Agosto 2024

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    La “mangiafumo”, come si cura la pianta che pulisce l’aria

    La pianta mangiafumo appartiene alla famiglia delle asparagaceae e si presenta come un albero caratteristico dell’America centrale e meridionale. Per via della sua particolare forma è soprannominata anche piede di elefante ed ha la particolarità, come dice il nome, di purificare l’aria.

    Le specie della pianta mangiafumo
    Esistono ben 20 specie della pianta mangiafumo, ma la più conosciuta è sicuramente la beaucarnea recurvata. Le altre che si possono trovare comunemente in vendita presso i vivai sono le seguenti:

    Beaucarnea longifolia: è la specie che può avere foglie più lunghe di tutte, poiché raggiungono addirittura un metro di lunghezza;
    Beaucarnea gracilis: sulla cima ha una corona di foglie con margine ruvido di colore grigio/verde;
    Beaucarnea bigelowii: è caratterizzata dalla presenza di un ciuffo di foglie lineare posto sulla sommità della pianta. Le foglie possono avere una lunghezza massima di 90 centimetri;
    Beaucarnea stricta: si distingue per le sue foglie rigide e i margini duri.

    La particolarità della pianta mangiafumo
    Molto spesso quando si sentono dei nomi così strani per le piante non si può evitare di domandarsi quale sia il vero significato. In tal caso, è proprio quello che si evince dal nome: si tratta di una pianta perenne che è in grado di pulire l’aria eliminando l’odore di nicotina e di catrame. L’altro nome con cui viene riconosciuta, Nolina, è invece il nome dell’orticoltore francese che l’ha portata per la prima volta in Europa, nel XVIII secolo.

    La coltivazione in esterno della pianta mangiafumo
    Nel nostro continente questa è considerata essenzialmente una pianta da interni, anche se va detto che può essere coltivata all’esterno tutto l’anno, a patto che il clima invernale sia mite. Infatti, non ama le gelate e le temperature al di sotto dei 10 gradi. In questo modo, è possibile adornare il proprio spazio verde con una pianta che si presenta con un fusto rigonfiato alla base che è utile per immagazzinare l’acqua, superando facilmente i momenti di siccità. Proprio per questo, è suggerita anche come pianta per coloro che non sono tanto in grado di seguire attentamente la sua cura. Le foglie, invece, sono lunghe a ricadenti, con un colore brillante. L’altezza massima che è in grado di raggiungere in natura è di 10-15 metri, mentre in casa arriva a massimo 2 metri.

    I fiori della pianta mangiafumo
    Per quanto riguarda la fioritura, invece, possiamo dire che i fiori della pianta mangiafumo sono davvero molto rari. Infatti, sono visibili solo quando la pianta raggiunge una determinata età e in un habitat ideale per lei. Ad ogni modo, le infiorescenze delle piante anziane si presentano grandi e di colore crema.

    Cosa fare quando la pianta mangiafumo ha punte secche oppure è senza foglie?
    La pianta mangiafumo non ha bisogno di alcuna potatura, quindi non sarà necessario occuparsene. Va soltanto tenuto conto che le foglie possono seccare e mostrarsi con le punte secche: tra le operazioni di manutenzione della pianta vi è proprio la rimozione di queste foglie. È importante toglierle dalla base del cespo. Se solo una parte della foglia è secca, allora si può tagliare solo quel punto. Se la pianta compare senza foglie, invece, bisogna capire che cosa è successo: infatti, potrebbe essere stata annaffiata eccessivamente ed essere sul procinto di morire.

    Il rinvaso e il terreno migliore per la pianta mangiafumo
    Se si decide di coltivare in vaso la pianta mangiafumo è importante selezionare un terriccio leggero, ma ricco di nutrienti: in questo modo, si assicura alla pianta tutto quello di cui ha realmente bisogno per un’ottima crescita che, comunque, avviene in maniera lenta. Infatti, si deve considerare che il rinvaso lo si fa quando il contenitore diventa troppo piccolo e le sue radici non sono più comode. Il rinvaso è da fare in primavera: sarà necessario collocare sul fondo del contenitore dell’argilla espansa o sabbia con terriccio ideale per le piante d’appartamento.

    Le innaffiature della pianta mangiafumo
    La pianta mangiafumo non necessita di essere annaffiata di frequente. Infatti, per quanto riguarda le innaffiature basterà dare durante l’estate un bicchiere d’acqua ogni settimana o al massimo 10 giorni. Con l’arrivo della stagione fredda, le annaffiature possono essere quantificate ogni 20 giorni. In tutti i casi è importante controllare che il terreno sia asciutto, così da evitare ristagni d’acqua.

    L’esposizione ideale per la pianta mangiafumo
    Come qualunque pianta d’appartamento si sconsiglia di posizionare il vaso della mangiafumo direttamente sotto i raggi del sole. È meglio scegliere una zona luminosa o in penombra, facendo anche attenzioni alle correnti d’aria. L’ideale sarebbe una finestra con esposizione a sud oppure ad est.

    La concimazione della pianta mangiafumo
    Per la concimazione della beaucarnea recurvata è consigliato agire una volta all’anno: si può utilizzare in primavera il concime granulare che rilascia lentamente tutti i nutrienti necessari per la sua crescita. Sarà importante utilizzare un fertilizzante suggerito proprio per le piante da interno.

    I problemi che si possono verificare sulla pianta mangiafumo
    La pianta mangiafumo è molto robusta però può essere colpita dalla cocciniglia: questa si presenta sulle foglie, nel lato inferiore. È possibile rimuovere questi insetti sfruttando un dischetto di cotone imbevuto di alcool. In alternativa, si possono lavare le foglie con acqua e sapone neutro. Suggeriamo l’uso di prodotti chimici specifici solo nei casi più gravi! LEGGI TUTTO

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    Quando la sostenibilità diventa insostenibile

    Diciamolo noi, prima che ce lo dicano gli altri, i nemici dell’ambiente, i negazionisti del cambiamento climatico, i gattopardi della transizione ecologica fatta con i combustibili fossili: la sostenibilità è un’altra cosa. Quella vista ai Giochi di Parigi 2024 è piuttosto una sostenibilità insostenibile, nel senso che nessuno la vuole davvero. Non è sostenibile – ma di più, non è accettabile – costringere gli atleti del triathlon a nuotare nella Senna inquinata anche se hai investito un miliardo e 400 milioni di euro per renderla finalmente balneabile dopo 100 anni, progetto lodevole, addirittura visionario, ma l’operazione evidentemente non è ancora riuscita (lo dicono i dati, pubblicati ogni giorno sul web in tempo reale da una startup francese; ma lo confermano purtroppo i tre atleti ricoverati dopo la gara del 31 luglio). E non è sostenibile neppure negare l’aria condizionata agli atleti nel Villaggio Olimpico a vantaggio di un sofisticato sistema di raffrescamento naturale tramite dei tubi sotterranei, che andrà benissimo il resto dell’anno, ma non nei dieci giorni in cui a Parigi di solito c’è la canicule (che non è il caldo estremo registrato in Italia ma poco ci manca), soprattutto se sei un atleta che ha atteso quattro anni per dare il massimo in gara proprio in quei giorni. La foto di Thomas Ceccon che si fa un pisolino nel parco per sfuggire al caldo del dormitorio ha fatto il giro del mondo. Si poteva evitare? Sì.

    [[(gele.Finegil.StandardArticle2014v1) Senna inquinata, malore per Claire Michel: il Belgio si ritira dal triathlon]]

    Qualcuno insomma ha esagerato, si è fatto prendere la mano dall’entusiasmo forse. Comprensibile ma imperdonabile se il risultato sarà allontanare la gente comune dalla sfida del cambiamento climatico, la vera Olimpiade che si vince tutti assieme o si perde. Nel tentativo di realizzare davvero “i Giochi più sostenibili della storia” dopo troppe edizioni segnate da cementificazione, sprechi, plastica ovunque ed emissioni di anidride carbonica fuori controllo, al Comitato Olimpico Internazionale si era deciso di cambiare rotta. Era ora. Ma in alcuni casi l’asticella è stata alzata così tanto da ottenere l’effetto contrario: sta passando il messaggio che la sostenibilità ambientale sia probabilmente impossibile, sicuramente fastidiosa, in qualche caso addirittura stupida. Un boomerang.

    [[(gele.Finegil.StandardArticle2014v1) Ceccon dorme nel giardino del villaggio olimpico, l’immagine diventa virale]]
    Eppure in questi giorni Parigi è più bella che mai. Gli stadi sono stati realizzati in alcuni degli edifici e dei luoghi più iconici della città, senza costruirne di nuovi; centinaia di migliaia di persone la attraversano a piedi, ma moltissimi vanno in bicicletta. Ci sono bici ovunque, con piste ciclabili collegate a corsie preferenziali senza soluzione di continuità. Sembra una città del futuro, con le automobili fuori dal centro. Certo, bisognerà vedere se questa mobilità dolce resisterà quando i parigini torneranno dalle vacanze ma intanto esiste, funziona, tutti possono vedere che meraviglia è una città libera dal traffico automobilistico. In giro poi non ci sono le immancabili tracce dei grandi eventi sportivi o musicali: quei tappeti di bicchieri e bottigliette di plastica calpestate che le persone gettano via dopo aver bevuto. A Parigi non ci sono non perché il servizio di nettezza urbana sia particolarmente efficiente, ma perché non le vendono. Se chiedi dell’acqua, in uno dei chioschi ufficiali, te la danno in un bel bicchiere riutilizzabile per 4 euro e 50, ma 4 euro costa il bicchiere e te li restituiscono se lo riporti. Funziona. Si può fare. Da questo punto di vista l’impatto sui comportamenti delle persone è enorme. Se a questo si aggiunge che l’energia elettrica utilizzata per gli impianti di gara è rinnovabile, ce n’era abbastanza per dire: okay, abbiamo fatto la nostra parte. Ci si poteva fermare lì.

    Sport e ambiente

    Olimpiadi, la rivoluzione green piace ai parigini, ma poco agli atleti

    di Luca Fraioli

    05 Agosto 2024

    E invece si è voluto far giocare la partita della sostenibilità anche a chi è a Parigi per fare altro, la partita della vita, quella per cui si allena da anni: gli atleti. Prima ancora della questione della Senna, le scelte sostenibili si sono concentrate al Villaggio Olimpico a nord di Parigi, un importante progetto di riqualificazione urbana di un quartiere periferico trasformato in un esempio di edilizia ecologica e quindi con un sistema di raffrescamento naturale al posto dell’aria condizionata; ma anche con degli ingegnosi lettini di cartone e dei materassi fatti con fili di reti da pesca riciclate. Bellissimo, ma per un concorso di design: siamo sicuri che fosse la scelta giusta per la notte prima della gara di un atleta olimpico? E va bene levare le bottigliette di acqua di plastica dai bar, ma ci si poteva almeno accertare che le borracce per gli atleti fossero termiche e non dovessero bere acqua calda, come lamentato dal nostro Lorenzo Musetti al Roland Garros? Infine: aggiungere le opzioni vegetariane e vegane al menù era doveroso, ma era necessario anche vietare le patatine fritte (le “french fries”) oltre al foie gras “perché le oche soffrono”?

    Un reporter del Guardian ha scritto con entusiasmo, che più che i Giochi Olimpici a Parigi sembra di stare ad una manifestazione di Extinction Rebellion ma non è un vero complimento. Quello che non va mai fatto, se vogliamo vincere le Olimpiadi del cambiamento climatico, è far passare il messaggio che la sostenibilità debba sempre essere una rinuncia al nostro stile di vita anche quando non è necessario, come se dovessimo espiare qualcosa: In molti casi è così: il consumismo, la cultura dello spreco sono il male da combattere. Ma in altri no. Parigi 2024 ha fatto un balzo enorme sulla strada della sostenibilità di un grande evento: bisogna levare le esagerazioni e ripartire da lì. LEGGI TUTTO

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    “Sugli orsi in Trentino serve un nuovo patto con le popolazioni locali”

    È il tempo di decidere, ma senza ideologie. Non si può più rimandare: la situazione è radicalmente cambiata rispetto a 25 anni fa, ora bisogna stringere un nuovo patto con gli abitanti delle valli, perché se non saranno loro per primi ad accettare l’orso, allora in Trentino in futuro per questo animale non ci sarà più spazio”. Il regista Andreas Pichler si dice seriamente preoccupato per la convivenza, sempre più complessa, fra uomini e plantigradi sulle Alpi. Il 26, 27 e 28 agosto uscirà nei cinema italiani il suo film-documentario, “Pericolosamente vicini”, un progetto nato ancor prima delle recenti tragedie in Trentino proprio con l’obiettivo di “ascoltare più voci, di raccontare come viene vissuta la convivenza”, testimoniando come la tolleranza dei residenti fra le valli trentine sia ormai arrivata al limite.

    “Serve una risposta univoca, non più divisioni. E serve valutare caso per caso, orso per orso, o non ne usciremo” dice Pichler. Con lui, già regista di The Milk System o Teorema Venezia, abbiamo analizzato la radice di un problema che sembra non avere fine: pochi giorni fa è stato uccisa anche l’orsa Kj1 su ordine del presidente della Provincia Maurizio Fugatti, nonostante l’opposizioni dei giorni prima da parte degli ambientalisti.

    Fra meno di un mese uscirà il suo film “Pericolosamente vicini” che racconta proprio il rapporto tra uomo e plantigradi sulle Alpi. Che effetto le ha fatto la notizia dell’abbattimento di Kj1?
    “In questi giorni sono in viaggio e non sempre riesco a seguire le notizie del Trentino. L’uccisione di ogni animale mi fa male, ma non possiamo nemmeno nascondere che la questione di come questi animali vadano gestiti debba essere urgentemente affrontata. Bisogna però valutare ogni singolo caso e su Kj1 personalmente non ho abbastanza elementi per esprimermi”.

    Quando e come è nata l’idea di un documentario sulla convivenza con gli orsi del Trentino?
    “Il film è nato ormai quasi quattro anni fa. Le tematiche alla ribalta negli ultimi due anni erano già sul tavolo prima, anche se con meno emotività rispetto a dopo la morte di Andrea Papi. Quattro anni fa c’era ancora una accettazione relativamente alta dell’orso in Trentino: dopo la morte del runner però – una vicenda che è al centro del film – tutto è cambiato. Il film tenta di raccontare proprio i vari punti di vista”.

    Venticinque anni fa grazie al progetto Life Ursus vennero reintrodotti una decina di esemplari. Oggi, tra adulti e cuccioli, si ipotizzano quasi 120 orsi. Cosa significa per il territorio?
    “Con quello che è successo, la storia di JJ4 e la morte di Andrea Papi, la cornice narrativa di questi venticinque anni è ovviamente cambiata. Il film tenta di raccontare tutto il processo del progetto, per esempio anche le storie dei forestali che ai tempi erano dei giovanissimi, entusiasti per quelle reintroduzione. Oggi sono ancora persone che amano gli animali, per certi versi degli eroi che hanno contribuito a salvare una specie che stava scomparendo, ma ora si trovano ad affrontare un problema. Come dice uno di loro: sono fra l’incudine e il martello, tra chi li accusa di non gestire e chi li chiama amazzaorsi. Il film è corale: parla della gestione tecnica ed emotiva, dei sentimenti talvolta contrastanti della popolazione locale, dei contadini e agricoltori, degli animalisti”.

    C’è una soluzione?
    “Tutte le voci vanno prese sul serio, ma non c’è una soluzione facile e unica. Per provare a trovarne una, di certo non bisogna passare per le ideologie: non si può pensare né di abbattere tutti gli orsi, né che restino tutti lì come adesso continuando a moltiplicarsi. Una cosa è certa: la rimozione e la captivazione permanente di un orso selvatico non è la soluzione, al contrario di quanto spesso viene detto da alcune associazioni”.

    Perché?
    “Perché con questo sistema, che tra l’altro è costoso e complesso, si fa male soprattutto agli orsi. Nel film racconto anche la storia di uno dei primi orsi problematici reintrodotti in Trentino: fu catturata e rimossa dal territorio, portata in un santuario nella Foresta Nera in Germania, lo stesso dove finirà JJ4. I gestori sono animalisti, che gestiscono però soprattutto animali che vengono da situazioni terribili come i circhi. Loro per primi si sono resi conto che invece captivare un orso selvatico e poi portarlo lì vuol dire fargli del male: tutt’ora l’orsa portata anni fa nel santuario continua a voler scappare, allontanarsi”.

    Quindi rimangono solo abbattimento o convivenza?
    “Sì, ma con gestione. Gestire vuol dire informare tanto le popolazioni locali. Su questo c’è stata finora una lacuna enorme, che va ancora colmata. Io credo che una gestione sia possibile, ma penso anche alla densità di orsi in alcune zone, come la Val di Sole, che è ormai troppo alta. Con il trauma della morte di Papi e la densità crescente la popolazione è sempre più in allarme. Le persone non si sentono più a casa e questo non va bene, perché significa che non accettano più l’orso come presenza. Quello che ne segue rischia di essere il bracconaggio, come in passato accadde anche in Austria. Il che potrebbe portare a far scomparire gli orsi. E anche questo non va bene. Dunque ci vuole un nuovo contratto con la popolazione locale, bisogna tutti insieme ritrovare l’equilibrio”.

    La politica può aiutare a ritrovare questo equilibrio?
    “Finora per la politica la questione orsi è stata una patata bollente. E poi troppa confusione, troppe voci, troppi modi di venderla diversamente. Il che è un problema quando invece sarebbe necessaria una gestione urgente e una voce chiara. Le indecisioni e le divisioni portano all’esasperazione: oggi in Trentino stanno già raccogliendo centinaia di firme per togliere completamente gli orsi. Non succederà mai, ma è sintomo di una esasperazione fra i residenti. Tra queste persone, che ho intervistato anche nel film, c’è gente che fino a pochi anni fa parlava invece di possibile convivenza con l’orso”.

    Infine, cosa spera che il film possa lasciare agli spettatori?
    “La cosa più importante è che la gente ascolti tutte le parti coinvolte e comprenda che le soluzioni non sono facili. Bisogna capire per esempio che vivere in città è un altra cosa che avere l’orso dietro casa, che non si può giudicare da lontano. Tutti vogliamo che ci siano più animali e più biodiversità, ma nel mondo antropizzato in cui viviamo una gestione è di fatto necessaria. E questa gestione è quella che dobbiamo provare a trovare. Chiedetelo ai forestali stessi: sono i primi ad amare gli orsi, ma anche quelli che sanno che devono essere in qualche modo controllati” LEGGI TUTTO

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    Milioni nel mondo gli infortuni sul lavoro dovuti al caldo

    Si muore di caldo, anche sul lavoro. Eppure, a livello mondiale e anche italiano, mancano ancora leggi o normative univoche adattate agli impatti della nuova crisi del clima per fissare dei parametri in grado di stabilire quando è “troppo caldo per lavorare”. Spesso ci si orienta attraverso ordinanze territoriali, oppure in altri Stati, con leggi relative agli impatti del freddo, ma non alle temperature massime che oggi si possono facilmente raggiungere a causa del riscaldamento globale.

    Mentre in questa estate bollente molte Regioni italiane hanno ordinato per esempio lo stop al lavoro nei cantieri o nei campi nelle ore roventi – chi giocando d’anticipo e chi invece ancora in fase di firma – a livello globale nuovi report ci avvisano della pericolosità di lavorare in condizioni di caldo estremo.

    [[(gele.Finegil.StandardArticle2014v1) Una piattaforma online aiuta a proteggersi dalle ondate di calore in base all’età]]
    In aumento i lavoratori esposti a stress termico
    Sappiamo bene che lo stress termico è un killer invisibile che uccide: può farlo sia nell’immediato sia sul lungo termine, portando per esempio a malattie croniche gravi, al sistema circolatorio o respiratorio, proprio a causa di una esposizione dei lavoratori a temperature estreme. Il rapporto “Heat at work: Implications for safety and health – A global review of the science, policy and practice” da poco pubblicato dall’International Labour Organization (ILO) ci dice proprio questo: cresce nel mondo il numero di lavoratori esposti allo stress termico con conseguenti possibili rischi per la salute. Su 21 Paesi analizzati la stessa ILO già ad aprile indicava come ormai la crisi del clima porti a un mix di rischi che impatta sulla salute di 2,4 miliardi di lavoratori nel mondo e che il caldo estremo da solo causi 22,85 milioni di infortuni sul lavoro. Lo stesso segretario generale dell’Onu Antonio Guterres commentando il report ha sottolineato la necessità di “affrontare la sfida dell’aumento delle temperature e garantire alle lavoratrici e ai lavoratori una protezione fondata sui diritti umani che sia più forte e efficace”.

    Ordinanze regionali: stop al lavoro nelle ore roventi
    In questi giorni in cui in diverse città italiane si sono sfiorati i quaranta gradi a seconda delle Regioni sono state emesse ordinanze nel tentativo, soprattutto per le persone che lavorano all’aperto, di salvaguardare la salute. Sebbene ci siano abitudini e indicazioni da tutti condivise – come quelle di consigliare il lavoro in ambienti climatizzati oppure di effettuare turni in orari meno caldi (come al mattino presto o di notte) – nell’affrontare il tema “caldo e lavoro” le Regioni italiane si muovono in maniera indipendente, tramite ordinanze.

    Alcune, come per esempio Lazio, Toscana, Molise, Abruzzo, Campania, Sicilia, Sardegna e Umbria si sono mosse giocando d’anticipo con ordinanze (molte fino al 31 agosto) per vietare l’impiego di lavoratori a rischio stress termico nelle ore più calde, dalle 12:30 alle 16. L’Emilia-Romagna, proprio di recente, con un’ordinanza ha deciso per il divieto, nella stessa fascia oraria, dal 29 luglio e fino al 31 agosto nel settore agricolo e florovivaistico, nonché nei cantieri edili e affini. Altre come il Piemonte, anche sotto pressione dei sindacati che hanno fatto richiesta di ordinanza, stanno valutando e presto metteranno nero su bianco le decisioni. In altri casi poi, per esempio in Liguria, non sono state ancora emesse ordinanze in tal senso ma le varie realtà o aziende locali hanno fatto scelte interne per tutelare i lavoratori.

    Di recente ad esempio a Genova dopo Fincantieri, anche il cantiere del Waterfront tramite accordo sindacale con Fillea Cgil ha rimodulato l’orario di lavoro: tra le ore 6 e le ore 12 e, in casi di eccezionali, dalle 17 alle 20. In generale ad essere più esposti sono naturalmente i lavoratori che operano nei cantieri, nel settore dell’agricoltura, ma anche giardinieri, pescatori o professioni in cui si resta a lungo all’aperto.

    Come si regolano gli altri Paesi
    In Europa, uno dei continenti dove la crisi del clima corre più velocemente portando a fenomeni meteo sempre più intensi e ondate di calore importanti, non c’è uniformità nelle scelte caldo-lavoro. A tal proposito in Gran Bretagna lo scorso anno avevano proprio richiesto una legge riassunta con “troppo caldo per lavorare”, una norma in grado di proteggere i lavoratori dall’obbligo di operare sotto temperature torride. Legge che non c’è ancora, anche se esistono vecchi regolamenti che indicano l’obbligo di posti di lavoro “confortevoli” e “sicuri”, con limiti per le temperature minime (non sotto i 16 gradi in un ambiente di ufficio) ma non massime.

    Anche in Francia non esiste una temperatura massima che stabilisce quando non lavorare, ma viene richiesto ai datori di lavoro di garantire “condizioni di sicurezza” per i dipendenti, così come i lavoratori edili secondo il “Code du Travail” devono essere riforniti di almeno 3 litri d’acqua al giorno o della possibilità di interrompere il proprio lavoro se credono di temere per la propria salute. In Portogallo sul posto di lavoro la temperatura va compresa fra i 18 e i 22 gradi, in determinati casi anche 25. Per legge va posta attenzione anche all’umidità (tra il 50 e il 70%). In Germania c’è il limite dei 26 gradi, ma non è sancito dalla legge: oltre, sono i datori di lavoro a dover garantire sicurezza per i dipendenti. Più chiara la Spagna dove per lavorare in ufficio è richiesta una temperatura tra i 17 e i 27 gradi.

    Di recente poi negli Stati Uniti l’amministrazione Biden ha proposto per la prima volta una legge con l’intenzione di proteggere dal caldo i lavoratori, indipendentemente che la professione si svolga al chiuso o all’aperto, una proposta che stabilisce indici di calore da applicare a livello nazionale e richiede ai datori, tra le varie misure, di offrire sempre acqua potabile.

    Orientarsi grazie a strumenti online
    In attesa di leggi e norme univoche, magari europee a seconda delle condizioni climatiche dei vari Paesi, già oggi esistono però diversi strumenti online per informarsi sul tema caldo-lavoro. Per esempio la piattaforma Forecaster.health permette, anche in base alla fascia di età, di comprendere dove e quando le ondate di calore saranno più importanti ed impattanti. Sviluppato con il sostegno dell’Inail e del Cnr, in Italia c’è poi il progetto “Worklimate” che permette di osservare le mappe nazionali di previsione del rischio di esposizione al caldo proprio al fine di salvaguardare i lavoratori, soprattutto quelli che operano all’aperto. Infine di recente l’Inps tramite messaggio sul suo sito ha precisato le nuove disposizioni relative alla cassa integrazione, ammortizzatori sociali e trattamenti vari collegati alle ondate di calore, ricordando che in caso di temperature oltre i 35 gradi, anche se solo percepiti, è già possibile chiedere la cassa integrazione. LEGGI TUTTO

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    Olimpiadi, la rivoluzione green piace ai parigini, ma poco agli atleti

    E se fosse sbagliato buttare via il bambino con l’acqua sporca della Senna? Ora che il ricovero in ospedale della triatleta belga Claire Michel, forse infettata dall’Escherichia coli contratta nelle acque parigine durante la prova di nuoto, pare aver sancito il fallimento dell’operazione “balneabilità”, vale la pena fare il punto sulla sostenibilità dei Giochi, su cosa ha funzionato e cosa no, se sia davvero tutto da buttare.
    Chi ha visitato la capitale francese in questi giorni olimpici, l’ha trovata trasformata. Il centro pedonalizzato, corsie preferenziali per i mezzi pubblici e le bici, la plastica quasi scomparsa con la guerra dichiarata alle bottigliette e alle stoviglie usa e getta. Insomma, un prototipo di città sostenibile del futuro. E anche le tanto contestate gare di nuoto nella Senna hanno rappresentato una riappropriazione del cuore della metropoli (il suo fiume appunto) da parte degli esseri umani. “Ripulire la Senna è senza dubbio la cosa migliore che Parigi 2024 abbia portato a Parigi. Quale eredità migliore potrebbe esserci se non quella di non gettare merda nel fiume”, ha scritto il Guardian. E c’è chi come Wired ha ironizzato compiaciuto sul fatto che l’organizzazione dei questa edizione dei Giochi sembra essere stata affidata alla succursale francese di Extinction Rebellion, tanto ci si è concentrati sul ridurre l’impatto ambientale della manifestazione sportiva più importante e imponente del mondo.

    Onde, tempi più alti e (ancora) nessun record: la piscina di Parigi è più bassa e non convince gli atleti

    dalla nostra inviata Alessandra Retico

    29 Luglio 2024

    Tutto quello che non va per gli atleti
    Dall’altra parte ci sono state le polemiche degli atleti. Per il caldo, per l’acqua calda nelle borracce, per il cibo che sarà pure a chilometri zero ma è lontano mille miglia dalla nouvelle cousine, per i letti di cartone (e soprattutto scomodi), per le conseguenti mancanze di riposo e di refrigerio in una estate torrida: il nostro nuotatore Thomas Ceccon li ha cercati stendendosi a dormire per terra in un parco ai piedi di una panchina. Gregorio Paltrinieri, che nuotando ha vinto medaglie in tre Olimpiadi consecutive, ha detto che il Villaggio di Parigi per gli atleti è il peggiore che abbia mai visto durante la sua lunga carriera.
    Insomma, non sono bastati i bioarchitetti che hanno cercato di incanalare l’aria fresca che scorre sopra la Senna verso i quartieri più interni per raffrescarli. Né gli ecodesigner che hanno progettato oggetti fatti con materiali riciclati o riciclabili. Tantomeno sono stati sufficienti il miliardo e quattrocento milioni di euro investiti in depuratori, bacini di stoccaggio delle acque piovane, nuove fognature, per fare della Senna un fiume in cui tuffarsi serenamente, almeno per ora.

    Ceccon dorme nel parco del Villaggio olimpico, l’immagine diventa virale

    dalla nostra inviata Alessandra Retico

    04 Agosto 2024

    Ma quale è stato l’errore?
    Provare a organizzare una Olimpiade sostenibile? O piuttosto averlo comunicato con grande sicumera e sprezzo del ridicolo? Parigi 2024 non poteva certo risolvere la crisi climatica con il suo taglio di emissioni di CO2 rispetto alle precedenti edizioni dei Giochi. Quello che volevano lanciare gli organizzatori era un messaggio. Che ora rischia di diventare un boomerang.
    Prendiamo il caso delle borracce dei tennisti: le immagini dei raccattapalle che alla fine di ogni pausa le ripongono in frigo, mentre gli atleti tornano in campo, quanto sarebbe stata efficace per i tanti giovani fan mondiali della racchetta nello scoraggiarli dal ricorrere alle bottigliette di plastica… se solo, quella immagine non fosse stata la conseguenza delle lamentele dei tennisti olimpici che si erano ritrovati nei giorni precedenti a bere acqua calda mentre arrostivano a 30 gradi nel catino del Roland Garros.
    Il messaggio ecologico
    Assai più grave come danno d’immagine, per Parigi, per la Francia, ma anche per la causa ambientale, la vicenda della Senna. Si può scommettere tanto denaro e tanta reputazione nel corso di anni di preparativi, per poi ritrovarsi a dover rimandare le gare giorno per giorno e alla fine a provocare persino problemi di salute agli atleti che hanno accettato di tuffarsi nel fiume? Il messaggio ecologico di Parigi 2024 avrebbe dovuto essere: la transizione non solo è possibile, è anche piacevole. Dai racconti degli atleti sembra essersi trasformata in una penitenza: caldo, sonno, infezioni. Forse a dei ragazzi che in pochi giorni si giocano tutta la carriera sportiva si poteva chiedere di meno. Resta da vedere quanto rimarrà dei Giochi Green nel futuro di Parigi, una volta che sarà stato spento il braciere olimpico. Se la città a misura di essere umano, in cui ci si muove in bici, a piedi o a… nuoto, sarà stato un fuoco di paglia a uso e consumo delle troupe tv accorse per le Olimpiadi. O se invece sarà l’inizio di una nuova grandeur della sostenibilità. LEGGI TUTTO

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    Nephentes, i consigli per curare la regina delle piante carnivore

    Quando si pensa alle piante carnivore non si può fare a meno di menzionare proprio questo esemplare: la nepenthes. Anche se si crede che sia una pianta particolarmente attiva, in realtà per attirare le sue prede usa una tecnica speciale, ovvero emette un profumo intenso molto simile al nettare.

    Gli esemplari di nepenthes:
    La nepenthes è una pianta di lunga vita, della famiglia delle Nepenthaceae: si presenta come una pianta di tipo rampicante o strisciante e in natura la si trova attaccata agli alberi, pendendo con le sue radici e bocche. Le dimensioni della pianta variano e si possono trovare comunemente piante da 10 centimetri con varianti più grandi fino a 30 cm. Gli ascidi cioè le bocche della pianta possono vivere dai 6 ai 10 mesi se tenuti idratati.

    Le prede attratte da queste piante sono portate a sé attraverso diverse tecniche, a seconda dell’esemplare. Infatti, colori e nettari possono fare la differenza per intrappolare la vittima all’interno dell’ascidio. In quel momento, la pianta si attiva facendo dissolvere l’insetto e ne assorbe gli elementi che ne derivano. Queste piante tipiche della foresta equatoriali si presentano in diversi esemplari.

    Ecco quelli più noti:

    Nepenthes Alata: nota anche come pianta brocca, ha ascidi verdi con macchie rosse/rosa e raggiunge i 20 cm al massimo, mentre i fiori sono piccoli e poco appariscenti;
    Nepenthes Vetrata: è un ibrido ottenuto dall’incrocio tra la ventricosa e l’alata ed ha ascidi grandi e colorati;
    Nepenthes Bloody Mary: è un ibrido che si presenta con i suoi “contenitori” di colore rosso vivace;
    Nepenthes Cephalotus: è tra le piante carnivore rare ed è difficile da coltivare. Si presenta con ascidi ricoperti di striature, pelosi e solchi di colore rosso;
    Nepenthes Mirabilis: è tra le più diffuse, di cui possiamo trovare diverse specie in commercio come la echinostoma con una bocca molto ampia;
    Nepenthes Lowii: anche questo esemplare è raro e sembra essere definita come quella che possiede le brocche più belle, colorate e grandi;
    Nepenthes Attenboroughii: questa pianta ha brocche veramente molto capienti, verdi con striature viola, che possono contenere fino a 1,5 litri.

    Nepenthes: dove tenerla?
    Trattandosi di una pianta tropicale, la nepenthes è classificata come una specie da coltivare esclusivamente in appartamento. Infatti, richiede temperature abbastanza elevate che in inverno non potrebbe trovare in giardino. Durante la stagione, quando le temperature sono intorno ai 20-25°C è possibile spostare le piante all’aperto, ma in zona ombreggiata, facendo attenzione che la temperatura non scenda mai al di sotto dei 15°C. È importante ricordare che temperature eccessivamente basse mettono in pericolo la pianta ed è anche più soggetta all’attacco da malattie e parassiti.

    Il rinvaso e il terreno migliore per la nepenthes
    Il rinvaso delle piante carnivore deve essere eseguito con estrema attenzione, giacché queste richiedono un habitat particolare. In generale, non è suggerito un terriccio ricco di nutrienti, poiché si tratta di una pianta che non trae nutrimento dalla terra. È possibile selezionare un terriccio con torba mischiata con una piccola parte di perlite. Prima di occuparsi del rinvaso è necessario che la pianta sia nel periodo di riposo, ovvero in autunno: collocate la pianta all’ombra e in un luogo fresco e procedete al rinvaso. È importante evitare il rinvaso nel momento della crescita della pianta carnivora, giacché si rallenta il processo. Un altro aspetto importante riguarda il vaso: è fondamentale selezionare quelli piccoli, poiché l’apparato radicale della pianta carnivora è ridotto.

    Il fiore della nepenthes
    Le nepenthes sono piante dioiche, cioè da una singola pianta si possono avere solo fiori maschili o fiori femminili, ma mai entrambi. Diversi piccoli fiori crescono su una lunga spiga. Nella pianta femmina, i fiori sono dotati di carpelli (strutture riproduttive femminili), mentre nella pianta maschio i fiori contengono il polline.

    Che cosa fare quando gli ascidi sono secchi?
    Come accennato, le annaffiature hanno una grande importanza per questa pianta e gli stessi ascidi devono essere sempre mantenuti umidi. Se si inizia a notare che gli ascidi sono secchi, già dal bordo, è normale. Infatti, è necessario attendere che la “brocca” si secchi fino all’attaccatura con la foglia e poi reciderla.

    L’annaffiatura della pianta
    La nepenthes è una pianta che nasce in un ambiente particolarmente umido e di conseguenza apprezza vivere in questo contesto. È importante annaffiare la pianta con costanza, meglio ancora con un innaffiatoio a doccino: in questo modo, gli ascidi possono custodire al loro interno 2 dita di acqua, evitando di diventare secchi. È importante vaporizzare anche le foglie con acqua piovana o distillata. L’acqua del rubinetto contiene sostanze che la pianta non è in grado di assorbire.

    L’esposizione migliore per la nepenthes
    Per quanto concerne l’esposizione, la nepenthes ama la luce del sole, ma non deve essere diretta. Quindi, è preferibile posizionare la pianta in aree luminose dell’abitazione.

    La concimazione della nepenthes
    In generale, l’argomento concimazione della pianta è sempre molto discusso tra gli estimatori delle piante grasse. È importante considerare che una pianta, quando è coltivata all’aperto, può trovare tutti i nutrimenti necessari direttamente dagli insetti, catturandoli nelle sue bocche. Con la coltivazione in casa, invece, specie durante la stagione invernale è difficile che la nepenthes abbia le stesse possibilità di trovare nutrimento. Proprio per questo, la concimazione può assicurare una migliore crescita. È possibile fertilizzare la pianta in diversi modi: fertilizzante spray oppure in pellet da inserire nella brocca (si potrà notare annerimento di questa parte, ma è normale). Per la versione spray è importante trovarne uno solubile con rapporto di azoto, fosforo e potassio uguale (sempre da diluire in acqua e mai dare direttamente sulla pianta). Basterà metterne un po’ nelle brocche!

    Le malattie e gli insetti parassiti della nepenthes
    La nepenthes può essere attaccata da afidi e cocciniglia che portano la pianta ad essere infetta. Per evitare questi parassiti è importante garantire alla pianta una temperatura stabile di circa 20°C. Sarà importante anche non eccedere con l’acqua sulle foglie ed eliminare l’acqua dal sottovaso, poiché anche questa può attirare parassiti e indebolire la pianta. La nepenthes è soggetta anche ad attacchi fungini: in tal caso, è importante intervenire con un prodotto fungicida. LEGGI TUTTO

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    Incendi, agosto il mese più a rischio. Ma nelle foreste “gestite” i danni diminuiscono del 50%

    Investire in attività mirate per la tutela del patrimonio boschivo e forestale italiano consente una riduzione del 50% dei danni legati agli incendi. Garantendo effetti più limitati sugli ecosistemi e, in generale, una minore gravità degli stessi incendi. Mentre entra nel vivo agosto, il mese più complicato dell’anno per i boschi italiani, arrivano da PEFC Italia (Programme for Endorsement of Forest Certification schemes), l’ente promotore della corretta e sostenibile gestione del patrimonio forestale, indicazioni chiare sull’importanza della cura del territorio. Con un’analisi che lascia in dote un dato inequivocabile: i boschi certificati per la gestione forestale sostenibile hanno una probabilità di essere interessati da incendi in misura fino a 9 volte inferiore rispetto a quelli non certificati.

    Dall’esame, nell’ambito di uno studio coordinato da Davide Ascoli del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino, di 48.953 eventi di incendi in tutta Italia, per un totale di 999.482 ettari di area bruciata nel periodo di studio tra il 2007 e il 2017, è infatti emerso che la governance attiva del territorio – a partire dalle politiche previste dal Programma di Sviluppo Rurale, passando per le certificazioni forestali, fino ai programmi di conservazione della biodiversità come previsto ad esempio nel Programma Life – ha contribuito a costruire negli ultimi decenni in Italia paesaggi resistenti e resilienti agli incendi.

    Le idee

    L’innovazione forestale per salvaguardare il pianeta

    di Zhimin Wu

    22 Luglio 2024

    Da gennaio a luglio in fiamme 221 km quadrati
    Indicazioni tanto più chiare alla luce degli ultimi aggiornamenti di European Forest Fire Information System (EFFIS), secondo cui in Italia da gennaio al 30 luglio sono stati rilevati 615 incendi, per una superficie totale di 221 km quadrati. Di più: le stime prodotte da ISPRA evidenziano che le aree boschive percorse da incendio, per i primi 8 mesi dell’anno, sono 40 chilometri quadrati di superficie forestale, vale a dire il 18 % del totale. I più interessati sono macchia mediterranea e boschi di leccio (46%), boschi di querce (33%) e aree boschive di conifere (16%). L’ultimo grande incendio ha interessato la Baia San Felice, a Vieste, nel territorio del Parco nazionale del Gargano.

    Meno roghi dove c’è più presidio
    E dunque, con la sensibilizzazione della popolazione ad adottare comportamenti consoni, diventa cruciale l’incremento delle foreste gestite in maniera sostenibile. Già, ma in cosa consiste la gestione sostenibile di una foresta? Secondo la definizione ufficiale adottata ad Helsinki nel 1993 dalla Conferenza Ministeriale per la Protezione delle Foreste in Europa, la Gestione Forestale Sostenibile (GFS) è “la gestione e l’uso delle foreste e dei terreni forestali nelle forme e ad un tasso di utilizzo che consentono di mantenerne la biodiversità, produttività, capacità di rinnovazione, vitalità e potenzialità di adempiere, ora e nel futuro, a rilevanti funzioni ecologiche, economiche e sociali a livello locale, nazionale e globale, senza comportare danni ad altri ecosistemi”.

    “Da un punto di vista pratico – dice Antonio Brunori – segretario generale PEFC Italia – la gestione forestale è sostenibile quando l’attività forestale riesce a conciliare il rispetto ambientale, lo sviluppo economico e il benessere sociale, coinvolgendo persone e territorio: quindi quando riesce a rendere economicamente valida un’operazione di gestione forestale includendo sia l’aspetto sociale che quello ambientale”. Fondamentali, per esempio, l’attività programmata di diradamento per limitare la quantità di materiale incendiabile e la pulizia del sottobosco, con il controllo della quantità di legno morto a terra. Ancora: un maggiore presidio si traduce in una minore frequenza di incendi dolosi. Alle azioni dell’uomo sono del resto imputabili il 75% degli episodi.

    WWF

    Giornata delle foreste, in 30 anni persi 178 milioni di ettari di boschi: tre volte la superficie della Francia

    di redazione Green&Blue

    21 Marzo 2024

    Un “bollino” per le foreste virtuose
    A premiare le pratiche virtuose è una sorta di “bollino”, la certificazione forestale PEFC: ad oggi in Italia gli ettari di foreste gestite in maniera sostenibile sono 1.012.017,96. Nel mondo le foreste certificate per la gestione sostenibile coprono 296 milioni di ettari, pari a poco meno del 10% della superficie forestale complessive. Ancora troppo poche, naturalmente. “Ma negli ultimi anni l’attenzione da parte di alcuni territori su alcune tematiche è aumentata”, spiega Brunori. Così il “Rapporto annuale sulla certificazione” di PEFC premia, sul podio delle regioni più virtuose per superficie forestale certificata più estesa, il Trentino Alto-Adige, primo con 578.963,8 ettari, il Friuli Venezia Giulia, con 96.035,94 ettari, e il Piemonte, con 82.157,10 ettari certificati. Dopo il Veneto (80.066,27 ettari certificati), importanti risultati sono emersi dai dati registrati in Toscana (35.809,88 ha) ed Emilia Romagna (6.888,60 ha) con il Parco nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano che ha ottenuto la certificazione per la gestione forestale sostenibile e responsabile, oltre che la verifica dei Servizi Ecosistemici biodiversità, servizi turistico-ricreazionali e carbonio forestale. “In generale notiamo però un crescente interesse intorno al tema, con diverse realtà che stanno lavorando bene anche nelle regioni del centro e del sud”, aggiunge Brunori.

    Il riscaldamento globale amplifica il rischio
    Si tratta, evidentemente, di pratiche virtuose con le quali rispondere ai rischi crescenti, legati anche al riscaldamento globale: clima caldo e secco amplificano, del resto, l’infiammabilità del suolo. “Il cambiamento climatico che sta interessando in maniera complessa e drammatica il Pianeta è purtroppo sempre più spesso causa o concausa di incendi difficilmente controllabili e disastrosi ed è dunque evidente come siano necessarie attività che aiutino a regolare e contenere le perdite di servizi ecosistemici e di copertura forestale”, annuisce Marco Bussone, presidente PEFC Italia.

    “In Italia, la disattenzione per il patrimonio boschivo e pascolivo ci ha indebolito, lasciando moltissimi ettari di foresta abbandonati ad uno stato selvaggio e rischioso. È urgente intervenire: dei 100 milioni di euro di risorse stanziate dal Decreto incendi nel settembre 2021, il dipartimento della Coesione territoriale deve ancora ripartire circa 40 milioni. Queste risorse – conclude – sono più che necessarie, perché devono essere spese per la prevenzione con investimenti mirati in attività sui territori e dentro i boschi stessi”.

    Sotto accusa anche l’abbandono delle aree forestali e alcune pratiche, in primis il taglio intensivo della foresta che può, per esempio favorire la ricolonizzazione degli spazi da parte di specie erbacee e arbustive più infiammabili. “Dovrebbero poi essere supportati progetti di riforestazione e recupero degli ecosistemi danneggiati dagli incendi per aumentarne la biodiversità e la capacità di resilienza. – continua Bussone – Anche il finanziamento di attività di sensibilizzazione e formazione rivolte ai singoli cittadini ma anche agli operatori forestali possono rappresentare un valido strumento. E infine: la ricerca e l’innovazione dovrebbero essere sostenute per lo sviluppo di nuove tecnologie e strumenti che oggi sono in grado di prevenire il controllo degli incendi. Azioni che però devono essere integrate e coordinate tra loro, ad ogni livello di gestione territoriale”. LEGGI TUTTO