Caduta dei prezzi all’ingrosso, andamento produttivo altalenante, e, non bastasse, a peggiorare la situazione, gli effetti del cambiamento climatico. La crisi di miele e apicoltura italiana è tutta qui, tratteggiata in un rapporto pubblicato nei giorni scorsi dal Crea, il Consiglio per la ricerca in agricoltura, che ha il gruppo di studio più importante in Europa su api e impollinatori. Una squadra di venti persone, di stanza a Bologna. A stemperare il quadro, e ad aggiungere complessità, un dato in controtendenza: le cifre mostrano che, nonostante tutto, negli ultimi anni aziende produttrici e numero di alveari sono aumentati.
Le analisi del Crea si basano su dati della Banca Dati Apistica, il principale riferimento per il settore in Italia. Istituita nel 2009 – ed entrata in funzione nel 2016 -, raccoglie tutte le informazioni quantitative e qualitative relative agli allevamenti. Pensata per scopi fitosanitari, si è trasformata col tempo in uno strumento prezioso anche per il monitoraggio dei parametri economici della filiera. “Vengono registrati razze, varietà, spostamenti, modalità di allevamento tradizionale o biologica, per fornire un quadro attendibile di quanto cresce l’apicoltura in Italia”, dice Milena Verrascina del centro di politiche e bioeconomia del Crea, curatrice del rapporto, “favorendo, cosi, la predisposizione e l’attuazione di politiche di sostegno effettivamente tarate sulle esigenze specifiche dell’apicoltura”.
“Siamo tra i primi Paesi al mondo ad aver creato una banca dati nazionale” prosegue Verrascina. Uno strumento erga omnes: “Tutti, anche gli apicoltori non professionisti, quelli con poche arnie e che producono per autoconsumo, devono necessariamente registrare i loro apiari”.
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Dal 2010 al 2020 (il periodo considerato dai dati) il numero di alveari in Italia è aumentato del 57%, cifre che collocano l’Italia al sesto posto in Europa. Gli alveari nella Penisola superano di poco il milione, con la concentrazione maggiore che si registra in Piemonte (ben 171.224). Seguono Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana, Sicilia e Calabria. L’80% è gestito da apicoltori professionali.
Gli aumenti più significativi per quanto riguarda gli alveari, hanno interessato soprattutto Marche (+179%), Puglia (+167%) e Calabria (+143%). Invece, la crescita del numero di aziende dedite all’apicoltura ha interessato in particolare l’Umbria, dove sono passate da 146 nel 2010 a 976 dieci anni dopo (+568%), la provincia autonoma di Trento (+393%), la Puglia (+363%), il Veneto (+362%) ed il Lazio (+343%).
Se l’interesse per il settore aumenta, la produzione, però, è altalenante. “Il principale fattore che nell’ultimo decennio ha influenzato negativamente i livelli produttivi rispetto alle effettive potenzialità è indubbiamente il cambiamento climatico” sottolinea Verrascina. “Gelate tardive ed estati torride decimano gli alveari, perché le api non sopportano temperature elevate, anche in alta montagna: in queste condizioni muoiono, costringendo gli agricoltori ad acquistare nuovi alveari”. Altro problema è costituito dalle piogge: “Gli insetti non escono per le precipitazioni continue, e quindi non producono” riprende la ricercatrice.
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La conferma arriva dal professor Stephen Buchmann, associato del Dipartimento di Ecologia e Biologia evoluzionistica dell’università di Tucson, in Arizona (Stati Uniti), e autore del recente volume La personalità dell’ape (Edizioni Ambiente). Buchmann ha passato la vita a studiare gli insetti, approfondendone anche gli aspetti, per così dire, psicologici.
“Il cambiamento climatico sta avendo impatti significativi sulle popolazioni di api a livello mondiale” rileva. “Aumento delle temperature, siccità e inondazioni sono i fattori principali che influenzano la sopravvivenza e il comportamento degli sciami”. Come quelle in Emilia-Romagna nel 2023, che ha spazzato via migliaia di alveari, aumentando i costi per le aziende e costringendole a imbastire una nutrizione di soccorso imprevista. Non va meglio, spiega Buchmann, quando il termometro sale. “Temperature più calde possono sconvolgere il naturale ciclo di vita delle api” prosegue l’accademico statunitense. “Esistono studi che hanno mostrato come lo stress indotto dal climate change sta riducendo la longevità di questi insetti, che nel giro di cinquant’anni si sarebbe addirittura dimezzata”. Non solo. Le temperature in aumento “hanno accresciuto la necessità di acqua per le api, aggravando ulteriormente lo stress sulle colonie, specialmente nelle aree che sperimentano siccità”.
Non bastasse, “cambiamento climatico e inquinamento stanno compromettendo la capacità delle api di riconoscere le fragranze floreali, rendendo più difficile per loro individuare le fonti di cibo”. Le conseguenze non sono solo economiche: il ruolo delle api nella conservazione della biodiversità è noto, e – sottolinea il docente – insostituibile.
I fattori di mercato
“Poi ci sono i fattori di mercato”, riprende Verrascina. “La contrazione dei consumi negli ultimi anni post-covid è stata drammatica. Ma un colpo duro arriva anche dalla continua e costante importazione di mieli provenienti da Europa orientale e Asia, spesso adulterati, di pessima qualità, preparati con sciroppi di zucchero, e che non hanno certo le proprietà qualitative del miele italiano”.
Il settore, spiega l’esperta, vive quello che può essere definito un vero e proprio caso di coscienza: “Il prezzo all’ingrosso è crollato anche per la comparsa sugli scaffali di altri mieli, provenienti da strane triangolazioni con Paesi come l’Ucraina. È chiaro che in questo momento stiamo assistendo alla necessità di incentivare gli scambi commerciali per fornire supporto a un Paese in guerra”, sottolinea. “Ma nondimeno, si tratta di una concorrenza che gli apicoltori italiani subiscono; abbiamo certamente il dovere di fornire il sostegno necessario a Kiev, ma il settore italiano così viene danneggiato”.
Secondo Verrascina, il sostegno del governo, con l’esecutivo precedente e anche quello attuale, “fortunatamente si sente: di questa partita si occupano i sottosegretari, che hanno ben presente la questione e l’importanza della filiera italiana, oltre al fatto che il miele nazionale non è solo una questione economica, ma di tutela della biodiversità. Il Masaf negli ultimi anni sta conducendo un’operazione egregia, mettendo a disposizione risorse, ascolto e investimenti: anche sulla Pac (la Politica agricola comune di Bruxelles) l’Italia si è distinta rispetto altri Paesi per gli investimenti sugli impollinatori”. Insomma, “un buon lavoro, di cui il settore è soddisfatto”.
Adesso, spiega Verrascina, “è necessario lavorare molto sulla comunicazione e sul ruolo del consumatore, che, con le sue scelte, si ripercuote sul mercato”. L’approvazione di un sistema di qualità nazionale va in questo senso: “L’etichetta del miele italiano è ben fatta e ricca di informazioni. Meglio consumare un po’ meno, ma privilegiare la qualità delle nostre produzioni” conclude la ricercatrice. LEGGI TUTTO