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    Cop16, gli aiuti al Sud del mondo per salvare la biodiversità

    La partita cruciale per arginare e invertire la perdita di biodiversità che sta investendo ogni angolo del globo, e in particolare il Sud del mondo, si gioca in Italia: dal 25 al 27 febbraio la FAO a Roma ospiterà infatti la seconda sessione della Conferenza delle Parti sulla Biodiversità (COP16Bis) delle Nazioni Unite, cui anche Greenpeace parteciperà con una propria delegazione di rappresentanti. L’appuntamento arriva a pochi mesi dalla COP16 di Cali, in Colombia, sospesa lo scorso 2 novembre per il mancato accordo sulle risorse economiche che i Paesi del Nord globale avevano promesso di destinare al Sud del mondo per contrastare la perdita di biodiversità.

    Al vertice di Cali erano stati raggiunti alcuni risultati positivi: tra questi, la creazione di un nuovo organismo dedicato ai Popoli Indigeni, la definizione di un metodo standard per identificare le aree oceaniche di alto valore ecologico, e un accordo sui contributi finanziari che le aziende utilizzatrici di informazioni genetiche derivanti dalla biodiversità (come quelle dei settori farmaceutico, cosmetico e biotecnologico) dovranno destinare alla conservazione della natura. Ma restano importanti questioni da dirimere: garantire un accesso diretto ai finanziamenti per i Popoli Indigeni e le comunità locali; assicurare che il fondo di Cali per convogliare le risorse derivanti dall’uso commerciale della natura venga reso operativo in modo corretto, giusto ed equo; raggiungere un accordo, entro il 2025, su un piano per ridurre gradualmente, riformare ed eliminare gli incentivi finanziari dannosi per la natura.

    Lo stallo più grande da superare è la mancanza di impegni concreti dei Paesi più ricchi in favore di quelli in via di sviluppo, i più impattati dalla perdita di biodiversità: una questione essenziale per attuare il Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework (KM-GBF), il Quadro Globale per la Biodiversità scaturito della storica COP15 di Montreal del 2022. Tra i target principali stabiliti dal KM-GBF, ci sono la protezione di almeno il 30% degli ecosistemi marini e terrestri entro il 2030, un flusso di risorse economiche dai Paesi sviluppati a quelli meno sviluppati di 20 miliardi di dollari all’anno entro il 2025 e di 30 miliardi all’anno entro il 2030, una riduzione dei sussidi ai settori dannosi per la biodiversità di almeno 500 miliardi di dollari entro il 2030.

    “La priorità del summit che si terrà a Roma è sbloccare un’equa distribuzione delle risorse economiche necessarie ad arginare la perdita di biodiversità, assicurando almeno 20 miliardi di dollari entro il 2025 alle comunità che più pagano le conseguenze della distruzione di habitat e dello sfruttamento di risorse naturali”, dichiara Martina Borghi, campaigner Foreste di Greenpeace Italia.

    “C’è un importante gap da colmare e l’Italia è tra i principali responsabili del ritardo nel versamento della propria quota in favore dei Paesi in via di sviluppo. Inoltre è importante ridurre e riallocare a favore di un’effettiva ed efficace protezione della natura i sussidi elargiti ai settori ambientalmente dannosi, cui anche il nostro Paese contribuisce in misura significativa”.Tra il 2016 e l’inizio del 2023, denuncia il report di Greenpeace “EU Bankrolling ecosystem destruction”, diverse istituzioni finanziarie con sede in Italia hanno contribuito con 10 miliardi di euro in credito e oltre 2,5 miliardi di euro in investimenti a importanti società in settori come quelli lattiero-caseario, della mangimistica, dei biocarburanti e del packaging, che mettono a rischio gli ecosistemi del pianeta.

    Uno studio che quantifica l’impatto della deforestazione legata ai consumi delle economie più sviluppate, pubblicato sulla rivista scientifica Nature nel 2024, evidenzia in particolare come tra il 2001 e il 2015 circa l’80% della perdita di biodiversità associata ai consumi italiani sia avvenuta al di fuori dei confini nazionali: tra i 24 Paesi considerati, l’Italia si posiziona al settimo posto a livello globale e al quarto a livello europeo per perdita di biodiversità “importata”.

    Da un rapporto di ODI (Overseas Development Institute) del giugno 2024 emerge inoltre che, a dispetto degli obiettivi fissati alla COP15 di Montreal, su 28 Paesi analizzati, 23 hanno versato meno della metà della loro quota promessa ai Paesi in via di sviluppo per arginare la perdita di biodiversità, con 8,4 miliardi di dollari e un deficit di 11,6 miliardi di dollari: tra i principali responsabili del ritardo ci sono Giappone, Regno Unito, Italia, Canada e Spagna, che mancano all’appello con 8,3 miliardi. Soltanto Norvegia e Svezia hanno rispettato il loro impegno.

    L’Italia è il Paese europeo con la maggiore varietà di habitat e di specie, e il più alto numero di specie endemiche: oltre il 50% delle specie vegetali e il 30% di quelle animali di interesse conservazionistico a livello europeo si trovano solo nel nostro Paese. L’Italia vanta anche 85 tipi di ecosistemi terrestri, ma il 68% di questi è in pericolo, mentre il 30% delle specie presenti è a rischio estinzione. A oggi, le aree protette sul territorio italiano coprono appena il 17% della superficie terrestre e l’11% di quella marina; tuttavia, quest’ultima cifra è incerta perché include anche siti protetti soltanto su carta, come recentemente denunciato da Greenpeace. Eppure, il 32% degli habitat marini soggetti a degrado in Europa si trova proprio nel Mediterraneo.A livello globale le cose non vanno meglio. Solo circa il 15% della superficie terrestre risulta protetto.

    Tra il 2015 e il 2020, la FAO stima un tasso di deforestazione di circa 10 milioni di ettari all’anno, con l’agricoltura intensiva tra le principali cause della perdita di biodiversità e il 33% del suolo terrestre utilizzato per coltivazioni o pascoli. Circa il 75% dell’ambiente terrestre risulta a oggi significativamente alterato dalle attività umane. Per quanto riguarda la superficie marina, risulta protetto l’8,4% degli oceani, anche se appena il 2,7% risulta sottoposto a rigide misure di conservazione, con una percentuale che si riduce allo 0,9% per le aree d’alto mare al di fuori della giurisdizione nazionale.

    Mentre la Lista Rossa della IUCN (l’Unione internazionale per la conservazione della natura) conta oltre 150 mila specie minacciate, 42.108 delle quali a rischio estinzione.La conservazione della biodiversità rimane dunque una delle sfide più urgenti, che deve fare i conti con molteplici minacce: dal cambiamento climatico alla distruzione e frammentazione degli habitat, dallo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali all’inquinamento.

    E mentre gli oceani si trovano a fronteggiare vecchi e nuovi pericoli, dalla pesca industriale al possibile avvio delle estrazioni minerarie in alto mare (il cosiddetto deep sea mining), le foreste continuano a essere distrutte per gli interessi dell’agroindustria e delle compagnie del gas e del petrolio.Per evitare il collasso della biodiversità marina e terrestre e quindi garantire il mantenimento della funzionalità degli ecosistemi, è necessario fermare e invertire la tendenza al più presto: pertanto, Greenpeace sarà alla COP16Bis per chiedere l’approvazione di una strategia di mobilitazione delle risorse che sia tempestiva, trasparente, giusta ed equa, con finanziamenti direttamente accessibili ai Popoli Indigeni e alle comunità locali più impattati dalla perdita della natura. LEGGI TUTTO

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    Dove si vive senza energia elettrica né riscaldamento per scelta green

    La crisi climatica, con tempeste dalla forza dirompente, bombe d’acqua violente, allagamenti causati dallo straripamento di fiumi, sono fenomeni sempre più diffusi. Anche laddove, un tempo non si verificavano. Purtroppo la violenza dell’acqua e la potenza del vento possono mettere ko centri urbani di qualsiasi dimensioni. È successo in Italia, ed è accaduto recentemente con la tempesta Eowyn, che ha colpito Irlanda e Scozia con venti paragonabili a quelli di un uragano. Nella contea di Galway, le onde oceaniche si sono alzate fino ai 12 metri di altezza, mentre i venti hanno raggiunto i 185 km/h, un mix devastante che provocato il blackout elettrico di circa 560mila edifici.

    Vivere senza energia elettrica è un incubo per gran parte di noi, anche solo qualche giorno può rappresentare un’esperienza traumatica. Eppure, c’è chi nella contea di Fermanagh, territorio irlandese conosciuto come la terra dei laghi – anch’esso colpito da Eowyn – ha scelto di farlo già da anni, senza elettricità ed addirittura senza avere accesso all’acqua potabile. Come Margaret Gallagher, un’anziana di 83 anni, che vive nella sua piccola casa con il tetto in paglia vecchia di oltre 200 anni, appena fuori Belcoo (Irlanda del Nord), nello stesso luogo dove è nata nel 1942. Una vita molto semplice, da sempre senza acqua corrente, frigorifero o altri elettrodomestici e neanche il riscaldamento centralizzato, ma solo un camino che riscalda tutta casa, come ha raccontato a BBC.
    L’anziana inglese, in realtà, vive in queste condizioni, da quando, bambina di 10 anni, perse sua madre e fu costretta a prendersi cura di suo padre disabile, morto nel 1980. Una famiglia che, anche per motivi economici non ha mai modernizzato la casa, così Margaret sin da piccola si è abituata ad andare al pozzo a prendere l’acqua, a cucinare con il fuoco del camino, che riscalda anche il cottage, mentre quando è buio usa candele e lampada a olio per illuminare. Il suo intrattenimento è basato sull’ascolto della radio a batterie e sulla lettura. Eppure, questo stile di vita anacronistico, le ha consentito di affrontare nel migliore dei modi le conseguenze della tempesta Eowyn, che ha lasciato il villaggio senza elettricità e le ha permesso di dare conforto ai suoi vicini, fornendo acqua fresca e pasti caldi, mentre molti abitanti non riuscivano neanche a dormire senza i riscaldamenti nelle gelide notti di gennaio. LEGGI TUTTO

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    Fotovoltaico gratis in base all’ISEE: come funziona il reddito energetico

    Torna per il 2025 il Reddito energetico nazionale, la misura che consente di ottenere un impianto fotovoltaico gratis da parte delle famiglie a basso reddito. Il meccanismo prevede infatti un contributo in conto capitale a copertura delle spese che viene riconosciuto alle imprese realizzatrici, mentre le famiglie che presenteranno la domanda non dovranno sostenere alcun […] LEGGI TUTTO

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    Car sharing, car pooling, ride sharing: quali sono le differenze

    Fa risparmiare denaro, tempo, stress. E, ovviamente, fa bene all’ambiente. La mobilità condivisa in automobile, ottimo esempio di economia collaborativa, sta assumendo sempre maggiore rilievo. Tant’è che anche in Italia, come conferma l’ottavo Rapporto nazionale sulla sharing mobility dell’omonimo Osservatorio, le cifre sono in costante aumento. Per non farsi cogliere impreparati, è allora importante conoscere i termini-chiave del settore, come car sharing, car pooling, ride sharing. Simili sì, ma non sinonimi.

    Car-sharing
    Il car-sharing prevede che un’auto di proprietà di un’azienda venga noleggiata e utilizzata da più persone anche durante la stessa giornata. Un sistema che ha iniziato a diffondersi in Europa già alla fine degli anni Ottanta, mentre nella nostra penisola il primo decreto di stanziamento di fondi in proposito, approvato dal ministero dell’Ambiente, risale al 1998. In seguito al provvedimento, viene istituita Ics (Iniziativa car sharing), organismo preposto a fornire assistenza alle città intenzionate a sviluppare il progetto.

    Oggi, attraverso lo smartphone, è possibile registrarsi al servizio, prenotare la vettura desiderata e pagare il tempo di impiego alla fine di ogni noleggio. Due i tipi di car sharing. Il primo è quello convenzionale (chiamato station based), in cui l’utente preleva e riconsegna l’auto in parcheggi definiti: un esempio è IoGuido del gruppo Ics. Il secondo è quello a flusso libero (free floating), in cui prelievo e riconsegna possono avvenire in qualsiasi punto all’interno dell’area prevista: esempi sono Car2Go di Daimler Ag, DriveNow di Bmw, Enjoy del gruppo Eni. Il car sharing è disponibile ovunque, ma è più attivo nelle grandi città, come Milano, Roma, Torino, Firenze.

    Car-pooling
    Utilizzato per la prima volta negli Stati Uniti come strumento di razionamento durante la Seconda guerra mondiale, il car-pooling è una sorta di autostop digitale, in cui gli utenti condividono uno spostamento (come per esempio il tragitto casa-scuola, casa-lavoro o il percorso verso un evento, una fiera, un concerto) sulla medesima auto. Il guidatore, che non è un autista professionista, offre un passaggio a chi lo richiede, ricevendo in cambio un rimborso spese. Per le lunghe percorrenze il riferimento è BlaBlaCar, una piattaforma web fondata in Francia, che opera attualmente in oltre venti Paesi, con circa 80 milioni di utenti. In concreto, il proprietario della vettura pubblica online l’itinerario del proprio viaggio e chiunque può usufruire di un passaggio contribuendo con un importo stabilito. Sono, invece, ancora pochi gli esempi di car-pooling a breve percorrenza. In Italia c’è, per esempio, Clacsoon, app che offre un servizio urbano in real time.

    Ride sharing
    Si racconta che l’idea sia nata una sera nevosa nel 2008, quando due amici, Travis Kalanick e Garrett Camp, si sono ritrovati bloccati a Parigi, senza riuscire a trovare un taxi. In seguito a questa esperienza, hanno co-fondato Uber, la principale società di ride sharing nel mondo, con sede a San Francisco, negli Stati Uniti. Il sistema mette in contatto, tramite siti web e app, passeggeri e conducenti di veicoli a noleggio che, a differenza dei taxi, non possono essere fermati per strada. In pratica, un servizio tra privati a prezzi esigui. In Italia, però, la formula non ha preso piede nella sua versione originaria, a causa sia di problemi normativi sia delle proteste dei tassisti. Per ora, nel nostro Paese il sistema funziona come un tradizionale noleggio con conducente, per il quale serve una licenza ufficiale. Proprio negli ultimi giorni, i Radicali e le principali associazioni di settore hanno presentato una legge di iniziativa popolare per liberalizzare il trasporto pubblico non di linea, sostituendo le licenze comunali con autorizzazioni regionali meno restrittive. Tra gli obiettivi, anche quello di aprire le porte a piattaforme come Uber. LEGGI TUTTO

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    Coltivazione della barbabietola: quando e come piantare, cura e consigli

    Appartenente alla famiglia delle Chenopodiaceae, la barbabietola è originaria dell’Europa meridionale e dell’Asia occidentale. Apprezzata per la sua enorme versatilità, questa pianta erbacea è coltivata principalmente per le sue radici commestibili, ma anche le foglie possono essere consumate come verdura a foglia. Gode di numerosissime varietà, tra cui la barbabietola rossa (la più gettonata), quella d’oro e quella da zucchero. Coltivarla è semplice, specialmente perché riesce ad adattarsi a diverse condizioni climatiche.

    Quando e come seminare la barbabietola
    La barbabietola è una pianta rustica che cresce bene sia in primavera, sia in autunno, a seconda del clima. In generale, in primavera la semina può iniziare quando il terreno raggiunge una temperatura di almeno 10 gradi, generalmente tra marzo e aprile nelle regioni temperate. Viene da sé che piantare in primavera garantisce un raccolto estivo. Si può coltivare anche in autunno, nelle aree dove gli inverni sono più miti.

    Il periodo migliore dipenderà sempre dalla zona climatica: verificare le condizioni locali servirà a evitare danni causati da gelate o da temperature troppo elevate.

    Sul “come” coltivare la barbabietola, invece, ci sono alcuni piccoli passaggi da seguire per ottenere un ottimo risultato e per favorire una crescita ottimale. Prima di questi, però, è bene distinguere le destinazioni della pianta: in vaso o in terra?

    Coltivazione della barbabietola in vaso
    Per coltivare la barbabietola in vaso, il primo passo da compiere è scegliere il vaso. In questo caso si dovrà optare per un vaso profondo, largo almeno 30 cm e con fori di drenaggio, fondamentali per la salute della pianta. Il terreno dovrà essere fertile e ben drenante, diversamente si dovrà preparare un mix di terra e compost. Fatto questo, si dovrà passare alla semina: i semi di barbabietola possono essere posizionati direttamente in vaso o, eventualmente, iniziare la semina in semenzaio e poi trapiantarli quando hanno raggiunto una certa dimensione. Per seminare si dovranno scavare dei buchi di circa 2-3 cm e piantare i semi a una distanza di circa 10-15 cm l’uno dall’altro. Eseguito anche questo step, occorrerà coprire i semi con il terreno restante e compattare leggermente il tutto.

    Coltivazione della barbabietola in terra
    Coltivare la barbabietola in terra non è poi così diverso dalla coltivazione in vaso. Anche in questo caso, infatti, il terreno dovrà essere fertile e ben drenante, mentre se troppo argilloso, avrà bisogno dell’aggiunta di sabbia per migliorare il drenaggio, essenziale per la buona crescita della pianta. La semina sarà semplicissima: vi basterà seminare i semi di barbabietola direttamente in terra a partire dalla stagione primaverile, e coprirli con il terreno restante, compattando il tutto in modo uniforme.

    L’esposizione della barbabietola: la soluzione migliore
    La barbabietola ama la luce e da amante di quest’ultima ha bisogno di almeno 6 ore di esposizione solare al giorno. Per questo motivo, infatti, l’ideale sarebbe esporla (sia che si tratti di coltivazione in vaso, sia che si tratti di coltivazione in terra) in un luogo soleggiato e riparato dal vento.

    Barbabietola: irrigazione e concimazione
    Anche l’irrigazione non richiede troppe attenzioni. La barbabietola ha bisogno di un terreno umido e ben drenato; quindi, è bene annaffiare il terreno in modo profondo, ricordandosi di non bagnare le foglie. Per quanto riguarda la concimazione, invece, sarebbe utile concimare le piante ogni 2 o 3 settimane nella fase di crescita, ricordandosi di utilizzare un prodotto completo e ricco di sostanze nutrienti. Per

    Cura della barbabietola
    Prendersi cura della barbabietola non richiede eccessivi sforzi, ma un’attenta osservazione della pianta e della sua salute. Ad esempio, appurato che per stare bene e crescere altrettanto bene debba essere costantemente umida (ciò eviterà che le radici diventino dure e fibrose), bisognerebbe:

    mantenere il terreno umido, ma non eccessivamente bagnato;
    aumentare la frequenza di irrigazione durante i periodi di siccità;
    procedere con l’uso della pacciamatura per aiutare a conservare l’umidità e a ridurre la crescita delle erbacce.

    Barbabietola: protezione dai parassiti e malattie
    Tra i problemi più comuni che possono colpire la barbabietola ci sono gli afidi, il marciume radicale, l’altica e lo oidio. Gli afidi si nutrono della linfa delle foglie e per trattarli si deve utilizzarle o un sapone insetticida o l’olio di neem, mentre l’altica, piccolo insetto causa di fori nelle foglie, per essere “sconfitto” ha bisogno di trappole adesive o coperture protettive. Infine, per sconfiggere l’oidio, malattia fungina che provoca una patina bianca sulle foglie, è necessario rimuovere quelle infette e usare fungicidi specifici.

    Consigli su come coltivare la barbabietola
    La barbabietola si raccoglie generalmente dopo un paio di mesi dalla semina, quando le radici raggiungono un diametro di circa 5-10 cm. Se lasciate troppo a lungo nel terreno, questa pianta erbacea rischia di diventare legnosa. Per raccoglierla vi basterà allentare il terreno intorno alla radice con una forca ed estrarre la pianta tirandola in modo delicato. Per conservarla, invece, si dovranno tagliare le foglie a circa 2 cm dalla radice e conservare le radici in un luogo fresco e asciutto, come una cantina o un frigorifero, per diverse settimane.

    Rotazione delle colture e utilizzo delle foglie
    Non piantare la barbabietola nello stesso punto per due anni consecutivi per prevenire l’accumulo di malattie e parassiti specifici del terreno. Sarebbe meglio alternarla con colture di legumi o altre piante a radice non commestibile. Anche le foglie di barbabietola sono commestibili: ricche di vitamine e sostanze nutrienti, possono essere utilizzate in insalate o saltate in padella! LEGGI TUTTO

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    Le siepi aumentano del 40% lo stoccaggio di anidride carbonica dal suolo

    Sempre cara ci fu questa siepe. A Leopardi risponde un gruppo di ricercatori della University of Leeds, che in uno studio appena pubblicato sulla rivista Agriculture, Ecosystems & Environment ha analizzato le dinamiche della cattura e dell’immagazzinamento della CO2 da parte di siepi e prati in diverse località inglesi – Yorkshire, Cumbria e West Sussex – scoprendo che le prime sono molto più efficaci dei secondi in termine di stoccaggio di gas climalteranti. Per la precisione, gli scienziati hanno mostrato che il suolo sotto le siepi cattura, in media, 40 tonnellate di anidride carbonica in più per ettaro rispetto ai prati, indipendentemente dalla composizione del suolo e dal clima.

    Viva le siepi
    Le siepi sono un elemento fondamentale per il benessere degli ecosistemi. Oltre a fungere da “ponte” tra diversi habitat vitali nei terreni agricoli, forniscono rifugio e cibo a piante, animali selvatici e bestiame. E, come se non bastasse, sequestrano anidride carbonica dall’atmosfera, riducendo quindi il peso netto delle emissioni sui cambiamenti climatici. “Negli ultimi anni”, ha spiegato Sofia Biffi, ricercatrice in ecosistemi agricoli e prima autrice del lavoro, “abbiamo assistito a un impegno degli agricoltori nella piantagione di nuove siepi. Evidentemente si rendono conto della differenza che possono fare in termini di biodiversità nelle loro fattorie: vedono più uccelli, pipistrelli e impollinatori. Ora sanno anche che stanno facendo la loro parte nell’immagazzinare più carbonio nel terreno”.

    Tutorial

    Piante da siepi, le migliori sempreverdi

    21 Ottobre 2024

    Difatti, il governo inglese ha incoraggiato da tempo la piantagione di nuove siepi, annunciando l’obiettivo di arrivare a quasi 73mila chilometri di siepi entro il 2050 come strumento di mitigazione dei cambiamenti climatici.

    In Italia una pubblicazione Ispra del 2010 sottolineava che “nelle aree agricole più o meno intensive, la conservazione, la gestione, il ripristino o l’impianto ex-novo di strutture arboreo-arbustive (cioè siepi, ndr) rappresenta uno degli interventi di maggior valenza ambientale e faunistica, in quanto consentono di diversificare nel modo più significativo l’ambiente agrario attraverso la stabile presenza di micro-habitat semi-naturali poco disturbati”. Lo studio appena pubblicato rinforza queste posizioni: “Siamo molto felici di condividere i risultati del nostro lavoro”, continua Biffi, “perché mostrano come piantare siepi può avere un impatto positivo sulla salute del suolo e sullo stoccaggio dell’anidride carbonica nel suolo in tutto il paese”.

    Vale dappertutto
    Uno degli aspetti più interessanti dei risultati dello studio appena pubblicato, spiegano ancora gli autori del lavoro, è che si applicano a tutti i tipi di suolo, indipendentemente dalla composizione e dal clima. Le località analizzate nello studio, infatti, sono state scelte proprio in modo da rappresentare un campione eterogeneo di condizioni climatiche, precipitazioni, temperature e tipo di terreno. In tutti i casi si tratta di pascoli per l’allevamento intensivo circondati da siepi: i ricercatori hanno carotato il suolo a intervalli di 10 centimetri, spingendosi fino a 50 centimetri sottoterra, e hanno poi confrontato i livelli di carbonio, azoto, pH e umidità.

    L’analisi ha mostrato, per l’appunto, che le siepi immagazzinano fino al 40% di carbonio in più grazie alle foglie cadute, alle radici e ad altre sostanze organiche incorporate nel terreno sottostante; nelle siepi più vecchie, inoltre, il fenomeno è più pronunciato che non nelle siepi più giovani. Esiste, inoltre, una “saturazione”, cioè un livello massimo di carbonio catturabile da ciascuna siepe: ed è per questo, concludono gli scienziati, che bisogna prendersi cura di quelle esistenti e piantarne di nuove. LEGGI TUTTO

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    I numeri ingannevoli dell’industria automotive

    Alla fine del 2024 i miliardi erano 15. Ora sono 16 (e per qualcuno nel governo italiano persino 17). Parliamo di euro, delle somme che le case automobilistiche paventano di dover pagare per le multe Ue, in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi 2025 di riduzione delle emissioni di CO2.

    La breve storia della mobilità elettrica, in Europa, è complessivamente positiva e mostra trend di crescita, dal 2019 a oggi, semplicemente impressionanti. Eppure, uno dopo l’altro, i carmaker hanno rilasciato, in questi mesi, dichiarazioni esagerate sulla “crisi” e sulle potenziali multe, incolpando tutti di non fare abbastanza.

    Quanto avviene oggi è la ripetizione esatta di quanto già avvenuto nel 2019, alla vigilia del primo obiettivo Ue di riduzione delle emissioni per l’automotive. L’anno successivo, però, quell’obiettivo fu raggiunto da tutte le case auto. Più recentemente, nel 2024, nel Regno Unito, i carmaker hanno insistentemente protestato di non poter rispettare i target di decarbonizzazione; ma ce l’hanno fatta tutti, nessuno escluso. Lamentarsi salvo poi arrivare al traguardo sembra essere la strategia preferita dell’industria dell’auto. Cosa c’è di falso o fuorviante nei suoi allarmi?

    In primo luogo, fare previsioni sulla possibilità di rispettare gli imminenti target sulla base dei dati di mercato del 2024 – un anno in cui le case auto non hanno avuto alcun incentivo a massimizzare le loro vendite di zero emission – è almeno ingannevole. I carmaker hanno programmato la loro strategia commerciale puntando soprattutto alla conformità ai target del 2025: per questo una dozzina di modelli full electric con prezzi accessibili, prodotti in Europa, stanno arrivando nei concessionari solo ora. E già i dati di gennaio dicono che sia la produzione che le vendite di auto elettriche (BEV) sono in aumento nella maggior parte dei mercati. Questo porta alla seconda questione: la domanda.

    Per conquistare il mercato di massa occorrono modelli di massa, largamente accessibili in termini di costo. Che stanno appunto arrivando, e arriveranno sempre più. T&E prevede che nel 2025 il market share delle BEV, nell’UR, raggiungerà il 20-24%. Considerando le flessibilità garantite dal regolamento ai costruttori, T&E si aspetta che le case automobilistiche riescano a raggiungere gli obiettivi o che, nel peggiore dei casi, paghino multe minime.

    Se sul versante della regolazione della domanda ci sono molte iniziative utili da prendere (una norma per accelerare la decarbonizzazione delle flotte aziendali; o l’utilizzo dei proventi dai dazi sul made in China e dei fondi post Covid non spesi per incentivi stabili), purtroppo la vera crisi si sta verificando sul versante della produzione di batterie. Molti progetti europei mostrano gravi difficoltà di crescita o stanno fallendo del tutto.

    Sia chiaro: non c’è un problema di disponibilità di sistemi di accumulo rispetto agli obiettivi climatici dell’UE. La sola Cina, già oggi, produce più celle per batterie di quante ne possa assorbire l’intera domanda globale. Ma le tensioni commerciali, geopolitiche e le preoccupazioni relative alla sicurezza devono spingerci a sviluppare un’industria del greentech autonoma, con competenze e capacità proprie.

    L’imminente Piano per l’industria automobilistica della Commissione dovrebbe concentrarsi su una strategia globale per le catene di fornitura delle batterie, prevedendo un’indagine sui sussidi potenzialmente iniqui alla produzione cinese, nonché criteri di resilienza per la concessione di aiuti di Stato e norme vincolanti sull’impronta di carbonio delle batterie. Sono anche necessarie regole chiare sugli investimenti diretti esteri nei nostri Paesi, per garantire che l’insediamento della produzione asiatica in Europa comporti un pieno trasferimento di tecnologia e competenze.

    Un piano dell’Ue che mantenga gli obiettivi di decarbonizzazione e che agisca per sostenere domanda e produzione domestiche può trasformare il 2025 in un anno storico per le nuove tecnologie, per l’industria, per i consumatori. A patto di non cedere a lamentazioni tanto veementi quanto ingannevoli.

    (Andrea Boraschi è Direttore di Transport & Environment – T&E) LEGGI TUTTO

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    Londra-NY in meno di 3 ore, ma il jet supersonico consuma fino a 7 volte di più

    Mentre il mondo tenta di invertire la rotta, inseguendo obiettivi a ridotto impatto ambientale, per decarbonizzare il settore dei trasporti, (tra i più inquinanti), c’è invece chi insegue un’altra strada. Facendo un salto supersonico in avanti, ma di fatto tornando indietro nel tempo, soprattutto negli obiettivi collettivi. Parliamo di Boom Supersonic, l’azienda americana che ha costruito il velivolo XB-1, che ha superato per 3 volte consecutive la barriera del suono, nell’ultimo volo di 40 minuti sul deserto californiano, e che anticipa la prossima linea di aerei supersonici commerciali.

    Con una velocità di 1.18 Mach, l’aereo ha superato i 1.300 km/h, stabilendo un nuovo traguardo per un velivolo non militare, che sarà il modello prototipale di Overture, un jet in grado di trasportare tra i 65 e gli 80 passeggeri, che raccoglie la triste eredità del Concorde, l’aereo che dopo il devastante incidente del luglio del 2000, (113 le vittime) finì la sua era nel 2003. Troppo cari i biglietti, troppa la quantità di carburante necessaria per raggiungere quelle velocità, costi appannaggio solamente di clienti facoltosi, che volevano raggiungere le due sponde dell’Atlantico – Stati Uniti ed Europa – in meno di 3 ore di volo. LEGGI TUTTO