Se si vuole evitare il rischio di nuove pandemie, di nuovi salti di specie da parte di patogeni pericolosi, bisogna lasciare in pace la fauna ed evitare assembramenti tra esseri umani e animali selvatici. Un nuovo studio, recentemente pubblicato sulla rivista Nature, torna a invitare a tenere alta la guardia, puntando i riflettori sugli allevamenti di animali da pellicce, definiti senza mezzi termini delle vere e proprie “autostrade virali” che potrebbero condurre alla prossima pandemia, e chiedendo nuove misure di biosicurezza per contenere i rischi. “È proprio così che nascono le pandemie”, ha spiegato Eddie Holmes, virologo alla University of Sydney, in Australia, e co-autore dello studio. “Gli allevamenti di pellicce possono diventare un ponte tra gli esseri umani e i virus che circolano tra la fauna selvatica”.
Sebbene il commercio di pellicce sia diffuso in tutto il mondo, la maggior parte degli allevamenti si trovano in Europa e in Cina: nel 2016 gli allevamenti europei hanno prodotto poco più di 39 milioni di pelle di visone, e quelli cinesi circa 26 milioni. Ed effettivamente i visoni, sia europei che cinesi, sono stati tra i primi animali ad ammalarsi a ridosso dello scoppio della pandemia di Covid-19. Non solo: si sospetta che i visoni abbiano avuto (e stiano avendo) un ruolo importante anche nella diffusione di H5N1, il virus dell’influenza aviaria. Discorso analogo per il cane procione (Nyctereutes procyonoides), un altro comune animale da pelliccia, che potrebbe aver avuto un ruolo nel salto di specie compiuto dal virus che causa la Sars.
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Gli autori dello studio appena pubblicato, in particolare, hanno cercato di identificare i virus circolanti negli allevamenti di pellicce in Cina. Per farlo, hanno prelevato e analizzato campioni di tessuto polmonare e intestinale da 461 animali morti per malattie infettive tra il 2021 e il 2024: di questi, 164 provenivano da quattro specie allevate esclusivamente per la loro pelliccia (i già citati visone e cane procione, Neogale vison e Nyctereutes procyonoides, la volpe rossa, Vulpes vulpes, e la volpe artica, Vulpes lagopus) prevalentemente in allevamenti intensivi della Cina nord-orientale. Gli altri provenivano da specie allevate sia per la pelliccia che per l’alimentazione e la medicina tradizionale, prevalentemente nella Cina orientale: tra queste, porcellini d’India, cervi e conigli. Sequenziando il DNA e l’RNA prelevati dai campioni di tessuto, i ricercatori hanno identificato 125 diversi virus, tra cui molti virus influenzali e coronavirus: 36 di essi non erano mai stati osservati fino a ora e molti di essi sono stati trovati in specie che non si sapeva potessero ospitarli: il virus dell’encefalite giapponese e un coronavirus simile a HKU5 (il patogeno dei pipistrelli responsabile della Mers), per esempio, sono stati individuati nei visoni; il virus H6N2 è stato individuato in un topo muschiato, il primo mammifero in cui si è osservato questo tipo di contagio.
Secondo i ricercatori, oltre 30 tra i virus individuati destano particolare preoccupazione a causa della loro capacità di saltare da una specie all’altra, e le specie più “pericolose” sono risultate essere i visoni e i cani procioni, portatori, nel complesso, di dieci dei patogeni più preoccupanti.
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“La nostra analisi”, ha concluso Alice Hughes, biologa conservazionista alla University of Hong Kong, “evidenzia che le preoccupazioni sugli allevamenti di pellicce sono valide, e che la gamma di virus potenzialmente pericolosi per gli esseri umani è più ampia di quel che si pensasse. Bisognerebbe imporre una transizione alla produzione di pellicce esclusivamente artificiali, oppure rendere più rigida la regolamentazione e la supervisione della produzione di pellicce naturali, per esempio garantendo l’attuazione di misure come quarantena per gli animali, riduzione del sovraffollamento, igiene delle gabbie, approvvigionamento del mangime e smaltimento dei rifiuti”.