28 Marzo 2025

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    “Lasciate crescere l’erba del vostro giardino, il Pianeta vi ringrazierà”

    Kate Bradbury, scrittrice e redattrice inglese di 44 anni, è un’esperta di giardinaggio naturalistico in tutte le sue sfumature: attraverso un’attenta osservazione della sua piccola oasi verde, situata a Portslade, vicino Brighton, sulla costa meridionale dell’Inghilterra, nasce il suo nuovo libro Un giardino per cambiare il mondo (Edizioni Sonda).

    Mrs Kate Bradbury, quando nasce la sua passione per il giardinaggio?
    “Ho iniziato a dedicarmi al giardinaggio quando avevo tre anni. Ero sempre all’aria aperta: osservavo gli uccelli e giocavo con i vermi. Il momento più importante risale a quando, all’età di 24 anni, un calabrone ha creato un nido in un vecchio piumone abbandonato in giardino. I vicini si sono lamentati perciò abbiamo dovuto spostarlo. L’ho portato nel mio orto e me ne sono innamorata. Da allora non mi sono più voltata indietro”.

    Nel suo libro “Un giardino per cambiare il mondo” accompagna il lettore, mese dopo mese, in un viaggio immersivo nella natura attraverso azioni concrete per la sua tutela. Com’è nata l’idea di questo libro?
    “Volevo spiegare quanto delle piccole azioni all’interno dei nostri giardini possano fare davvero la differenza: se tutti contribuissero con dei gesti concreti creeremo delle grandi opportunità a sostegno della natura”.

    Nel suo manoscritto scrive che “le piante non solo decorano, ma agiscono anche come filtri naturali, assorbendo sostanze nocive e rilasciando ossigeno”. Quanto sono importanti gli spazi verdi, seppur piccoli, nella nostra vita quotidiana?
    “Le piante sono tutto. Non potremmo respirare senza le piante. Le piante aiutano ad abbassare le temperature in città e ad assorbire CO2. Prevengono le inondazioni in quanto trattengono l’acqua e possono evitare l’insorgere degli incendi dato che le piante aumentano l’umidità in una determinata area. Creano ombra e forniscono cibo e riparo agli impollinatori, agli uccelli e alle molte altre specie che fanno tutti parte di complessi ecosistemi che mantengono il mondo in vita. Anche noi ci nutriamo di piante, non potremmo letteralmente sopravvivere senza di loro”.

    Nel libro affronta il tema del “giardinaggio naturalistico”? Puoi spiegarne il significato?
    “Il giardinaggio naturalistico è semplicemente un giardinaggio a supporto della natura. Una volta che vedi il tuo giardino non solo come tuo ma come un posto che condividi con la natura, puoi aprire la tua mente alle numerose possibilità che puoi creare grazie al tuo giardino. Penso che sia davvero un luogo speciale”.

    Cosa possiamo fare, nel nostro piccolo, nei nostri balconi, cortili e giardini per coltivare il cambiamento? In che modo possiamo fare la differenza?
    “Dobbiamo sicuramente coltivare più piante e creare degli habitat e delle opportunità per le specie ovunque possiamo: ad esempio sui balconi, attraverso delle erbe aromatiche da condividere con gli impollinatori lasciandole fiorire. Ma nei giardini più grandi possiamo scavare uno stagno, piantare un albero e coltivare delle piante autoctone. Ciò unirà il nostro giardino ad un paesaggio più ampio e migliorerà il destino di migliaia di specie”.

    Puoi dare ai nostri lettori qualche consiglio pratico su come trasformare il proprio giardino, balcone o piccolo spazio verde in un rifugio per la fauna selvatica?
    “Lasciate innanzitutto crescere l’erba: ciò consentirà alle farfalle e alle falene di deporre le uova. Appariranno dei fiori selvatici che nutriranno gli impollinatori, mentre gli uccelli prenderanno i semi dell’erba e le rane, i coleotteri, gli insetti e persino i ricci vi riposeranno. Se avete uno spazio più esteso allora scavate uno stagno: non solo offrirete delle opportunità di riproduzione degli anfibi, ma anche agli uccelli e ai mammiferi nel bere e nel fare il bagno, oltre all’opportunità di far riprodurre molti tipi di insetti, che saranno cibo per gli uccelli e i pipistrelli”.

    Nel suo libro affronta altri temi importanti quali il riciclaggio e il riutilizzo, l’isolamento naturale e la riduzione del consumo energetico, i giardini verticali della biodiversità urbana e il monitoraggio dell’impatto ambientale. Cosa possiamo fare concretamente per tutelare l’ambiente?
    “Come società globale dobbiamo fare di più per la natura e il clima, ma nulla avverrà senza l’impegno pubblico. Come ci impegniamo? Solo se ci connettiamo alla natura. In che modo possiamo farlo? Notando cosa succede nei nostri giardini, balconi e altri spazi verdi. Credo davvero che la connessione sia la chiave per comprendere e poi agire, e questo può iniziare dai nostri giardini, dai patii, dai balconi e persino dai nostri davanzali. Solo così faremmo davvero la differenza che cambierebbe le vite e migliorerebbe la situazione della natura e del clima”. LEGGI TUTTO

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    In arrivo un decreto per limitare l’inquinamento da Pfas dell’acqua potabile

    Una nota pubblicità del passato diceva che “two is megl che uan”, due è meglio di uno, ma non è detto che sia sempre così. Finalmente, dopo anni di discussioni, processi in corso e mappe che mostrano il loro pericolo, la politica italiana ha preso di petto la questione dell’inquinamento da PFAS, le sostanze perfluoroalchiliche, anche dette “sostanze chimiche eterne”. Lo sta facendo come vedremo muovendosi su binari paralleli, il che è un bene ma potrebbe anche generare confusione nel legiferare sul controllo di queste pericolose sostanze. Questo gruppo di quasi cinquemila sostanze impiegate in ambito industriale, dalle pentole anti aderenti alle protesi mediche, così come nei materiali antincendio o dell’edilizia, hanno infatti la caratteristica di essere estremamente durature e resistenti, nonché estremamente inquinanti se finiscono in ambiente dato che sono molto complesse da smaltire nel tempo. Anche se ci sono molti studi in corso è comprovato che possono portare danni importanti per la salute (tra cui il cancro) e di recente una inchiesta di Greenpeace, che ha analizzato i campioni di 235 città italiane, ha mostrato come alcune di questi “forever chemicals” sono presenti nel 79% delle acque potabili del rubinetto italiane prese in esame.

    Inquinamento

    La mappa della contaminazione da PFAS delle acque potabili

    di Pasquale Raicaldo

    22 Gennaio 2025

    All’inchiesta dell’associazione ambientalista diffusa a gennaio sono seguite poi a febbraio e marzo alcune delle ultime tappe a Vicenza di uno dei processi ambientali più grandi della storia italiana che vede imputati alcuni manager della Miteni, azienda chimica, proprio sul diffuso inquinamento da PFAS in Veneto. La vicenda veneta ha al centro i danni da PFOA (acido perfluoroottanoico) sulla popolazione e in questo caso l’avvocato che difende uno dei comitati coinvolti, le Mamme No PFAS, citando uno studio dell’Università di Padova ha parlato di “inquinamento da PFAS come un nuovo Vajont”, sostenendo nella sua arringa che la contaminazione è passata dall’acqua nel sangue di 300mila residenti, ovvero “4mila morti in eccesso in 40 anni nella zona rossa veneta rispetto alla media del resto della regione”.

    Cifre e accuse pesanti che restituiscono il contesto in cui finalmente l’Italia ha deciso di agire mentre anche l’Europa (con in prima linea la Francia) e gli Usa stanno prendendo provvedimenti nei confronti del controllo e della lotta ai PFAS.

    La speranza è però che le due iniziative parallele in corso non si trasformino in un freno, anziché accelerare sulla questione. Per primo, il 13 marzo, all’esame in Parlamento è finito il decreto Legislativo urgente “260” approvato dal Cdm. L’obiettivo è ridurre i livelli di PFAS nelle acque potabili e decretare limiti per limiti per il TFA (acido trifluoroacetico) ed è stato dato il via libera a una mozione di indirizzo per legiferare in materia. Il 26 marzo la Camera dei deputati ha approvato poi un’altra mozione della maggioranza passata con 156 voti favorevoli, 103 voti contrari e 5 astenuti e ha approvato anche alcune parti delle mozioni dei documenti di Avs, M5S e Pd, riformulati dal governo, sempre in materia di PFAS.

    La sovrapposizione di alcuni passaggi, secondo alcuni parlamentari, potrebbe rallentare il processo per arrivare a legiferare in maniera univoca sulla necessità di maggiori controlli e sistemi per ridurre i livelli pericolosi di PFAS nelle acque potabili ma in generale c’è fiducia sul fatto che finalmente qualcosa, nel tentativo di frenare gli inquinanti, si sia mosso.

    Nel frattempo, infatti, chi da tempo porta avanti questa battaglia, come l’associazione ambientalista Greenpeace, parla di primo passo importante, soprattutto perché “per la prima volta sarà fissato un limite nelle acque potabili anche per il TFA . Si tratta di una delle molecole della classe dei PFAS più presenti sul Pianeta e che negli ultimi anni si è diffusa ampiamente anche in Italia”. Con il nuovo decreto legislativo, spiegano da Greenpeace, verrà introdotto “un limite alla presenza di PFAS nelle acque potabili di 4 molecole pari a 20 nanogrammi per litro. Il nuovo valore limite riguarda la “Somma di 4 PFAS”, ovvero molecole (PFOA, PFOS, PFNA e PFHxS) di cui è già nota la pericolosità per la salute umana, tra cui la cancerogenicità per PFOA e PFOS. Il nuovo limite è uguale a quello introdotto in Germania, anche se ben lontano da valori più cautelativi per la salute umana introdotti da altri Paesi come la Danimarca (2 nanogrammi per litro) o la Svezia (4 nanogrammi per litro)”.Motivo per cui l’associazione auspica che “si possa fare di meglio”. Il testo di legge che fisserà per la presenza PFAS il limite di 20 nanogrammi per litro è stato ora trasmesso al Senato e poi dovrà passare al vaglio delle Commissioni parlamentari competenti.Per Greenpeace “se è vero che il provvedimento rappresenta un risultato importante per la tutela della salute di cittadini e cittadine, è indubbio però che debba essere ancora perfezionato. Le forze politiche dovranno al più presto trovare un accordo per ridurre ancora di più i limiti consentiti avvicinandoli all’unica soglia sicura, lo zero tecnico”.Come conclude Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento Greenpeace, è infatti “fondamentale che si arrivi al più presto a una legge che vieti l’uso e la produzione dei PFAS”. In attesa di comprendere gli sviluppi legislativi sulla questione PFAS nel frattempo nei prossimi giorni è attesa anche la sentenza finale sul processo Miteni: i cittadini del Vento chiedono un risarcimento di 15 milioni e mezzo di euro, mentre l’importo richiesto da tutte le parti civili nel loro insieme supera quasi i 240 milioni, cifre che danno il senso di quello che potrebbe essere – creando un precedente – una delle più importanti sentenze italiane di sempre in ambito ambientale. LEGGI TUTTO

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    Quali rischi dalle “miniere” nell’oceano profondo? Per la scienza “impatti anche dopo decadi”

    Oggi si guarda al sopra, domani si punterà al sotto. In tempi in cui Donald Trump mira a prendersi la Groenlandia per le sue risorse fossili e minerali o a stringere accordi per le terre rare dell’Ucraina e mentre altri stati Cina compresa vanno a caccia ovunque di minerali, nella Giamaica di Bob Marley si sta suonando un’altra musica: le nazioni stanno cercando una regola per poter iniziare a prelevare non dalla terra, ma dalle profondità degli oceani. In questi giorni a Kingston è infatti in corso un vertice dell’ISA (International Seabed Authority), autorità che dal 1994 è preposta al controllo e il coordinamento delle attività legate al “deep sea mining”, ovvero l’estrazione mineraria in acque profonde. Da anni si sta cercando un’intesa per regolare le estrazioni e adesso i rappresentanti di 36 Paesi, con visioni differenti, stanno tentando di arrivare tramite negoziato a una sorta di codice per l’estrazione dei minerali dagli abissi. Questo anche perché sempre più compagnie private a caccia di rame, cobalto e minerali di cui sono ricche le profondità, sono pronte a iniziare a scavare e stanno chiedendo i permessi per operare, tanto che alcune società come la canadese The Metals Company hanno dichiarato di voler iniziare ad estrarre ancor prima che venga definito un provvedimento chiaro per tutti. Siamo dunque al nastro di partenza di una nuova corsa che punta ad ottenere minerali rari dagli oceani.

    Al centro del dibattito da sempre c’è però la stessa questione: una parte dei Paesi sostiene che l’estrazione mineraria in acque profonde sia meno dannosa di quella sulla terraferma e chiede un via libera, l’altra invece – sostenuta da associazioni ambientaliste come Greenpeace – sottolinea i potenziali danni ecologici alla salute degli oceani e chiede normative più ferree e chiare per frenare l’attività mineraria in profondità.
    Nel frattempo, in un mondo che punta a cavalcare quella transizione ecologica che richiede grandi quantità di minerali, si studiano le zone dove questi sono più abbondanti, come la frattura di Clarion-Clipperton, nel Pacifico tra Hawaii e Messico, che fa gola a tanti per le sue ricchezze a quasi 6000 metri di profondità. In questo contesto e all’interno del dibattito finora però mancava, sull’impatto a lungo termine del deep-mining, una risposta da parte della scienza, che ora anche se parziale è finalmente arrivata. In una ricerca pubblicata sulla rivista Nature un team internazionale di ricercatori, per la prima volta, ha dato infatti conto di cosa succede all’ecosistema marino profondo decenni dopo le operazioni di deep sea mining. La risposta è che 44 anni dopo l’ estrazione gli ecosistemi e la vita marina non si sono ancora ripresi. L’analisi si è concentrata proprio nella zona di Clarion-Clipperton in un punto che è stato sito di un test di estrazione mineraria in acque profonde avvenuto nel 1979 nel Pacifico settentrionale. Ai tempi, con macchinari sperimentali, per soli quattro giorni da parte di privati fu estratta una quantità sconosciuta di noduli di metalli rari come cobalto, manganese e nichel, quelli usati oggi nei nostri dispositivi elettronici, per esempio.

    Ambiente

    I fondali degli oceani come miniere, a rischio habitat e biodiversità

    Alessandro Petrone

    27 Aprile 2023

    Nel 2023 e nel 2024 i ricercatori del National Oceanography Centre di Southampton, insieme ai colleghi di diverse università britanniche, grazie a sistemi ROV (sottomarini a comando remoto) e telecamere sono tornati in quel sito osservando cosa accadeva nella “pianura abissale” a 5000 metri di profondità per tentare di stabilire così l’impatto ecologico di quei test del passato. La loro conclusione, dopo il confronto con aree limitrofe degli abissi non interessate da estrazione, è che il deep mining in quell’area dove si sono svolti i test ha lasciato “impatti biologici in molti gruppi di organismi, impatti che sono persistenti” anche 44 anni dopo, nonostante alcune specie abbiano iniziato lentamente a riprendersi. Di fatto è una prima prova di cosa succede agli oceani a lungo termine dopo le estrazioni. Gli scienziati spiegano che in quell’area sono ancora visibili i segni fisici del passaggio dei macchinari e sospettano che l’estrazione passata possa aver influenzato la vita marina per esempio a causa della privazione dei noduli, che producono ossigeno, così come per l’esposizione a sedimenti contenuti nel metallo che sono stati sollevati durante i processi di estrazione. Di fatto i noduli, di cui la zona di Clarion-Clipperton è ricchissima (si stimano 21 miliardi di tonnellate), in qualche modo “sostengono le comunità animali e microbiche” dicono gli esperti e la loro estrazione innesca dei cambiamenti.

    Il professor Daniel Jones del National Oceanography Centre, a capo della spedizione, spiega che “quarantaquattro anni dopo le tracce minerarie stesse sembrano molto simili a quando furono realizzate per la prima volta, con una striscia di fondale marino larga 8 metri ripulita dai noduli e due grandi solchi nel fondale marino dove passò la macchina. Il numero di molti animali si è ridotto all’interno delle tracce, ma abbiamo visto anche alcuni dei primi segnali di recupero biologico”. Mentre i leader discutono durante le riunioni ISA su regole che gestiscano le attività minerarie in acque profonde, gli stessi scienziati ammettono che “i nostri risultati non forniscono una risposta definitiva alla domanda se l’estrazione mineraria in acque profonde sia socialmente accettabile, ma forniscono i dati necessari per prendere decisioni politiche più consapevoli, come la creazione e il perfezionamento delle regioni protette e il modo in cui monitoreremo gli impatti futuri”. Ma avvertono anche che dalle prime osservazioni pare che un recupero completo degli ecosistemi dei fondali marini sia “impossibile”.

    Ambiente

    I fondali degli oceani come miniere, a rischio habitat e biodiversità

    Alessandro Petrone

    27 Aprile 2023

    Oltretutto, come noto, la nostra conoscenza delle creature che vivono negli abissi e dei loro servizi ecosistemici decisivi per la salute degli oceani è ancora bassissima: sappiamo pochissimo di cosa vive realmente laggiù. Potremmo dunque definire questa ricerca come un primo grande avvertimento in vista di un futuro dove sempre più nazioni e compagnie punteranno all’estrazione mineraria in acque profonde per ottenere i metalli essenziali richiesti dalle tecnologie, dall’intelligenza artificiale e dalla transizione energetica che mira all’azzeramento delle emissioni climalteranti. Uno studio che ci ricorda, sempre con il tono di avvertenza, anche un altro fatto: quei test del 1979 condotti da privati per capire se fosse fattibile recuperare i metalli erano molto ma molto più piccoli “di quanto sarebbe un vero evento di estrazione mineraria”. LEGGI TUTTO

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    Scuola, niente ora di religione per oltre un milione di studenti: “Non sono mai stati così tanti”

    Uno studente su sei non frequenta l’ora di religione. Gli esonerati, così vengono chiamati gli studenti e le studentesse che scelgono una materia alternativa, sono un milione e 164mila. Mai così tanti. Sessantottomila in più dell’anno prima. La percentuale è passata dal 15,5% del 2022-2023 al 16,6% del 2023-2024.

    Scuola, oggi la stretta di Valditara sui diplomifici. E una norma per assumere i docenti idonei

    di Viola Giannoli

    28 Marzo 2025

    A diffondere i dati è l’Uaar, l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, che ha chiesto al ministero dell’Istruzione e del Merito l’ultimo aggiornamento sulla frequenza della religione cattolica nelle scuole statali.
    Nella classifica dei capoluoghi, spicca il sorpasso laico di Firenze: più di uno studente su due fa alternativa (51,5%). In tanti a dire “no grazie” alla religione cattolica sono pure gli alunni di Bologna (47,3%), Aosta (43,6%), Biella (40,6%), Mantova (40,5%), Brescia (38,6%), Trieste (37,9%) e Torino (37,7%).
    Quanto agli istituti, la percentuale record degli studenti che non si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica si trova al professionale e al tecnico Olivetti di Ivrea (90,7% e 87,9%). Va detto che in molti casi il numero degli studenti adulti degli istituti tecnici e professionali che frequentano le scuole serali influenza la percentuale complessiva dell’istituto. Nella top five, segue al terzo posto l’istituto tecnico Sassetti-Peruzzi di Firenze con l’86,8%, la primaria Nazario Sauro di Monfalcone (Gorizia) con l’86,45% e l’istituto professionale Carrara di Novellara (Reggio Emilia) con l’86,29%.
    Primi tra i licei il Leon Battista Alberti di Firenze (84,65%); tra le secondarie di primo grado la Rodari di Torre Pellice (Torino) con l’83,70%, mentre con l’83,58% dei bambini è la San Giacomo di Brescia tra le scuole dell’infanzia quella a più alto tasso di esentati. a risultare in testa alle scuole dell’infanzia.
    Il dato nazionale per tipo di scuola vede al primo posto gli istituti professionali con il 27,83%, al secondo gli istituti tecnici con il 25,31, anche per le ragioni già dette, e al terzo i licei con il 18,48%. Scuola secondaria di primo grado, primaria e scuola dell’infanzia si posizionano tra il 15,77 e il 12,4%. LEGGI TUTTO

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    Lo squalo bianco in Sudafrica ha bisogno di aiuto per non sparire

    Cosa succede all’interno di un ecosistema quando all’improvviso scompare un grande predatore? Domanda che potremmo porci anche da noi in Europa dove cresce il dibattito sulla convivenza fra uomini, lupi e orsi, e che trova una preoccupante risposta dall’altra parte del mondo.

    Fino a una decina di anni fa in Sudafrica zone come False Bay erano la patria dei grandi squali bianchi. Davanti a Gansbaai nel Capo occidentale si contavano anche oltre 1000 giganti bianchi. Lo sapevano bene in surfisti, i pescatori, i naturalisti e i fotografi pronti ad immortalare le loro evoluzioni e tutti coloro che lavoravano in un mondo, quello del turismo da squalo, che attirava nel sud del globo migliaia di persone per avvistare il grande bianco.

    Poi all’improvviso, per un mix di condizioni, qualcosa è cambiato: la presenza di squali è iniziata a diminuire talmente tanto che oggi, persino nei paper scientifici, si parla apertamente di “scomparsa” dei grandi squali bianchi dalle coste del Sudafrica, con ripercussioni su economia e turismo ma soprattutto sulla salute degli ecosistemi.

    Una ricerca recente pubblicata su Frontiers in Marine Science, in fase di peer-review e condotta dall’Università di Miami, racconta come questa scomparsa stia infatti avendo effetti a catena all’interno dell’ecosistema nella zona di False Bay.

    Biodiversità

    Mari più alti e caldi potrebbero far bene agli squali?

    di Pasquale Raicaldo

    04 Febbraio 2025

    Calo graduale da due decenni
    Per due decenni gli scienziati hanno monitorato il calo graduale degli avvistamenti di squali bianchi indicando come, alla base del declino, ci siano più fattori: prima si sono verificate una serie di catture non sostenibili e accidentali, soprattutto a causa dell’uso di reti, sia quelle dei pescatori sia quelle utilizzate per proteggere i bagnanti, poi sono arrivate le orche.

    Intorno al 2017 sulle coste del Sudafrica sono comparse, sempre di più, carcasse di grandi squali bianchi che però a differenza di altri non presentavano segni di ami o reti: quasi tutti presentavano invece uno squarcio praticamente “chirurgico” poco dietro le branchie e, a molti, mancava il fegato.

    Ben presto i biologi marini indagando hanno scoperto che queste morti erano collegate alla presenza di un pod (gruppo) di orche che cacciava gli squali bianchi. Poi sono arrivati i filmati e i primi avvistamenti dal vivo a comprovare i sistemi di caccia delle orche assassine e ogni volta che si verificava una predazione per i mesi successivi i pochi squali bianchi sopravvissuti, da False Bay a Mossel Bay, abbandonavano la zona. Da allora, in Sudafrica, questi grandi predatori sono praticamente scomparsi, tanto che nel 2024 ci sono state appena una decina di osservazioni confermate.

    Così un gruppo di orche ha imparato a cacciare lo squalo più grande del mondo

    di Aurora Iberti

    30 Novembre 2024

    Le conseguenze sull’ecosistema
    Nei mesi, stimano gli esperti, in quell’angolo di mondo è iniziata così quella che viene chiamata cascata trofica, il cambiamento delle catene alimentari che si verifica a cascata quando all’interno di un ecosistema viene a mancare il principale predatore. Nel giro di pochi anni le popolazioni di otarie orsine del Capo, che venivano controllate per numero attraverso le predazioni degli squali, sono aumentate a dismisura. Senza più minacce, le otarie hanno iniziato a predare i pinguini africani, considerati in pericolo critico e potenzialmente soggetti all’estinzione. Non solo: senza più squali le otarie e le foche, cresciute per numero, hanno contribuito alla diffusione di diverse malattie tra cui una epidemia di rabbia nel 2024.

    Biodiversità

    Riscaldamento globale, aumenta il pericolo di collisioni tra navi e squali balena

    di Anna Lisa Bonfranceschi

    11 Ottobre 2024

    Gli effetti sulla salute degli oceani
    Un’altra conseguenza della scomparsa degli squali bianchi è stato il graduale calo dei pesci, predati sia dalle otarie sia da altri squali più piccoli (come il Sharpnose sevengill shark) la cui presenza è aumentata dopo l’addio del grande bianco: per comprovarlo, i ricercatori hanno condotto indagini subacquee sia attraverso telecamere sia con esche remote.
    “La perdita di questo iconico predatore al vertice ha portato a un aumento degli avvistamenti di otarie orsine del Capo e squali sevengill che a loro volta hanno coinciso con un declino delle specie da cui dipendono per il cibo” spiega Neil Hammerschlag, autore principale dello studio. “Questi cambiamenti sono in linea con le consolidate teorie ecologiche che prevedono che la rimozione di un predatore al vertice porti a effetti a cascata sulla rete alimentare marina. Senza questi predatori al vertice che regolano le popolazioni, stiamo assistendo a cambiamenti misurabili che potrebbero avere effetti a lungo termine sulla salute degli oceani” chiosa l’esperto.
    Il grande predatore ha bisogno di aiuto
    I risultati rimarcano l’importanza di uno sforzo globale per la conservazione degli squali: questi animali simbolici, che un tempo nell’immaginario collettivo erano motivo di timore, ora hanno davvero bisogno di aiuto. Da loro dipendono anche le nostre economie: dalla pesca al turismo sino a ciò che mangiamo, perché sono “dottori degli oceani” in grado di curare ed equilibrare biodiversità ed ecosistemi.
    Come noto però, anche a causa delle nostre azioni, li stiamo perdendo: abbiamo già detto addio al 70% delle popolazioni di squali e razze negli ultimi 50 anni e più di un terzo delle specie di squali è oggi considerato a rischio estinzione. Nel frattempo però, continuiamo comunque ad ucciderli: la sovrapesca, spesso per catture accidentali, è responsabile della morte di oltre 100 milioni di squali ogni anno. LEGGI TUTTO