24 Luglio 2024

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    Il Tevere balneabile? Un percorso (se mai verà iniziato) lungo e costoso

    Il Tevere balneabile come la Senna olimpica? La suggestione periodicamente ritorna. E il fatto che i cugini transalpini abbiano bonificato il fiume che attraversa Parigi (con un investimento da 1,4 miliardi di euro in vista dei Giochi 2024) ha fatto tornare d’attualità il tema. D’altra parte già nell’autunno scorso, quando i riflettori iniziavano ad accendersi sulla Senna, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri (“E’ un obiettivo che ci possiamo dare”) e la sua assessora all’Ambiente Sabrina Alfonsi (“Restituire la balneabilità al Tevere sarebbe il punto naturale di arrivo del lavoro che stiamo facendo”), avevano lasciato intendere che ci si stava pensando anche da noi. Mesi dopo e analisi biochimiche alla mano si capiscono due cose: che il percorso non è ancora iniziato, e che, se mai verrà imboccato, sarà lungo e costoso.

    La Senna di nuovo balneabile: e il Tevere?

    18 Luglio 2024

    Dagli assessorati all’Ambiente e all’Urbanistica della capitale (i due che hanno competenza sul Tevere) smentiscono infatti che al momento ci sia alcun progetto dell’Amministrazione comunale per rendere balneabile il fiume di Roma: la balneabilità, dicono, non è di nostra competenza ma della Regione. E in effetti è la Regione Lazio che all’inizio della bella stagione stila l’elenco delle coste balneabili: ma non ci sono rive di fiumi, solo mare e laghi. L’esclusione dei corsi d’acqua ha una conseguenza sulle analisi che l’Arpa (Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente) conduce sulle acque stesse: non dovendone verificare la balneabilità (perché la Regione lo esclude a priori dai tratti balneabili) il Tevere è automaticamente esentato dai controlli ufficiali che riguardano la concentrazione di batteri pericolosi per la salute umana. “Almeno in tempi recenti non ne sono stati mai fatti”, ci confermano dall’Arpa.

    Esistono però i controlli “ufficiosi”. Se dai dati a disposizione dell’Arpa Lazio si estrapola per il Tevere il solo parametro Escherichia coli, che è il più tipico indicatore di contaminazione fecale, si osserva che, nelle varie stazioni di monitoraggio lungo il fiume e nelle varie annualità, la sua concentrazione oscilla e che, soprattutto nel tratto conclusivo del fiume, tende a essere talvolta superiore al limite che la legge impone per la balneabilità nelle acque interne: 1000 batteri ogni 100 millilitri. Conclusioni analoghe a quello dello studio commissionato nel 2022 a un gruppo di biologi dall’associazione A Sud: “I valori di ammonio ed Escherichia coli sono molto elevati”, si legge nel rapporto. “In particolare, nel 79,8% dei campioni la concentrazione di Escherichia coli è sopra il limite per l’idoneità alla balneazione dei corsi d’acqua dolce”.

    Inquinamento

    Microplastiche e polistirolo, cibo per pesci e molluschi alla foce del Tevere

    di Paolo Travisi

    11 Marzo 2024

    Sotto accusa gli scarichi fognari che sfuggono ai depuratori. L’Acea rivendica le ottime performance di trattamento delle acque reflue della capitale, poi reimmesse nel Tevere: “Nell’“area storica” gestita da Acea Ato 2, che include Roma e Fiumicino, i principali impianti di depurazione hanno trattato, nel 2023, circa 515 milioni di metri cubi di acque reflue, un dato leggermente superiore all’anno precedente (510 Mm3). Considerando i 171 depuratori, che includono gli impianti minori e quelli dei comuni acquisiti nell’ATO 2, si arriva ad un volume totale di 604 milioni di metri cubi di acque reflue trattate (589 Mm3 nel 2022)”. Per quanto riguarda la qualità delle acque che escono dai depuratori e finiscono nel fiume, il report di Acea evidenzia come i valori cruciali siano ben al di sotto del limite di concentrazione ammesso. La domanda biochimica di ossigeno (BOD5) è per esempio di 4 milligrammi per litro, contro un limite di 25. Ma un fiume incontaminato dovrebbe avere valori di BOD5 minori di 1 mg/l. Mentre un fiume moderatamente inquinato ha valori di BOD5 compresi fra i 2 e gli 8 mg/l. E questo è solo quanto esce dai depuratori. Poi ci sono appunto gli scarichi illegali.

    La carica batterica è la più pericolosa per la salute umana (ed è dunque dirimente per la balneabilità). Ma non è l’unica insidia per la salute del fiume. Ci sono altri inquinanti biologici e chimici che vanno monitorati per legge, indipendentemente che ci si voglia tuffare nel Tevere o no. Analisi, queste sì, che l’Arpa conduce periodicamente. Gli ultimi dati risalgono al 2021-2022, e pur segnalando progressi evidenziano una condizione non ideale per il fiume di Roma. In questo caso, l’indiziato principale è l’affluente principale, l’Aniene, che, attraversando la periferia est di Roma, è stato per decenni, ed è purtroppo ancora, il collettore di scarichi industriali, spesso non regolamentati. “Se anche ci fossero livelli nella norma di Escherichia coli, io non farei comunque il bagno in un fiume che so essere inquinato chimicamente”, confessa un ricercatore di Arpa.

    Dunque se si volesse mettere davvero mano alla balneabilità del Tevere occorrerebbe monitorare tutti gli scarichi a monte della capitale e dei suoi affluenti (una quarantina) per individuare quelli illegali. Dotare di depuratori tutte quelle realtà che non lo sono. Ed esercitare un maggior controllo anche sulle attività agricole dell’Agro romano, che tra deiezioni animali mal gestite e fertilizzanti posso comunque compromettere la qualità dell’acqua. Una operazione complessa, per la quale potrebbe non bastare il miliardo e mezzo speso da Parigi. Anche perché da noi i periodi sempre più lunghi di siccità stanno impoverendo in estate il flusso del Tevere, basta vederlo in questi giorni: e meno acqua vuol dire meno diluizione degli inquinanti presenti.

    Per tutti questi motivi c’è chi immagina una alternativa al tuffo nel fiume: creare con parte dell’acqua del Tevere (depurata ad hoc) delle “piscine naturali” lungo l’alveo del fiume, la cui acqua verrebbe poi reimmessa nel corso principale. E’ un pò quello che sta succedendo al Laghetto dell’Eur, sul versante Ovest della capitale: la scorsa primavera Eur Spa ha chiesto proprio ad Acea di prelevare e analizzare campioni dello specchio d’acqua cittadino progettato dall’architetto Piacentini e alimentato non dal Tevere, con relativi depuratori della rete fognaria, ma dai pozzi della Cecchignola. Il piano è di renderlo balneabile in 5 anni e con un investimento di 7,9 milioni di euro. Per il Tevere ci vorrà decisamente di più. LEGGI TUTTO

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    I fanghi da depurazione da problema a risorsa per l’agricoltura

    Con un volume di 3.2 milioni di tonnellate/anno (2021) l’Italia è il terzo paese europeo per produzione annuale di fanghi. Oggi circa la metà viene smaltita in discarica o all’incenerimento senza alcuna attività di recupero. La quasi totalità della parte restante ha come destino prevalente lo spandimento in agricoltura senza alcuna attività di decontaminazione da materiali pericolosi e potenzialmente inquinanti (quali, ad esempio, i metalli pesanti), né di recupero di materie prime come il fosforo e il magnesio. Una situazione a cui si aggiungono gli effetti del trasporto dei fanghi. Secondo uno studio presentato da Utilitalia, il Centro e il Sud hanno esportato circa 480.000 tonnellate di fanghi verso altre regioni, soprattutto del Nord.

    Per le inadempienze nel trattamento dei fanghi di depurazione l’Ue ha aperto una serie di procedure di infrazione nei confronti dell’Italia, l’ultima delle quali (la quarta) costa alla collettività almeno 60 milioni di euro all’anno. In questo contesto si colloca la tecnologia HBI che consente di superare questa situazione e, adottata su scala nazionale, di generare un risparmio per le imprese e per la collettività stimato tra i 120 e i 150 milioni di euro annui. Nel dettaglio, la tecnologia messa a punto dalla startup consente di chiudere il ciclo idrico integrato, recuperando l’acqua contenuta nei fanghi ed estraendo materie critiche e strategiche quali il fosforo e il magnesio, utilizzabili come basi rinnovabili per la produzione di fertilizzanti agricoli sostenibili, prodotti per i quali oggi l’Europa dipende da forniture extra Ue. Quella di HBI è inoltre una tecnologia autonoma dal punto di vista energetico, perché reimpiega l’energia contenuta nei fanghi stessi, ed è un sistema perfettamente integrabile agli impianti di digestione anaerobica esistenti.

    La storia, una chiara visione di economia circolare
    Diventare leader nelle tecnologie innovative per preservare i sistemi naturali, migliorare il benessere umano e l’equità sociale. Promuovere un cambiamento nella vita e nel benessere comune, è questa la missione principale di HBI, fondata a Bolzano nel 2016 come startup innovativa nell’ambito di un Phd in Ingegneria Ambientale dell’Università di Bolzano. Unendo la competenza scientifica di Daniele Basso e l’esperienza imprenditoriale di Renato Pavanetto, HBI nasce con una chiara visione di economia circolare e con una solida base industriale per implementarla secondo i principi della sostenibilità. Il progetto vince una serie di premi nazionali ed internazionali e lo sviluppo della tecnologia, grazie anche all’intensa attività di Ricerca e Sviluppo che porta alla registrazione dei primi brevetti industriali e all’ingresso nel capitale di investitori qualificati, consente la realizzazione del primo impianto nel 2020.

    Nel 2021, HBI ottiene le certificazioni ISO 9001 e ISO 14001 per le attivita? di ricerca e sviluppo, gestione della produzione, assistenza all’avviamento e conduzione di impianti poligenerativi. A fine 2021, altri investitori istituzionali (NovaCapital) entrano nel capitale di HBI e all’inizio del 2023 la maturità tecnologica degli impianti viene certificata al livello TRL9. La tecnologia di HBI, interamente sviluppata in Italia, consente di trasformare i comuni depuratori delle acque in bioraffinerie poligenerative, in grado di recuperare acqua e materiali strategici critici come ammoniaca, fosforo e nutrienti per l’agricoltura oltre a recuperare energia rinnovabile pulita. In questo modo si riesce a recuperare e riciclare oltre il 90% della materia contenuta nei fanghi di depurazione ed a ridurre in modo consistente i costi di gestione e trattamento.

    Il trattamento circolare e sostenibile dei fanghi di depurazione
    Attraverso un processo specifico di separazione molecolare, il sistema HBI è in grado di estrarre dai fanghi materiali sostenibili ad alto valore aggiunto come ammoniaca, idrogeno e nutrienti per l’agricoltura. Allo stesso tempo, viene prodotta energia pulita e rinnovabile, rendendo l’impianto completamente autosufficiente dal punto di vista energetico. Il sistema HBI è modulare e scalabile, per garantire applicazioni di piccola e grande scala. Il processo è un esempio concreto di un sistema circolare e di riciclo sostenibile delle risorse che, purtroppo, sono ancora in larga parte destinate alla discarica o all’incenerimento.

    L’applicazione della tecnologia HBI, che non emette odori o gas, consente di ridurre i costi operativi di gestione dei fanghi di depurazione di almeno il 15% grazie a: una riduzione dei rifiuti fino al 90%; il recupero di materiali ad alto valore aggiunto (come ammoniaca e nutrienti per l’agricoltura); l’autosufficienza dal punto di vista dell’energia termica dell’impianto; il recupero dell’acqua contenuta nei fanghi fino all’85%. Non solo, se applicata al trattamento dei fanghi digestati, la tecnologia può contribuire ad aumentare la produzione di biogas fino al +40%.

    Vantaggi economici e riduzione costi
    Questa innovativa tecnologia è stata installata presso il depuratore di Bolzano e successivamente presso il sito GP Lab a Fusina (VE), con un modulo industriale capace di trattare fino a 1’000 ton/anno di fango. Nel novembre 2022 le performance della tecnologia HBI sono state verificate da Rina con il certificato riconosciuto a livello europeo ETV (Environmental Technology Verification), a testimonianza del fatto che viene riconosciuta come la migliore ad oggi disponibile sul mercato e capace di recuperare più del 90% della materia e dell’energia contenute nei fanghi.

    I fanghi da depurazione sono ancora oggi gestiti come rifiuti. La tecnologia poligenerativa della startup trevigiana consente invece di recuperarne oltre il 90% dei materiali ricavandone acqua, energia rinnovabile e materie prime seconde. Ciò permette di abbattere drasticamente la destinazione dei fanghi in discarica o il loro incenerimento, così come l’importazione di fertilizzanti dall’estero. L’azienda stima che il mercato delle soluzioni innovative, circolari e sostenibili per il trattamento dei fanghi di depurazione possa generare, solo in Italia, un valore economico superiore ai 500 milioni di euro all’anno, mentre la commercializzazione di CRM recuperate dai fanghi potrebbe produrre un ulteriore valore aggiunto per circa 200-300 milioni di euro all’anno.

    “Dopo aver dimostrato dal punto di vista tecnologico e da quelli normativo e autorizzativo le potenzialità e la scalabilità della nostra tecnologia, abbiamo sviluppato un piano industriale che ci porterà nel 2030 a posizionarci a livello europeo come leader nel trattamento circolare e sostenibile dei fanghi di depurazione” ha precisato Daniele Basso, Founder e CEO di HBI. L’azienda ha da poco ottenuto un aumento di capitale da 15 milioni di euro riservato a un pool di nuovi investitori. Il round di investimento di Serie A vede CDP Venture Capital partecipare come lead investor, con il Green Transition Fund, che utilizza risorse stanziate dall’UE tramite l’iniziativa NextGeneration EU, e con il Fondo Evoluzione. L’operazione si colloca in una fase in cui il settore idrico sta assistendo a crescenti manifestazioni di interesse da parte di investitori istituzionali e private equity. Con le nuove risorse che vanno a rafforzarne la capacità finanziaria, HBI si appresta ora a crescere sotto i profili industriale e commerciale nelle attività di recupero circolare e sostenibile dei fanghi di depurazione, in Italia e all’estero. LEGGI TUTTO

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    Cupola di calore: cos’è e perché sta diventando un fenomeno preoccupante

    In estate possono colpire soprattutto il sud-ovest degli Stati Uniti, il Messico, alcune zone dell’Asia, come India, Pakistan, Bangladesh, e il Sud Europa, soprattutto Grecia, Spagna, Portogallo, Italia. Si tratta delle cupole di calore, note anche come heat dome, un fenomeno meteorologico caratterizzato da una vasta area di alta pressione negli strati superiori dell’atmosfera che intrappola sotto di sé l’aria calda, come un coperchio su una pentola.

    Dati

    Clima, nuovo record nel 2023: mai così alte le temperature minime (+1,20°C)

    di redazione Green&Blue

    11 Luglio 2024

    Le correnti a getto
    Lo studio di tutto questo inizia tra il 1922 e il 1925, quando il meteorologo giapponese Wasaburo Ooishi osserva lo spostamento dei palloni aerostatici sganciati sul monte Fuji, elaborando analisi dettagliate sui venti in quota. Cataloga così le correnti a getto, dette jet stream, intensi flussi d’aria che scorrono principalmente da ovest verso est in entrambi gli emisferi, a circa 10-12 chilometri dal suolo, con un andamento ondulatorio. Larghe 60-120 chilometri e alte 6-8 chilometri, hanno una velocità compresa tra i 150 e i 450 chilometri orari. Quando, però, queste onde diventano più ampie e allungate, iniziano a muoversi più lentamente, fino a diventare, a volte, stazionarie.

    Crisi climatica

    Lo scioglimento dei ghiacci allunga i giorni e sposta l’asse terrestre

    di Matteo Marini

    19 Luglio 2024

    Temperatura alle stelle
    Questa stabilità può portare alla formazione di un’area di alta pressione persistente, che blocca i venti di raffreddamento e impedisce la creazione di nuvole, consentendo così al sole di continuare a irraggiare la superficie terrestre. A mano a mano che l’aria sottostante si riscalda sale, ma viene spinta verso il basso dal sistema di alta pressione, con la conseguenza che l’aria si riscalda ulteriormente. Un circolo vizioso, a causa del quale nella zona colpita la colonnina di mercurio schizza alle stelle per vari giorni o addirittura per intere settimane. Ecco la cupola di calore, da non confondere con l’ondata di calore: la prima provoca la seconda, ma quest’ultima può verificarsi anche per altri motivi. “L’aria calda e stagnante, in combinazione con l’aumento dell’umidità, crea una sorta di forno, che nuoce a persone, animali, piante”, stigmatizza Scientific American. “E non è un caso che il caldo estremo mieta più vittime di tornado, inondazioni, uragani messi insieme”.

    Il ruolo del cambiamento climatico
    Gli scienziati hanno accertato che il riscaldamento globale ha reso le cupole di calore più ampie, più frequenti e più intense. Uno studio del 2021, condotto da un team internazionale di 27 ricercatori, appartenenti al World Weather Attribution, ha evidenziato che le temperature torride registrate durante la cupola di calore che si è verificata in Canada nel giugno del 2021 sarebbero state impossibili da raggiungere senza il cambiamento climatico causato dall’uomo. Inoltre, si stima che una heat dome di questa portata sia 150 volte più probabile nel clima odierno rispetto a quello preindustriale. Una ricerca più recente, comparsa nel 2023 sulle pagine di Nature, ha confermato che la crisi del clima sta alimentando l’intensità del fenomeno.

    Ambiente

    Il sogno californiano sempre più in crisi: incendi, temperature bollenti e spiagge chiuse per i batteri

    di Giacomo Talignani

    11 Luglio 2024

    Il recente caso della California
    E proprio una cupola di calore è la responsabile del caldo record registrato all’inizio di luglio in gran parte della California, che ha sfiorato i 51,1 gradi a Palm Springs. Il fenomeno ha avuto origine sull’oceano Pacifico ed è proprio questo ad avergli conferito una resistenza extra. Le cupole di calore che si sviluppano al largo hanno, infatti, una maggiore persistenza rispetto a quelle che si formano sulla terraferma, a causa delle complesse interazioni che avvengono tra terra, mare, atmosfera. La spiegazione più semplice è, tuttavia, che le aree calde che si formano sull’oceano spesso bloccano le tempeste che potrebbero abbassare le temperature. Nel caso specifico, neppure l’uragano Beryl, scatenatosi alla fine di giugno, è riuscito a penetrare la cupola di calore. LEGGI TUTTO

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    Auto elettriche e pannelli solari sui castelli, la svolta green di re Carlo III

    La Royal Family britannica accelera verso l’obiettivo emissioni zero di carbonio nella sue proprietà. Dalle auto elettriche di lusso, ai pannelli solari sui castelli e al carburante sostenibile per gli elicotteri re Carlo III, pioniere della causa ecologista, ha voluto dare la sua impronta e il contributo della famiglia reale alla lotta contro il cambiamento […] LEGGI TUTTO

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    Spighe Verdi 2024: sono 75 le “bandiere blu” dei borghi italiani sostenibili

    Entrano in sei: Senigallia (Marche), Gavi (Piemonte), Nardò (Puglia), Ragusa (Sicilia), Gambassi Terme (Toscana) e Trevi (Umbria). Escono invece Sellia, in Calabria, e le toscane Fiesole e Greve in Chianti. È il bilancio fra nuovi ingressi e comuni riconfermati delle Spighe Verdi 2024, il riconoscimento assegnato dalla Fee-Foundation for environmental education, l’organizzazione che rilascia nel mondo le Bandiere Blu per le località costiere e che invece in questo caso premia i migliori comuni rurali. Più che un premio, come per il più vecchio gemello marittimo, si tratta di una sorta di certificazione rilasciata alle località che scelgono strategie di gestione del territorio virtuose che migliorino le condizioni dell’ambiente e la qualità della vita dell’intera comunità.

    Annunciate il 24 luglio alla presenza dei sindaci, nel corso della cerimonia di premiazione al ministero della Cultura a Roma, le Spighe Verdi – di cui Repubblica dà conto in anteprima come ogni anno – contano quest’anno 75 località rurali contro le 72 dello scorso anno. Per portare le comunità rurali alla graduale adozione dello schema Spighe Verdi, la Fee Italia ha condiviso con Confagricoltura un gruppo di indicatori in grado di fotografare le politiche di gestione del territorio e indirizzarle verso criteri di massima attenzione alla sostenibilità. “Le aree rurali in Italia rappresentano oltre il 90% della superficie territoriale nazionale – spiega a Green&Blue Claudio Mazza, presidente della Fee Italia – risulta dunque essenziale lavorare per la crescita e la valorizzazione dei Comuni rurali, partendo dalla volontà politica dell’amministrazione comunale di compiere una vera e propria scelta di campo all’insegna della sostenibilità e della transizione, con il contributo attivo di tutti i soggetti presenti sul territorio. Il programma Spighe Verdi si pone come guida e sintesi di questo lavoro”.

    Nella fase di valutazione portata avanti dalla commissione incaricata secondo un rigido schema procedurale, hanno dato il loro contributo diversi enti e istituzioni, tra i quali il ministero dell’Agricoltura, quello del Turismo, il Cnr, i l’Arma dei Carabinieri e Confagricoltura. Fra i parametri presi in considerazione figurano l’educazione allo sviluppo sostenibile, il corretto uso del suolo, la presenza di produzioni agricole tipiche e la sostenibilità e l’innovazione in agricoltura. Ancora, altri aspetti che finiscono sul tavolo della commissione riguardano la qualità dell’offerta turistica e alcuni dei medesimi parametri considerati per le Bandiere Blu (annunciate lo scorso maggio) come l’esistenza e il grado di funzionalità degli impianti di depurazione, la gestione dei rifiuti con particolare attenzione alla raccolta differenziata, la valorizzazione delle aree naturalistiche eventualmente presenti sul territorio e del paesaggio, la cura dell’arredo urbano, l’accessibilità per tutti senza limitazioni. LEGGI TUTTO

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    Scalogno: coltivazione, cura e consigli

    La pianta erbacea dello scalogno si presenta con caratteristiche molto simili a quelle dell’aglio, anche per quanto concerne la tecnica di coltivazione. Questo ortaggio, di cui se ne fa largo uso in cucina, non è particolarmente esigente e si può coltivare sia in piena terra sia in vaso. 

    Come coltivare in terreno

    Per potersi occupare della coltivazione dello scalogno è necessario conoscere al meglio tutti i consigli migliori che permettono di prendersi correttamente cura di questa pianta. Il bulbo dello scalogno può essere messo in terra già in autunno – tra i mesi di ottobre e novembre – se ci si trova in un’area con il clima temperato. Infatti, i bulbi di scalogno possono riposare per tutto il periodo invernale, senza alcun problema. In altri contesti climatici, invece, è preferibile piantare lo scalogno tra febbraio e marzo, quando il terreno non è più ghiacciato.

    Come funziona la semina

    La semina del scalogno deve essere effettuata correttamente per garantire un’ottima coltivazione: è importante sistemare i bulbi con la punta rivolta verso l’alto. È sempre meglio utilizzare piante che non sono germogliate, preferendo direttamente i bulbi da mettere in dimora ad una profondità nel terreno compresa tra i 2-5 centimetri. Una profondità maggiore è sempre suggerita quando si pratica la messa a dimora in autunno, così da proteggere adeguatamente la pianta durante la stagione invernale. Suggeriamo di sistemare una pianta distante dall’altra a 30 centimetri circa, così da preparare dei filari distanti tra di loro 40-50 centimetri. Un’altra importante caratteristica da considerare per la coltivazione ottimale della pianta riguarda la tipologia di terreno: per esempio, il bulbo dello scalogno non apprezza i terreni argillosi e predilige quelli più sciolti. In caso si fosse in possesso di un appezzamento di terra contraddistinto da una tipologia di terriccio che si compatta, è fondamentale migliorarlo, magari miscelandolo con della sabbia ed evitare di camminarci sopra, mantenendolo soffice. Anche la concimazione con humus di lombrico può aiutare a rendere più morbido il terriccio.

    Coltivazione in vaso: consigli e come fare

    Prendersi cura dello scalogno in balcone è possibile: la coltivazione in vaso può essere fatta senza alcun problema, a patto di avere a disposizione un contenitore profondo almeno 25 centimetri. Al suo interno, per mantenere il terreno drenato, è consigliabile sistemare dell’argilla espansa: in questo modo, l’acqua in eccesso fuoriesce senza creare ristagni idrici per lo scalogno. La coltivazione in vaso richiede annaffiature costanti, anche se è sempre necessario porre attenzione al grado di umidità del terriccio.

    Come e quanto annaffiare

    A differenza di altre piante da orto, lo scalogno non esige molta acqua, se non in particolari situazioni di siccità. Ad ogni modo, quando si decide di effettuare delle annaffiature dello scalogno è fondamentale evitare i ristagni idrici, cercando di bagnare il terreno e non le foglie della pianta.

    Esposizione migliore

    Lo scalogno apprezza l’esposizione in pieno sole, ma se possibile con un po’ di ombra durante le ore più calde delle giornate estive. In linea di massima, è una pianta che si adatta alla perfezione al clima, meglio se con temperature comprese tra i 24°C e 30°C. In inverno, invece, le piante più robuste possono resistere fino a -6°C.

    Malattie e parassiti

    Lo scalogno si contraddistingue per essere una pianta resistente e in rarissimi casi gli insetti possono provocare danni alla pianta. Spesso la coltivazione di questo bulbo è suggerita in prossimità di altre verdure, proprio perché riesce ad allontanare gli insetti, infastidendoli con il suo odore. Per quanto riguarda le malattie, invece, lo scalogno può essere attaccato da funghi: per esempio, può incorrere nella peronospora in aprile, quando vi è un aumento dell’umidità dovuta alle annaffiature. Per evitare tale problema è importante avere un terreno ben drenato ed effettuare dei trattamenti a base di rame.  

    Come conservare dopo la raccolta

    Una volta raccolti i bulbi maturati tra giugno e luglio – basta controllare le foglie della pianta che devono iniziare leggermente a ingiallire – è possibile conservare al meglio lo scalogno, proprio come le cipolle. Un luogo privo di umidità e ombreggiato consente di conservare lo scalogno fino a 8 mesi dopo la raccolta. LEGGI TUTTO