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    L’Italia è il Paese più dipendente dall’estero per il fabbisogno energetico

    Nell’ultimo quarto di secolo l’Europa ha fatto grandi progressi nelle rinnovabili. Eppure la Ue resta, tra le grandi economie globali, quella più dipendente dall’estero per quanto riguarda il soddisfacimento del proprio fabbisogno energetico. I Paesi dell’Unione infatti importano il 58,3% dell’energia o delle materie prime necessarie alla sua produzione, il dato scende al 20% per la Cina ed è pari a zero per gli Stati Uniti, che sono totalmente autosufficienti nella produzione rispetto al fabbisogno energetico. Anche se le rinnovabili europee dal 2000 a oggi sono passare dal 15% al 45% del totale del mix di generazione di energia elettrica. E’ questo contrasto il dato più appariscente del sesto rapporto annuale Med & Italian Energy Report, presentato oggi dal Politecnico di Torino e da Intesa Sanpaolo al Parlamento Europeo.

    L’analisi, ricostruisce le ormai note ragioni storiche della mancata autosufficienza energetica europea, e racconta l’evoluzione (lenta ma incoraggiante degli ultimi anni). “Guardando specificatamente alla produzione di energia elettrica, è in corso da oltre un ventennio un’importante modifica del mix europeo di generazione”, si legge nel rapporto. “L’uso del carbone è diminuito drasticamente dal 32% del 2000 a circa il 12% (ultimi dati disponibili) mentre è leggermente aumentata la quota del gas naturale dal 12% al 17%”. A dominare oggi sono le energie rinnovabili, passate appunto dal 15% del 2000 all’attuale 45%. “Ci si aspetta un ritmo di espansione dell’elettricità da rinnovabili più che doppio entro il 2030”. In questo percorso di diversificazione la Spagna si conferma il Paese più virtuoso: “Presenta un mix più equilibrato e con il più alto peso delle rinnovabili che arrivano al 51% del totale nel 2023”. La Germania invece “è il Paese con il più elevato utilizzo di carbone (26% del totale), anche se in forte riduzione. In Francia il mix energetico è dominato dal nucleare (64% del totale)”. E l’Italia? “E’ il Paese con il maggior grado di dipendenza energetica, pari al 74,8%, ben sopra la media europea”. Un valore però in calo di quasi tre punti percentuali rispetto al dato del 2019 (pre-Covid) quando la dipendenza era pari al 77,5%. “La Francia è il Paese con il minor grado di dipendenza pari al 44,8% grazie all’uso del nucleare”.

    Energia

    Perché in Italia l’elettricità costa più che negli altri Paesi europei

    di  Luca Fraioli

    21 Gennaio 2025

    Comunque incoraggianti i dati sulla ripartenza delle rinnovabili italiane dopo un periodo di stallo: “Molto positivo è l’andamento del fotovoltaico: +19,3% sul 2023. Un record di produzione che ha consentito di soddisfare l’11,5% della domanda del 2024. Nel complesso l’incremento di fotovoltaico ed eolico è pari ad un +8,4% sul 2023. Insieme hanno coperto il 18,6% del fabbisogno elettrico nazionale”. Da qui l’auspicio degli esperti del Politecnico di Torino: “L’aumento della produzione rinnovabile è la strada da seguire per affrancare l’Italia dalla dipendenza dalle importazioni di gas. Gli ultimi dati di Terna per il 2024 evidenziano che la quota dell’energia rinnovabile sulla produzione totale di energia elettrica è arrivata al 41,2%, il massimo di sempre. Il divario con gli obiettivi intermedi del 2025 (48%) e del 2030 (65%) previsti dal PNIEC (Piano Nazionale Integrato Energia e Clima) richiede un forte impegno”.

    Focus

    Rinnovabili da record in Gb e Germania, ma in Italia il gas naturale copre il 65% dell’elettricità

    di  Luca Fraioli

    03 Gennaio 2025

    E tuttavia lo scenario internazionale sembra spingere verso una crescita del consumo di combustibili, sia in Italia che in Europa. In attesa di vedere come evolveranno il conflitto in Ucraina e quello in Medioriente, c’è comunque la nuova Amministrazione di Washington a influire sulle politiche energetiche del Vecchio Continente. “Aumenterà con Trump la spinta a vendere più petrolio e gas degli Usa all’Europa che già nel corso degli ultimi anni ha aumentato le importazioni di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti”, si legge nel rapporto del Politecnico. “Se nel 2021 pesavano per il 27%, la quota è cresciuta al 41% l’anno successivo, arrivando al 48% sul totale del Gol importato dall’Europa nei primi mesi del 2024”. Un focus specifico è quello dedicato al Mediterraneo, le cui sponde nord e sud confermano la loro asimmetria: la prima importa combustibili fossili e parallelamente impianta rinnovabili, la seconda esporta petrolio e gas, mentre arranca su eolico e fotovoltaico. Guardando al futuro, “diverse opportunità sono legate allo sviluppo di idrogeno verde nei Paesi della sponda Sud, i cui Paesi costieri possiedono un potenziale significativo non solo per la disponibilità di acqua ed energia, ma anche per l’esistenza di infrastrutture portuali, che potrebbero produrre e stoccare idrogeno verde, da esportare verso l’Europa”. “L’Italia in prima fila nello sviluppo del nuovo modello del porto come polo di sviluppo energetico… Si configurano nuovi modelli di gestione dei porti che stanno diventando hub energetici, i cosiddetti green port”. Anche se di green, per ora, c’è ben poco, come ammette il rapporto: “Diversi porti italiani figurano nella top 10 dei principali porti energy dell’area Med, con un ruolo rilevante soprattutto per il trade di petrolio e derivati. Per il greggio: Trieste (38 milioni di tonnellate movimentate), Augusta e Sarroch (12 milioni di tonnellate movimentate ciascuna); Augusta (9,5 milioni di tonnellate) e Sarroch (7,8 milioni di tonnellate) per i prodotti petroliferi raffinati; Napoli per il gas (1 milione di tonnellate); Porto Levante-Rovigo (6,4 milioni di tonnellate) e Piombino (2,4 milioni di tonnellate) per il Gnl”. Per analizzare e comprendere gli impatti di questi fenomeni, SRM (centro studi collegato al Gruppo Intesa Sanpaolo) e ESL@energycenter Lab del Politecnico di Torino stanno implementando una piattaforma interattiva denominata ENEMED Platform che consente di eseguire analisi e ottenere informazioni aggiornate sui flussi energetici dei Paesi dell’area Euro-Mediterranea. Una prima dimostrazione di ENEMED – Plat è stata effettuata al Parlamento Europeo proprio in occasione della Conferenza di presentazione del sesto rapporto Med & Italian Energy Report, che è stato elaborato anche con l’utilizzo della piattaforma. LEGGI TUTTO

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    Clima, sicurezza alimentare messa a rischio da eventi estremi in America Centrale

    Gli eventi climatici estremi, le crisi economiche, la mancanza di accesso a cibi sani, gli ambienti alimentari malsani e la disuguaglianza sociale continuano a tenere nell’insicurezza alimentare e la malnutrizione molte parti dell’America Centrale e del Messico meridionale, aree adesso sotto i riflettori della politica mondiale.

    L’analisi

    Crisi climatica, cosa succede dopo le scelte di Trump sull’ambiente

    di  Giacomo Talignani

    21 Gennaio 2025

    A rivelare la situazione così a limite è un rapporto appena pubblicato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura. Secondo la Fao, la cui sede regionale si trova a Santiago del Cile, 14 Paesi dell’America Latina e dei Caraibi potrebbero subire limitazioni nell’accesso al cibo a causa della crisi climatica. Per la siccità soprattutto. Problema che era stato già evidenziato nell’ultimo rapporto delle Nazioni Unite dal titolo “Prospettive regionali in materia di sicurezza alimentare e nutrizione 2023” secondo cui il 6,5% della popolazione dell’America Latina e dei Caraibi soffre la fame, ossia 43,2 milioni di persone. Sebbene questo dato rappresenti un lieve miglioramento di 0,5 punti percentuali rispetto alla misurazione precedente, la prevalenza della fame nella regione è ancora superiore di 0,9 punti percentuali rispetto al 2019, prima della pandemia Covid-19”. Un problema che non colpisce solo l’America Centrale, visto che tra il 2019 e il 2023, l’insicurezza alimentare – cioè l’accesso discontinuo al cibo – è aumentata in media dell’1,5% nei Paesi vulnerabili dal punto di vista climatico.
    I Paesi lungo il Corridoio secco
    Questi Paesi “sono considerati vulnerabili perché hanno maggiori probabilità di essere colpiti dalla sottonutrizione a causa di questi fenomeni estremi”, afferma l’agenzia Onu, senza rivelare l’elenco completo dei Paesi interessati. Nel dossier intitolato “Prospettive regionali sulla sicurezza alimentare e la nutrizione 2024”, la Fao richiama l’attenzione sulla siccità prolungata. Queste regioni, infatti si estendono lungo il “Corridoio secco”, una zona arida che va dal Messico meridionale a Panama, passando per Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua e Costa Rica. Oltre alla siccità, le ondate di calore e le tempeste hanno un impatto sulla produzione agricola, interrompendo le catene di approvvigionamento e facendo salire i prezzi dei prodotti alimentari, si legge nel rapporto.

    Aviaria, nel 2024 mai così tante infezioni da dieci anni. Allerta Oms: “È una minaccia”

    a cura di redazione Salute

    17 Gennaio 2025

    Le indicazioni geografiche
    Le indicazioni geografiche, non solo dal punto di vista dei problemi aperti, ma per la tutela della biodiversità e identità dei singoli paesi, sono tenute in grande considerazione anche in vista del prossima Conferenza Internazionale proprio dal titolo “Prospettive Globali sulle Indicazioni Geografiche” a Roma dal 18 al 21 febbraio 2025. La conferenza riunirà ricercatori, responsabili politici e operatori per discutere non solo sulle ultime ricerche, ma anche le indicazioni geografiche in tutte le regioni del mondo. Tra il 2019 e il 2023, l’insicurezza alimentare – cioè l’accesso discontinuo al cibo – è aumentata in media dell’1,5% nei Paesi vulnerabili.

    La conferenza

    “Per arrestare il declino della biodiversità servono 1.000 miliardi di dollari l’anno”

    di  Luca Fraioli

    18 Dicembre 2024

    Lo stesso direttore Generale QU Dongyu ha sottolineato che le Indicazioni Geografiche sono una leva potente per lo sviluppo economico delle regioni, per la tutela del sapere tradizionale e per la conservazione dell’identità culturale e del patrimonio regionale in molti paesi.
    La Fao, ha ricordato il Direttore Generale, supporta i Paesi sulle indicazioni geografiche da quasi 20 anni, consolidando e condividendo conoscenze ed esperienze a livello globale, e fornendo formazione e assistenza tecnica in più di 30 paesi perché esse apportano un contributo chiave alla sicurezza alimentare globale. Sicurezza alimentare che il direttore generale ha definito come la garanzia di disponibilità, accessibilità e convenienza del cibo per tutti. LEGGI TUTTO

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    Lavoro in Antartide: buone paghe e si aiuta la scienza

    Se state resistendo alle temperature, volete fare un’esperienza decisamente estrema, guadagnare e aiutare la scienza allora potrebbe esserci il lavoro che fa per voi. Dove? In uno dei luoghi più remoti ed estremi al mondo, l’Antartide, un posto dove però assicurano i datori di lavoro vivrete un periodo “diverso da qualsiasi altro sul Pianeta” e avrete anche la possibilità di fare “amicizie per la vita”. Da pochi giorni due dei principali centri che operano con stazioni di ricerca in Antartide, sia il famoso BAS (British Antarctic Survey) sia l’Australian Antarctic Program hanno infatti aperto alla possibilità di un posto di lavoro, per diverse professioni e non sempre strettamente legate a un carattere scientifico, per chi volesse provare l’esperienza di lavorare in Antartide.

    Laggiù, nelle terre dei ghiacci, dove le temperature sfiorano anche i – 50 gradi, il BAS per esempio lavora all’interno di diverse basi di ricerca per studiare il clima terrestre e gli effetti della crisi climatica nei poli della Terra (ci sono stazioni anche in Artico). La prima cosa che forse vi può interessare è che, nel caso delle offerte di lavoro proposte dalla British Antarctic Survey, lo stipendio base parte da circa 35mila euro e non c’è praticamente mai spesa perchè dai vestiti all’alloggio, dal cibo ai costi classici della vita, è tutto già incluso. Le professioni ricercate variano: carpentieri, chef, elettricisti, idraulici, ufficiali di navigazione, operatori di impianti, ma anche biologi marini, consulenti per la sicurezza, ingegneri dedicati a vari settori e via dicendo. Si tratta, secondo il sito del Bas che ha lanciato le candidature il 20 gennaio, dell’ “opportunità di una vita” perché si parla di “un lavoro diverso da qualsiasi altro e un’esperienza che lascerà ricordi indelebili. I candidati selezionati lavoreranno in alcuni dei luoghi più remoti e belli della Terra, costruendo amicizie durature e contribuendo alla scienza che è importante per comprendere il nostro mondo in continua evoluzione”. Alcune professioni hanno stipendi ovviamente più alti che si aggirano intorno ai 55mila euro ma per ora sono state aperte solo le prime tre posizioni, dalla ricerca di biologi a quella di esperti meteo, ma a breve (è necessario monitorare qui https://www.bas.ac.uk/jobs/vacancies/) ne verranno lanciate altre.

    Ricerca scientifica

    Dal clima alla biodiversità: al via la 40esima spedizione scientifica italiana in Antartide

    di  Fiammetta Cupellaro

    21 Ottobre 2024

    BAS è oggi leader mondiale nella ricerca e nelle operazioni polari che gestisce attraverso stazioni di ricerca, aerei e la grande nave da ricerca Royal Research Ship Sir David Attenborough e offre contratti che iniziano generalmente tra maggio e settembre e durano da sei a 18 mesi, includendo “diversi benefit”. Inoltre, fanno notare dal centro, “non ci sono costi esterni mentre si vive in stazione, poiché tutte le spese di soggiorno sono coperte: alloggio, cibo, viaggio, abbigliamento specialistico, strumenti e formazione”. Alcuni professionisti che hanno già vissuto questa esperienza hanno raccontato cosa significa lavorare in Antartide. Eloise Saville per esempio, carpentiere alla stazione di ricerca Halley su una piattaforma di ghiaccio ha spiegato come il suo lavoro sia “diverso da qualsiasi cosa abbia mai fatto prima. Raschio il ghiaccio dal legno, guido le motoslitte e costruisco cose in uno dei posti più estremi della Terra. Se avessi saputo prima che questa era un’opzione, sarei venuto qui tutto il tempo. Non è solo freddo, è fantastico!” Ben Norrish, che si occupa dei veicoli, aggiunge che “chiunque sia anche solo un po’ curioso di sapere cosa significhi vivere sul ghiaccio deve fare il grande passo e fare domanda per il lavoro della vita: non ve ne pentirete e non sapete dove potrebbe portarvi!”.

    Olivier Hubert per esempio lavora nel catering e spiega come cucinare mentre osserva iceberg, balene e pinguini sia un’esperienza che “non stanca mai”. Ovviamente, prima di candidarsi, bisogna sapere alcune cose, come il fatto che nell’estate antartica ci sono 24 ore di luce, non sono presenti orsi polari (ma 5 milioni di pinguini sì) e che si tratta in tutti i sensi di una esperienza estrema. La stessa che propone anche l’Australian Antarctic Program che, come si legge in un annuncio del 10 gennaio, “sta reclutando centinaia di artigiani e tecnici per 37 ruoli, tra cui operatori di gru mobili, carpentieri, addetti alle forniture di stazione e responsabili di campo, per la stagione 2025/26”. Anche in questo caso bisogna tener d’occhio il sito (https://jobs.antarctica.gov.au/jobs-in-australia/) per conoscere se c’è una posizione adatta al proprio curricula all’interno delle tre stazioni di ricerca scientifica australiane in Antartide (Davis, Mawson e Casey) e sull’isola subantartica Macquarie. Come ricordano i ricercatori, anche qui “il lavoro è duro ed è un sacrificio enorme trovarsi così lontano dalla famiglia e dagli amici, ma la ricompensa è una vita di storie, amicizie e ricordi indelebili”. Alcune posizioni, nonostante l’annuncio di pochi giorni fa, sono già state affidate, per cui per chi volesse tentare è necessario affrettarsi. In alternativa, da febbraio, nuove posizioni – sempre per lavori di vario tipo – saranno disponibili anche da parte del Programma Antartico della Nuova Zelanda (https://www.antarcticanz.govt.nz/careers). LEGGI TUTTO

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    La Stella alpina, come coltivare a casa un simbolo della montagna

    Simbolo per eccellenza della montagna, la stella alpina è una pianta dalla rara bellezza, che vive in alta quota, sopra i 2000 metri di altitudine, su terreni aridi e rocciosi. Tuttavia, può essere anche coltivata in pianura, in posti dove non sia eccessivamente caldo. Contraddistinta da fiori bianchi e soffici, questa splendida pianta è tanto piccola, quanto tenace: conosciuta per la sua grande resistenza, cresce in condizioni climatiche differenti, sopportando anche temperature sottozero.

    Stella alpina: coltivazione in giardino e in vaso
    La stella alpina è chiamata a livello scientifico leontopodium nivale ed è anche nota con il nome di edelweiss. Originaria dell’Asia centrale, si è poi diffusa in Europa: in Italia cresce in modo spontaneo su Alpi e Appennini centrali ed è vietato raccoglierla in quanto è una specie protetta visto che è a rischio estinzione. Parte della famiglia delle Asteraceae, la stella alpina fiorisce durante l’estate, tra giugno e luglio, ma in caso di una primavera calda potrebbe anche anticipare la fioritura a partire da metà maggio. Durante l’inverno la sua parte aerea tende a seccare, mentre la radice resta viva, germogliando e rifiorendo in seguito all’arrivo della primavera.

    Specie perenne e rustica, la pianta può essere coltivata in giardino oppure in vaso, tenendo conto che preferisce un clima fresco, sopportando il freddo e adattandosi oltre a -20 gradi, mentre potrebbe avere problemi in caso di estati con temperature superiori ai 30 gradi. La stella alpina è coltivabile sia da una piantina già germogliata, sia dai semi: in entrambi i casi è opportuno ricorrere a un nutrimento naturale per stimolare l’attecchimento dei semi e delle radici, come perle bioattivanti, per poi ripetere l’operazione dopo un paio di mesi durante tutto il suo periodo vegetativo. La semina va effettuata tra marzo e aprile oppure nel mese di febbraio, se eseguita in un ambiente protetto. Per quanto riguarda il trapianto in giardino i semi vanno raccolti in gruppi di 10 e posti a un centimetro di profondità, senza coprirli con il terriccio. Tra i gruppi di semi è necessario lasciare una distanza di 20 cm e di 15 cm qualora si desideri ottenere un risultato più denso. Il substrato va mantenuto umido in modo costante fino alla germinazione, premurandosi però che non sia bagnato.

    Se la stella alpina si coltiva in vaso è importante considerare come questa richieda molto spazio per la sua crescita: è necessario ricorrere a un contenitore in plastica della profondità di 20 centimetri, per poi rinvasare la pianta in uno più grande durante la primavera, operazione da eseguire per i primi 3 anni. Quando si effettua il trapianto è molto importante prestare attenzione a non rompere la zolla di terra che si trova attorno alle radici. Per uno sviluppo ottimale della pianta, il vaso va posto all’aperto, spostandolo all’ombra durante il periodo estivo.

    Dove collocare la stella alpina
    Per quanto riguarda il terreno la stella alpina ne richiede uno drenante, ghiaioso e sabbioso, ma allo stesso tempo fertile e contenente della sostanza organica dal ph neutro. Se si possiede un giardino roccioso, può essere piantata direttamente in questo ambiente. In merito alla sua esposizione è necessario collocare la pianta in un luogo che sia soleggiato, in cui batta il sole durante la giornata, ma che sia comunque fresco: se il freddo non è un problema, visto che la stella alpina tollera bene anche i climi più rigidi, il caldo invece rappresenta una criticità, soprattutto in caso di temperature sopra i 30 gradi, che potrebbero farla seccare e ingiallire. Proprio per questo, in estate è opportuno collocare la pianta in un punto semi-ombreggiato, ricorrendo a un telo con cui proteggerla durante le ore centrali della giornata e dandole da bere in modo costante. Inoltre, dovrebbe essere riparata dalle piogge dirette.

    Stella alpina: irrigazione e altri consigli utili per la sua cura
    La stella alpina non necessita di molta acqua, essendo abituata alla carenza idrica nel suo habitat naturale. La pianta deve essere irrigata con costanza tra maggio e settembre, dandole da bere in modo abbondante quando il terreno risulta asciutto, evitando tassativamente i ristagni idrici. Durante gli altri mesi si deve procedere con annaffiature moderate. Per uno sviluppo ottimale, una volta all’anno va concimata in modo leggero, non richiedendo tanti nutrienti, svolgendo questa operazione dopo la sua fioritura. La potatura non è necessaria, dovendo limitarsi a rimuovere foglie e fiori secchi.

    Nella manutenzione della stella alpina ci sono delle problematiche alle quali prestare molta attenzione. Tra i suoi nemici rientrano i ristagni d’acqua, responsabili del marciume radicale, e i parassiti, tra cui afidi, cocciniglie e acari, da rimuovere evitando pesticidi chimici, per non danneggiarla, ma affidandosi bensì a oli essenziali dall’azione repellente, come l’olio di melaleuca e l’olio di neem, da applicare su un batuffolo di cotone con cui trattare l’infestazione. Inoltre, la pianta può essere colpita da malattie fungine, dovendo intervenire con trattamenti specifici in modo tempestivo se presenti. Altra criticità che potrebbe colpire la stella alpina è il fatto che si secchi, situazione che insorge per via di condizioni ambientali errate, come per esempio temperature eccessivamente elevate, un terreno poco drenante e nutrienti scarsi, dovendo rivedere l’irrigazione, evitando sia di renderla un’operazione sporadica, sia di eseguirla in modo troppo sovente e abbondante. LEGGI TUTTO

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    In Europa oltre 2,3 milioni di morti con l’aumento delle temperature entro il 2100

    Roma, Napoli Milano e Genova saranno tra le città europee che pagheranno di più in termini di morti legate all’aumento delle temperature. Non a caso, essendo il Mediterraneo una delle aree più a rischio del Vecchio continente. L’ennesimo allarme riguardo gli effetti fatali del caldo arriva dalla rivista Nature Medicine, rafforzando le numerose ricerche nel campo che puntavano tutte nella stessa direzione, ovvero verso un aumento dei decessi per gli effetti del cambiamento climatico, sebbene con entità diverse da studio a studio.

    Più volte infatti diversi scienziati si sono interrogati sulle ripercussioni per la salute dell’aumento delle temperature, elaborando previsioni o in alcuni casi guardando indietro per osservare l’andamento della mortalità in periodi eccezionalmente caldi. La ricerca di oggi è del primo tipo: si tratta infatti di un’analisi che ha cercato di stimare il peso dei cambiamenti climatici sulla mortalità per oltre 800 città europee in diversi scenari climatici, più o meno disastrosi. Le stime, racconta il team di ricercatori coordinato dalla London School of Hygiene & Tropical Medicine, da tempo impegnato in studi simili, hanno riguardato gli effetti dei cambiamenti climatici tanto sulle morti correlate al freddo che al caldo.

    Come gli stessi autori scrivono su Nature Medicine, imbarcarsi in una simile impresa è stato tutt’altro che facile, perché diversi sono stati i fattori da analizzare: gli effetti da valutare per diversi scenari climatici si legano a quelli dell’adozione più o meno importante di strategie di adattamento e alla struttura demografica della popolazione (gli anziani sono generalmente la fascia più fragile), a loro volta più o meno vulnerabile a seconda delle diverse condizioni socioeconomiche. Tenendo in considerazione tutto questo, i ricercatori hanno elaborato delle stime che nel complesso, spiegano, lasciano pensare che in futuro saranno più le morti per il troppo caldo che le morti legate al freddo evitate.

    “Questo studio fornisce prove convincenti che il forte aumento dei decessi correlati al caldo supererà di gran lunga qualsiasi calo correlato al freddo, con conseguente aumento netto della mortalità in tutta Europa – commenta infatti dalla London School of Hygiene & Tropical Medicine l’italiano Antonio Gasparrini, esperto di epidemiologia e biostatistica, tra gli autori del paper – Questi risultati smentiscono le teorie avanzate sugli effetti ‘benefici’ del cambiamento climatico, spesso proposte in opposizione a vitali politiche di mitigazione che dovrebbero essere implementate il prima possibile”.

    Nel dettaglio le stime dei ricercatori dicono che, nello scenario climatico peggiore, dal 2015 alla fine del secolo le morti legate alle temperature in Europa, per un aumento di circa 3°C, potrebbero essere 2,3 milioni. Per scenari climatici più ottimisti però, aggiungono gli scienziati, le morti si potrebbero ridurre di due terzi e c’è un ampio margine di miglioramento anche con l’adozione di strategie di adattamento piuttosto ambiziose. Dal punto di vista geografico, come anticipato, il peso dell’aumento delle temperature si farà sentire soprattutto al sud, e specialmente nell’area del Mediterraneo e dei Balcani, aggiungono gli esperti, con Barcellona, Roma, Milano, Napoli, Genova, Atene, Valencia, Marsiglia, Bucarest e Madrid tra le città più colpite tra quelle prese in considerazione e dove gli sforzi di adattamento agli effetti del caldo dovrebbero essere maggiori.

    Nelle aree più settentrionali dell’Europa l’aumento delle temperature potrebbe invece ridurre le morti correlate alle temperature, per riduzione di quelle correlate al freddo, con un effetto mascherato però dagli effetti osservati in altre aree d’Europa, puntualizzano gli esperti. Le conclusioni degli autori sono, ancora una volta, per un appello a fare di più: “I nostri risultati rivelano che in assenza di progetti di mitigazione ambiziosi, un livello sostanziale e piuttosto improbabile di adattamento al calore è necessario per prevenire l’aumento della mortalità correlato alla temperatura”. LEGGI TUTTO

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    Mascherine facciali, da scarto inquinante a prodotto ad alte prestazioni

    È dallo scoppio della pandemia di Covid-19, che i ricercatori di tutto il mondo studiano come riciclare l’enorme quantità di mascherine che si è accumulata nelle discariche. Che se da un lato protegge dalla diffusione di virus, dall’altra è considerato un prodotto altamente inquinante. Fino adesso i tentativi di riutilizzo non hanno però convinto del tutto sia gli scienziati che gli investitori. Nei vari esperimenti non si mai trovato quell’equilibrio fondamentale tra efficienza delle prestazioni dei nuovi prodotti, benefici economici e impatti ambientali associati alla nuova produzione. Alcune volte il processo era troppo costoso oppure poco efficiente oppure consumava troppe materie prime. Allora che fare?

    La nuova ricerca
    Gli esperimenti non si sono mai fermati e ora una nuova ricerca che arriva dalla Cina e pubblicata su Engineering spiega come i ricercatori dell’università di Scienza e Tecnologia di Huazhong siano riusciti, grazie all’uso di una tecnologia innovativa, a convertire semplici mascherine gettate in discarica in prodotti verdi di alto valore come l’idrogeno e i nanotubi di carbonio (CNT) materiale utilizzato anche in ambito aerospaziale e di stoccaggio di energia. Non solo. Secondo i ricercatori, il nuovo sistema di riciclo sarebbe sostenibile anche dal punto di vista economico, sia perché la tecnologia per creare CNT su larga scala con le mascherine facciali è poco costosa sia per le abbondanti riserve della materia prima a basso costo visto che si trova in discarica. Considerando che il potenziale di inquinamento delle mascherine facciali è principalmente correlato ai componenti polimerici, mentre i fili metallici possono essere facilmente riciclati, la plastica era l’obiettivo.

    La polemica

    Nonostante i treni gratis, i potenti di Davos continuano a usare i jet privati e ad emettere CO2

    di  Giacomo Talignani

    22 Gennaio 2025

    Dai rifiuti allo spazio: i nanotubi di carbonio
    Il processo utilizzato dagli scienziati cinesi che hanno coordinato gli esperimenti si basa dunque sulla conversione termochimica, principalmente sulla pirolisi catalitica, dei rifiuti polimerici: simile al processo di raffinazione della plastica e che mira a soddisfare la domanda di veicoli elettrici e a idrogeno. Gli autori del nuovo studio hanno utilizzato il FeNi-MW (catalisi assistita da microonde con FeNi/Al 2 O 3) per convertire le maschere facciali in CNT e idrogeno, con elevate rese.

    Unione Europea

    Ue, da oggi vietato usare Bisfenolo A nei contenitori per alimenti

    di  Paolo Travisi

    20 Gennaio 2025

    Si legge nella ricerca: “Rispetto alle tradizionali tecnologie di incenerimento e discarica per la gestione dei rifiuti pericolosi, la tecnologia di pirolisi catalitica adalte temperature sviluppata in questo studio per la produzione di CNT dalle mascherine scartate offre diversi vantaggi. Da una prospettiva di economia circolare, non solo elimina i batteri per soddisfare i requisiti del trattamento dei rifiuti medici pericolosi, ma trasforma anche le mascherine scartate in prodotti di alto valore”.

    “Fattibile dal punto di vista economico”
    E se oggi già viene considerata l’opzione più economicamente fattibile e sostenibile dal punto di vista ambientale nell’attuale contesto di mercato e tecnologico “si prevede che il prezzo dei CNT diminuirà gradualmente man mano che la domanda di mercato per loro continua a crescere e la tecnologia di pirolisi catalitica diventerà più matura”.

    Perchè sono così inquinanti
    Scrivono gli autori dello studio: “Vale la pena ricordare che lo smaltimento improprio delle mascherine può rappresentare una vera e propria minaccia ecologica, tra cui la diffusione di virus e l’esacerbazione dell’inquinamento da microplastiche. È stato anche dimostrato che il virus infettivo può sopravvivere sulle mascherine per diversi giorni, mettendo potenzialmente in pericolo la fauna selvatica, la vita marina e persino gli esseri umani. Inoltre, le mascherine scartate dai professionisti medici possono contenere numerosi microrganismi patogeni e richiedono una manipolazione attenta. Le attuali tecnologie utilizzate per il trattamento dei rifiuti medici, come l’incenerimento ad alta temperatura e la sterilizzazione seguite da discarica, presentano sfide ambientali ed economiche. Ad esempio, l’incenerimento ad alta temperatura genera gas pericolosi e le scorie prodotte dall’incenerimento dei rifiuti possono essere una potenziale fonte di microplastiche. Queste preoccupazioni ambientali richiedono l’installazione di costosi dispositivi di controllo dell’inquinamento. Il settore del trattamento dei rifiuti medici, in particolare nei paesi in via di sviluppo, deve affrontare sfide significative a causa degli elevati costi e della mancanza di prodotti di valore in uscita. Pertanto, gli attuali metodi di smaltimento delle mascherine facciali possono causare impatti ambientali sostanziali e consumo di risorse”. LEGGI TUTTO

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    Energia, un italiano su quattro pronto a traslocare per una casa più sostenibile

    La casa del futuro per gli italiani dovrà essere efficiente dal punto di vista energetico e sostenibile. Sarà per il caro bollette o per una nuova consapevolezza ambientale, ma secondo una nuova ricerca condotta a livello europeo un italiano su 4 si dice pronto a cambiare casa con l’obiettivo di ridurre gli sprechi energetici. Soprattutto cercando di riscaldare e rinfrescare consumando poco.

    Fisco verde

    Energia rinnovabile, al via gli incentivi per i Gruppi di autoconsumo

    di  Antonella Donati

    14 Gennaio 2025

    Il 28% disposto perfino a trasferirsi all’estero
    D’altronde le nuove tecnologie applicate anche alla transizione energetica stanno già cambiando radicalmente l’assetto delle nostre abitazioni. Così, in linea con la media europea, il 24% degli italiani ha dichiarato di desiderare una nuova soluzione abitativa. Di questi, il 17% prevede di traslocare entro i prossimi 12 mesi, mentre il 28% valuta il trasferimento in un Paese straniero, con l’obiettivo di trovare una vita economicamente più sostenibile. Una percentuale significativa visto anche che l’aumento dei costi abitativi in Italia è inferiore rispetto alla media europea (-15%).

    Fisco verde

    Bonus elettrodomestici, come sostituire il vecchio con il nuovo per consumare meno

    di  Antonella Donati

    08 Gennaio 2025

    Lo scenario emerge dal RE/MAX European Housing Trend Report 2024, che offre un’analisi approfondita dei cambiamenti che stanno influenzando il mercato immobiliare europeo, esplorando come le pressioni finanziarie, le preferenze in evoluzione e le preoccupazioni legate alla crisi climatica stiano plasmando le decisioni abitative.

    Voglia di casa green
    Nei principali trend che stanno guidando l’evoluzione della scelta della casa in Italia, una parola chiave sembra quella di assicurare per la propria famiglia uno stile di vita più green. Gli italiani infatti hanno affermato che quando cercano una nuova casa ora attribuiscono grande valore agli spazi esterni: il 52% considera fondamentali balconi, terrazze o giardini, una percentuale superiore rispetto alla media europea del 44%. Altri fattori, come la disposizione degli spazi interni (9%) e la vicinanza al luogo di lavoro (16%), risultano meno cruciali, segnalando invece una maggiore attenzione al miglioramento dello stile di vita e del comfort abitativo.

    Fisco verde

    Dai pannelli alle caldaie: aumentano gli impianti finanziati dal “Conto termico”

    di  Antonella Donati

    18 Dicembre 2024

    La sostenibilità anche economica
    Inoltre, il 44% degli italiani è interessato a immobili dotati di sistemi per l’efficientamento energetico, il 26% desidera vicinanza a spazi verdi, il 24% valuta essenziale la prossimità a servizi quali scuole e negozi, mentre il 23% considera fondamentale un buon collegamento con i trasporti pubblici. Non solo. Dall’indagine di RE/MAX Europe emerge che se il 39% degli intervistati in Italia segnala un aumento dei costi abitativi nell’ultimo anno, il 58% considera la sostenibilità economica della propria abitazione più importante di qualsiasi altro aspetto.

    La ricerca
    Il sondaggio fornisce una fotografia dei desiderata raccolti intervistando 20 mila persone in Regno Unito, Francia, Germania, Austria, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Finlandia, Grecia, Ungheria, Irlanda, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia, Spagna, Svizzera, Turchia e Italia. In generale, dall’indagine emerge che il mercato immobiliare europeo sta attraversando cambiamenti profondi, influenzati dalle sfide internazionali in corso e dal crescente costo della vita. Ciò sta portando le famiglie di tutta Europa a rivalutare le esigenze abitative per meglio bilanciare le pressioni finanziarie con il desiderio di migliorare le condizioni di vita. Per molti europei, i costi abitativi rappresentano infatti la voce di spesa più significativa del bilancio familiare. In media, il 38% del reddito mensile è destinato a mutui, affitti e bollette. LEGGI TUTTO

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    Biocombustibili, il problema della certificazione di sostenibilità

    La sostenibilità dei biocombustibili – a base di residui organici vegetali – non è solo un tema ambientale ma anche regolamentare; qualcuno direbbe che l’Italia è in una fase “sliding doors”, un bivio caratterizzante per il futuro. Ne è convinta l’Associazione EBS (Energia da biomasse solide) che recentemente ha contribuito insieme ai ministeri dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica e dell’Agricoltura della Sovranità Alimentare e delle Foreste, enti certificatori e altre associazioni a dar vita a un tavolo tecnico per semplificare le procedure e l’iter certificativo entrato in vigore dallo scorso agosto. In pratica con il recepimento delle direttive europee è stato inaugurato l’obbligo di un sistema di certificazione della sostenibilità dei biocombustibili che riguarda tutti gli operatori industriali con impianti di taglia superiore ai 20 MW termici. Nello specifico bisogna ricordare che le biomasse solide sono la parte biodegradabile che si ricava dalla manutenzione dei boschi e dai residui delle attività agricole e agroindustriali. Si pensi al legno delle potature, i sottoprodotti delle lavorazioni (es. lolla), la paglia, le vinacce, le sanse residuali della molitura dell’olio, etc. In Italia (Eurostat 2021) rappresentano tra i biocombustibili il 32,1% della produzione; più di biogas (21,7%), rifiuti urbani rinnovabili (17,6%) e biocarburanti liquidi (2%).

    Energia rinnovabile e programmabile nella produzione
    Il conferimento di questa risorsa consente, tramite sofisticati impianti ad alta temperatura, di produrre circa 4.100 GWh l’anno – pari a circa il 13% del settore rinnovabile. Non solo è un approccio circolare (delle biomasse residuali bisognerà pur far qualcosa), ma contribuisce alla gestione del patrimonio boschivo e nel rispetto del ciclo del carbonio non si generano emissioni aggiuntive di gas serra. In pratica la CO2 rilasciata nella combustione della biomassa è pari a quella assorbita dalle piante durante il loro ciclo di vita. Non di meno andrebbe ricordata la possibilità di programmare la produzione e quindi rispondere a necessità diverse indipendentemente dai fattori atmosferici. I tredici operatori che fanno parte di EBS grazie a 16 stabilimenti dislocati su tutto il territorio italiano – con capacità complessiva di 250 MWe – generano una produzione elettrica annua superiore ai 1.500 GWh. In pratica il 40% della produzione nazionale proveniente da biomassa solida. Ed ecco spiegata la preoccupazione che la complessità dei regolamenti possa generare effetti collaterali negativi nel settore. Da una parte c’è il tema di una filiera articolata, dall’altra la difficoltà per gli stessi enti di certificazione di accreditarsi per tempo. “I primi incontri si sono tenuti negli scorsi mesi presso il Masaf rivelandosi molto utili per condividere il punto della situazione di criticità e proposte da parte dei diversi portatori d’interesse coinvolti. Entro la fine di gennaio è atteso un nuovo tavolo ai fini della semplificazione della procedura”, spiega il presidente di EBS, Andrea Bigai.

    Le sfide del tavolo tecnico
    Le centrali a biomassa solida hanno sempre richiesto forti investimenti e notevoli costi di esercizio. Il comparto ha quindi manifestato l’esigenza di un sistema di sostegni che in effetti è previsto dalla nuova normativa: si parla di un regolamento di prezzi minimi garantiti. Il problema è che mancano ancora direttive operative. Non solo. Secondo il presidente Bigai bisognerebbe considerare la peculiarità dello scenario italiano e quindi “l’esistente patrimonio di tracciabilità autorizzativa e documentale e di controlli periodici che ormai da anni gli ispettori del ministero delle politiche agricole alimentari e forestali sistematicamente attuano, e le caratteristiche dei primi operatori delle nostre filiere”. Già, perché la maggior parte degli operatori è di piccole dimensioni e di conseguenza il costo di una certificazione non sarebbe sostenibile rispetto al ricavo ottenuto dall’attività. “Il rischio è che si possa perdere una parte della filiera, a svantaggio di tutta la collettività che vedrebbe compromettere un sistema ben rodato di economia circolare, di impiego a cascata dei residui, di valorizzazione energetica degli scarti”, sottolinea il presidente. Senza contare “un aumento dei costi variabili della nostra generazione elettrica, con effetto contrario rispetto all’obiettivo della legge che mirava ad abbassarli, considerando che la materia prima rappresenta il 95% del costo variabile”.

    Da rilevare che comunque lo Stato gode di benefici fiscali annui diretti e indiretti, nonché, secondo le stime dell’associazione, un prelievo fiscale dell’indotto di circa 442mila euro per MW installato. Fra le proposte migliorative EBS suggerisce che i terzisti che fungono da collettore per i fornitori di biomassa possano essere considerati “come primo punto di raccolta facendo enormemente diminuire il numero di soggetti da certificare, con il vantaggio di confrontarsi con realtà strutturate”. Bigai ricorda infatti che i singoli fornitori sono circa un migliaio e spesso collocati anche in zone remote e montane. “Il loro coinvolgimento diretto richiederebbe dunque un impiego notevole di tempo e risorse anche da parte degli enti accreditati”. Il tavolo tecnico dovrebbe definire a breve termine “puntuali misure attuative di chiarimento e semplificazione” fondamentali per le indicazioni operative dedicate agli organismi di certificazione. Senza dimenticare che una volta raggiunto l’obiettivo la mole di richieste di certificazione da evadere saranno 3-4 mila, per di più caratterizzate da schemi diversi. “Da questo punto di vista, emerge l’importanza di assicurare l’interoperabilità tra sistemi di certificazione riconosciuti e l’opportunità di procedere per fasi, secondo un ordine logico per tipologia di realtà. Gli operatori elettrici industriali (circa 50, ndr.) assicurano il loro massimo sforzo e la loro totale disponibilità a collaborare”, conclude Bigai. LEGGI TUTTO