350mila persone, per lo più abituata a consumare fuori casa bevande calde e fredde di ogni tipo, appare come un grandissimo risultato. Senza un cambio di rotta gli inceneritori sarebbero stati costretti a bruciare oltre 14 tonnellate di plastica, con conseguenti emissioni di CO2 a dir poco preoccupanti.

    E dire che il concetto è semplice, perché il vuoto a rendere nasce più di 200 anni fa in Gran Bretagna con il mercato dell’acqua gassata e della tonica. L’idea è che si paghi per il contenuto e il contenitore, e dopo la restituzione del contenitore di goda di un rimborso. Così è avvenuto a partire da gennaio dello scorso anno nella cittadina danese di Aarhus grazie all’impegno industriale di Tomra, una delle aziende leader nel settore del riciclo dei rifiuti. In pratica con un progetto sperimentale della durata di tre anni si è cercato di risolvere il problema della raccolta e riutilizzo dei bicchieri di plastica. Anche perché secondo Simon Smedegaard Rossau, project manager della municipalità, l’analisi dei rifiuti aveva fatto emergere che il 45% “proveniva da imballaggi da asporto”. Dopodiché c’è voluto un po’ di impegno logistico, tecnologico e di sensibilizzazione culturale. LEGGI TUTTO

  • in

    Meno neve e per meno tempo: l’allarme di Legambiente per le montagne

    Dalle Dolomiti al Monte Bianco, dal Cervino al Gran Sasso, in Italia nevica sempre di meno. La causa è la grave crisi climatica che sta investendo soprattutto le Alpi, il “castello d’acqua d’Italia”. Qui, più che altrove, si vedono chiari i segni di sofferenza: la durata del manto nevoso nell’ultimo secolo si è accorciata in media di un mese a causa del riscaldamento atmosferico di circa 2 °C. Così mentre ci prepariamo a celebrare il 19 gennaio la Giornata Mondiale dedicata alle neve emerge chiaramente la fragilità dell’ecosistema montano e la necessità di un’azione concreta. E non si tratta solo di salvaguardare un patrimonio turistico e sportivo, ma di tutelare una risorsa ambientale fondamentale. Non solo. Lo sconvolgimento che sta avvenendo in alta quota influisce negativamente sull’approvvigionamento idrico di vaste aree. Neanche le nevicate tardive della scorsa primavera hanno portato i benefici sperati.

    Un’immagine della Carovana dei ghiacciai 2024  LEGGI TUTTO

  • in

    Così l’edilizia studia come intrappolare la CO2 nei materiali da costruzione

    Ogni anno vengono utilizzati circa 30 miliardi di tonnellate di cemento in tutto il mondo per costruire abitazioni, aziende ed edifici di ogni genere. E se trovassimo un modo per immagazzinare a lungo termine l’anidride carbonica, uno dei principali gas responsabili dell’effetto serra e quindi dell’aumento delle temperature globali, all’interno di questo materiale? È la domanda che si è posto un gruppo di ricercatori e ricercatrici, autori di uno studio pubblicato su Science. La risposta? Usare non solo il cemento ma anche altri materiali da costruzione a questo scopo potrebbe permetterci di intrappolare in modo duraturo fino a 16 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno, circa la metà di quella emessa a causa delle attività antropiche nel corso di tutto il 2021.

    In generale, una delle possibili strategie per fare fronte all’emergenza climatica è quella di progettare dei sistemi che imitino in sostanza quello che le piante fanno da sempre: assorbire la CO2 dall’atmosfera, trasformarla in composti che intrappolano il carbonio in modo stabile e immagazzinare questi ultimi a lungo termine da qualche parte. La domanda delle domande è dove. Nel corso del tempo c’è chi ha proposto di creare dei depositi sotterranei o addirittura sottomarini, approcci che però non sono privi di rischi ambientali e anche di difficoltà tecniche.

    “E se invece potessimo sfruttare i materiali che già produciamo in grandi quantità per immagazzinare il carbonio?”, si chiede Elisabeth Van Roijen, prima firma del nuovo studio, a cui ha partecipato durante il dottorato di ricerca condotto presso la University of California di Davis (Stati Uniti).

    Transizione ecologica

    Obiettivo decarbonizzazione delle città: il primo cemento a bilancio zero di emissioni CO2

    di Gabriella Rocco

    21 Agosto 2024

    Fra gli approcci presi in considerazione dal gruppo di ricerca c’è per esempio quello di inserire componenti “carbonatabili” all’interno dei materiali da costruzione. Alcuni esempi sono gli ossidi di magnesio, ferro e calcio, che sono in grado di reagire con la CO2 per formare dei carbonati stabili. Un’altra possibilità analizzata dagli autori della ricerca, anche in combinazione con la prima, è quella di aggiungere biochar al cemento, ossia una sostanza ottenuta dal riscaldamento controllato (pirolisi) delle biomasse, i residui agricoli che non entrano nel mercato alimentare. Dato che le biomasse derivano dalle piante, l’idea in questo caso sarebbe quella di stoccare in modo duraturo l’anidride carbonica che le piante hanno già assorbito e convertito in composti stabili a base di carbonio mentre erano in vita. Con lo stesso principio, Van Roijen e colleghi hanno inoltre preso in considerazione l’idea di utilizzare fibre ottenute a partire da biomasse per ottenere per esempio mattoni, asfalto, plasitca o altri materiali da costruzione.

    Fra tutti quelli analizzati, i materiali che più si presterebbero allo scopo di immagazzinare elevate quantità di anidride carbonica a lungo termine sono risultati essere il cemento, l’asfalto e i mattoni, soprattutto per il loro ampio impiego su scala globale.

    Una delle sfide con cui questa tecnologia potrebbe dover fare i conti, spiega però l’esperto di politiche energetiche e climatiche Christopher Bataille in un articolo di commento sempre pubblicato su Science, è l’approvvigionamento delle materie prime. La distribuzione degli ossidi dei minerali in grado di reagire con l’anidride carbonica per formare carbonati stabili, infatti, non è uniforme a livello globale. Inoltre, avverte Bataille, sarà necessario mettere in piedi un solido sistema di monitoraggio e verifica, per evitare per esempio che la produzione di materiali di questo tipo diventi un ambito di investimento per le aziende in termini di acquisto di crediti di carbonio. In altre parole, le industrie potrebbero cercare di acquistare crediti di carbonio dai produttori di questi materiali per compensare le loro emissioni, senza agire a monte per ridurle. Il che potrebbe vanificare gli sforzi che sono alla base di tutto il progetto.

    Ciononostante, conclude Bataille, “con un’adeguata incentivazione e un adeguato monitoraggio, l’uso di materiali da costruzione che immagazzinano CO2 potrebbe fornire un metodo praticabile per la rimozione dell’anidride carbonica su scala di miliardi di tonnellate a un costo ragionevole”. LEGGI TUTTO