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    Nella Sicilia senza acqua nasce il progetto I.D.R.O.

    Un inverno e una primavera così piovosi, in Sicilia nessuno se li ricordava. Eppure, nonostante l’acqua dal cielo, cittadini e agricoltori guardano il livello delle riserve idriche di aprile, scuotono la testa e continuano a rimanere con il fiato sospeso. Preoccupati per l’estate che verrà e per l’acqua che non ci sarà. Perché ad essere scongiurata, spiegano, è la siccità a breve termine, ma per il futuro, anche quello prossimo, nessuno in Sicilia, se la sente di fare previsioni. L’isola, dicono gli scienziati, si sta scaldando il 20% in più della media globale e ancora tutti hanno negli occhi e nei pensieri l’estate 2024. Un incubo. Con 100 città e paesi senza acqua, i cittadini di Gela che per mesi hanno aperto i rubinetti solo un giorno su tre, quelli di Caltanissetta, Agrigento e Enna a cui è andata anche peggio con le giornate scandite dai ritmi della distribuzione dell’acqua.

    Immagini dal drone  LEGGI TUTTO

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    Nelle case europee quasi 200 pesticidi “invisibili”: “Mix potenzialmente tossico”

    I pesticidi, o meglio gli agrofarmaci, continuano a genere preoccupazioni anche e soprattutto per la salute umana: pericolosi singolarmente ma anche e soprattutto nella loro reazione con altre sostanze chimiche, che ne può amplificare gli effetti, creando un potenziale cocktail tossico”.
    A rilanciare l’allarme è ora il Guardian, partendo dai risultati già noti di uno studio che ha esaminato la polvere delle case di dieci paesi europei, Italia compresa, rilevando più di 200 tipi diversi di pesticidi, il 40% dei quali dagli effetti altamente tossici. “Il numero dei pesticidi – spiega lo studio – variava di casa in casa, da un minimo di 25 e un massimo di 121, con numeri tendenzialmente più elevati nelle case degli agricoltori”.

    Inquinamento

    Sostanze tossiche nei parchi urbani? Ce lo dicono i ricci

    di Paolo Travisi

    17 Aprile 2025

    Mix di pesticidi
    “Diverse analisi epidemiologiche dimostrano che le malattie sono associate a miscele di pesticidi”, annota Paul Scheepers del Radboud Institute for Biological and Environmental Sciences. A favorire la penetrazione delle sostanze negli ambienti “indoor” sono anche la mancanza di alcune precauzioni (togliersi le scarpe o spolverare il giubbotto, per esempio) e il contributo degli animali domestici. “Del resto è da tempo noto che i pesticidi siano sostanze persistenti e pervasive. – spiega Franco Ferroni, responsabile agricoltura Wwf Italia – Ancora oggi i report Ispra restituiscono la presenza, nell’ambiente, di sostanze vietate da anni, dal para-diclorodifeniltricloroetano o DDT all’atrazina (diserbante clorotriazinico in passato usato per il mais, bandito in Italia a causa dell’inquinamento delle falde freatiche, ndr). Né si può dire che i sistemi di irrorazione digitale legati all’agricoltura di precisione, peraltro usati ancora molto marginalmente, stiano risolvendo il problema. Il punto – aggiunge – è come spiega lo studio citato dal Guardian, che il rischio di contaminazione investe anche aree limitrofe, come documentato per il Trentino Alto-Adige dallo studio di parchi pubblici e aree gioco vicine alle zone agricole con colture intensive. E, del resto, si sono trovati pesticidi anche ad altissima quota”.

    Allarme biodiversità: crolla il numero di uccelli negli ambienti agricoli. Ecco perché

    di Loredana Diglio

    22 Marzo 2025

    Sostanze trovate lontane dai campi agricoli
    Di recente, il Pesticide Action Network ha reso noto un recente studio condotto in 78 diverse località della Germania: anche in questo caso i dati mostrano come i pesticidi si diffondano molto più lontano dal campo di quanto si è creduto finora, anche a diverse centinaia di metri dai terreni agricoli. Non solo: lo studio ha attestato come anche aree remote, decisamente lontane dai campi trattati con pesticidi, non sono risultate prive di residui.

    Lo studio

    Polimeri “ecologici”, un nuovo studio smentisce: “I polyBFR sono pericolosi”

    a cura della redazione di Green&Blue

    05 Marzo 2025

    “Questo non è solo un problema agricolo, ma una realtà che riguarda tutte le persone che possono entrare in contatto con i pesticidi mentre fanno una passeggiata nei parchi giochi o nei giardini. – denuncia WWF Italia – Gli agricoltori, le loro famiglie e i vicini di casa sono particolarmente a rischio, così come i gruppi sensibili come bambini, donne incinte e anziani”. Enti di ricerca come l’Istituto Ramazzini hanno condotto studi tossicologici sui rischi del glifosato e degli erbicidi a base di glifosato, evidenziando che la sostanza è pericolosa anche a basse dosi.
    L’aiuto dell’intelligenza artificiale
    “Occorre la giusta attenzione, ma senza allarmismi, anche perché in Italia la situazione è meno critica che in Gran Bretagna. – sottolinea Matteo Guidotti, ricercatore all’Istituto di scienze e tecnologie chimiche del Cnr – Prima ancora delle norme, bisognerebbe investire nello sviluppo di sistemi analitici o di sensori di semplice utilizzo e a buon mercato: oggi la scienza è ampiamente in grado di cercare sostanze inquinanti fino a livelli minimi, anche molto al di sotto di un pericolo immediato per la salute umana, ma quanto è pensabile farlo tutti i giorni, in ogni area del Paese? E ancora: bisogna puntare sempre di più sull’uso di un’agricoltura che faccia affidamento di nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale, che consentirebbe un uso mirato e oculato dei fitofarmaci, con una riduzione degli sprechi, anche in termini di consumi idrici. Una piccola rivoluzione che in Italia, dove l’agricoltura abbraccia una costellazione di aziende soprattutto di piccole dimensioni, è particolarmente difficile”.
    Le preoccupazioni italiane
    Ma anche nel nostro Paese le pressioni aumentano. E la preoccupazione c’è. “Il nostro Paese è ancora senza un Piano di Azione Nazionale per l’uso sostenibile dei pesticidi, scaduto dal 2019 e mai rinnovato con disposizioni più stringenti come l’obbligo della distanza di sicurezza inderogabile di almeno 50 metri dalle abitazioni per i trattamenti fitosanitarie”, denuncia ancora Franco Ferroni, responsabile agricoltura Wwf Italia. “I singoli stati europei sono tenuti a recepire le direttive Ue, come la Direttiva 2009/128/CE che stabilisce le regole per un uso sostenibile dei pesticidi nell’Unione europea, soprattutto dopo il ritiro del regolamento europeo SUR che prevedeva la riduzione dell’uso del 50% dei pesticidi entro il 2030. – aggiunge – In più, si continua a ignorare il problema del multiresiduo: chiediamo da tempo che i limiti massimi per i pesticidi non riguardino i singoli principi attivi ma la somma dei trattamenti, anche per prevenire possibili escamotage degli agricoltori”. LEGGI TUTTO

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    Riciclo, downcycling e upcycling: qual è la differenza?

    “Il riciclo è una forma di conservazione e la conservazione è una forma di amore per la Terra”, ha affermato Gina McCarthy, ex amministratore dell’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti. Il riciclaggio consente, infatti, di trasformare un rifiuto in un nuovo oggetto, dando così nuova vita a ciò che non viene più utilizzato. Tuttavia, accanto a tale meccanismo esistono anche due alternative per gestire gli scarti: downcycling e upcycling. Mentre con il riciclo il prodotto viene trasformato per crearne uno con un valore simile, con questi processi il valore del bene finale può rispettivamente diminuire o aumentare.

    Downcycling
    Il termine downcycling si riferisce a un procedimento degradativo, in cui i materiali vengono riutilizzati, ma con una perdita di qualità e potenzialità. Molti prodotti vengono sottoposti a questa procedura perché la materia prima impedisce di mantenere la precedente longevità una volta riprocessata e non può, quindi, essere reinserita nel ciclo di vita originario. Un esempio è la plastica, che compone bottiglie in Pet, flaconi di detersivo, imballaggi: a ogni processo di riciclo si degrada sempre di più, riducendo la sua resistenza. Finisce così per essere usata in zerbini, moquette o pavimentazioni stradali. Questi derivati sono di rado riciclabili, il che significa che sarà, quindi, necessaria nuova plastica. Così il circuito virtuoso si interrompe, creando il cosiddetto ciclo aperto. Un altro esempio è quello del calcestruzzo frantumato in seguito alla demolizione di un edificio. Di solito viene impiegato come riempitivo stradale, un prodotto che, pur avendo il vantaggio di limitare l’uso di sabbia e ghiaia, è di complessità inferiore rispetto a quello originale. Un ulteriore esempio è quello della carta. Durante ogni processo di riciclaggio, le fibre che la compongono si accorciano progressivamente, limitandone gli utilizzi. La maggior parte della carta riciclata, inclusa quella di alta qualità, finisce, infatti, per convertirsi in cartone, carta velina o tovaglioli di carta. In sostanza, il downcycling degrada i materiali originari, senza tornare alla materia prima. Pur richiedendo comunque energia, tempo e manodopera, resta preferibile all’incenerimento o allo smaltimento in discarica. Tuttavia, sarebbe auspicabile puntare su riutilizzo diretto o ricondizionamento.

    Upcycling
    È, in sostanza, ciò che fa l’upcycling, termine utilizzato per la prima volta dall’ingegnere tedesco Reiner Pilz in un articolo del 1994 e diventato un concetto consolidato nel 2002, grazie al libro “Cradle to Cradle” di William McDonough e Michael Braungart. Si tratta, in questo caso, di trasformare materiali di scarto in prodotti con maggiore valore economico, estetico o funzionale rispetto all’originale. A differenza del downcycling, l’upcycling si basa su un ciclo chiuso, in cui i rifiuti vengono riutilizzati ripetutamente senza una significativa perdita di qualità. Gli esempi virtuosi non mancano. Tra questi, c’è The Upcycle, un laboratorio di Amsterdam, in Olanda, che organizza workshop per trasformare vecchi pneumatici in cinture, borse della spesa dismesse in quaderni, biciclette rotte in lampade e mobili. C’è poi Rebottled, azienda che ricicla bottiglie di vino vuote trasformandole in bicchieri di design, con un risparmio energetico di circa 63 megawattora, una quantità sufficiente per alimentare una piccola città. Oltre a ciò, questo sistema consente di ridurre fino al 70% le emissioni di anidride carbonica correlate alla produzione di materia prima vergine, senza contare che molti progetti hanno anche un impatto sociale positivo. Per esempio, alcune cooperative impiegano persone in condizioni di fragilità per realizzare prodotti upcycled, creando lavoro e inclusione. Un caso di questo tipo in Italia è Progetto Quid, che recupera tessuti di scarto per creare nuove collezioni, offrendo un’occupazione a donne svantaggiate.

    Strategie diverse
    L’upcycling rappresenta oggi una delle leve più promettenti per un’economia davvero circolare. Tuttavia, il principale problema resta la scalabilità: molte iniziative rimangono confinate a contesti artigianali o di nicchia e non sempre riescono a competere, per costi e quantità, con la produzione industriale tradizionale. Inoltre, la tracciabilità dei componenti è essenziale: senza conoscere esattamente la composizione e la storia del materiale di scarto è difficile garantire qualità e sicurezza del nuovo prodotto. Il downcycling, pur essendo meno virtuoso, resta ancora indispensabile in molti settori, in cui la qualità della materia prima è compromessa o non è possibile implementare cicli chiusi. In questo caso, l’obiettivo è ridurre al minimo la perdita di valore nelle fasi di lavorazione, magari utilizzando tecnologie avanzate di separazione e purificazione dei materiali. In sintesi, upcycling e downcycling non sono solo due strategie di gestione dei rifiuti, ma rappresentano visioni opposte del futuro dei prodotti. Una sfida destinata a diventare sempre più cruciale nei prossimi decenni, che si giocherà sull’innovazione, sull’ingegneria, sulla cultura industriale. LEGGI TUTTO

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    Il crollo dell’Impero Romano: tutta colpa della siccità

    Il crollo dell’Impero Romano? Tutta colpa della siccità. Almeno leggendo uno studio condotto dall’Università di Cambridge e pubblicato su Climatic Change, dal titolo “Siccità e conflitti nel tardo periodo romano”. Risultato di un intreccio tra ricerche su cambiamenti climatici, testi e reperti archeologici. Arrivando alla conclusione che le battaglie nell’Impero Romano d’Occidente erano profondamente legate […] LEGGI TUTTO

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    Classe energetica degli elettrodomestici: cosa sapere e come risparmiare

    Quando si acquista un elettrodomestico, uno degli aspetti più importanti da considerare è la classe energetica. Questo valore, che va dalla lettera A (più efficiente) alla G (meno efficiente), indica il consumo di energia di un apparecchio e ha un impatto significativo sulle bollette. Ma cosa indica esattamente la classe energetica? E come può aiutare a risparmiare?

    Cos’è la classe energetica degli elettrodomestici
    La classe energetica di un elettrodomestico è una valutazione che indica quanta energia consuma rispetto alla quantità di lavoro che svolge. Ogni apparecchio viene classificato su una scala che parte dalla classe A+++ (la più efficiente) fino alla classe G (la meno efficiente). La classe energetica è indicata su una etichetta energetica che accompagna ogni prodotto, rendendo facile confrontare l’efficienza dei diversi modelli.

    Come si legge l’etichetta energetica
    Lo strumento informativo che ti permette di fare scelte consapevoli è l’etichetta energetica. Su di essa troverai le seguenti informazioni: la classe energetica (dalla A+++ alla G), il consumo di energia (espresso in kWh, indica quanto consuma l’elettrodomestico in un anno o per un determinato utilizzo), il volume o capacità (ad esempio il volume di un frigorifero o la capacità di lavaggio di una lavatrice) e la rumorosità (espresso in decibel, sigla “dB”). Queste informazioni ti aiutano a fare una scelta consapevole, tenendo conto non solo del prezzo iniziale ma anche dei costi di utilizzo a lungo termine.

    Come scegliere elettrodomestici a basso consumo
    Quando si acquista un nuovo elettrodomestico, è importante tenere a mente alcuni fattori chiave per scegliere quello con la classe energetica migliore. È consigliabile, innanzi tutto, preferire gli elettrodomestici di classe A+++, ossia i più efficienti. Esistono anche modelli A++ e A+ che consumano un po’ più energia, pur rimanendo comunque ottimali. Investire in un modello più efficiente ti permette di ridurre il consumo di energia e, di conseguenza, di abbassare le bollette nel lungo termine. Importante, poi, valutare il consumo annuale: leggi attentamente il consumo annuale di energia riportato sull’etichetta, perché anche tra i modelli di classe A++ ci possono essere differenze nel consumo: un modello che consuma leggermente più energia ma ha un prezzo d’acquisto inferiore potrebbe non essere conveniente nel lungo periodo. Tieni conto anche alle tue esigenze personali: se una lavatrice ha un programma a bassa temperatura che consente di risparmiare energia, potrebbe essere una scelta migliore rispetto a una lavatrice più economica ma che richiede temperature elevate per un lavaggio ottimale. L’efficienza dipende anche dall’uso che farai dell’apparecchio. Controlla, infine, la durabilità dell’apparecchio (se scegli un modello con una maggiore efficienza, ridurrai anche i costi di riparazione e sostituzione nel lungo periodo).

    I vantaggi di scegliere elettrodomestici efficienti
    I vantaggi nello scegliere elettrodomestici efficienti sono diversi. Questione primaria è il risparmio energetico: scegliendo elettrodomestici a basso consumo, riduci il costo delle bollette. Sebbene l’investimento iniziale possa essere più alto, il risparmio nel tempo è significativo. Significativo anche l’impatto ambientale: un uso ridotto di energia non solo fa bene al tuo portafoglio, ma contribuisce anche a ridurre l’impronta ecologica. Meno consumo di energia significa meno emissioni di gas serra. Innegabili, infine, i maggiori comfort: scegliendo elettrodomestici moderni e più efficienti otterrai anche più silenzio e performance migliori. Potrai godere di un ambiente domestico più confortevole senza rinunciare alla qualità.

    Come risparmiare nella gestione degli elettrodomestici
    Oltre alla scelta degli elettrodomestici, una cosa importante per ridurre i costi è anche imparare ad usarli con consapevolezza: sostituire gli elettrodomestici obsoleti (diventano meno efficienti dopo 10 anni) e usarli con intelligenza (privilegiando le funzioni eco o avanzate che ottimizzano l’uso dell’energia e riducono i consumi) sono azioni che permettono di risparmiare nel lungo periodo. Importante anche una manutenzione regolare dei propri elettrodomestici: la pulizia dei filtri o la sbrinatura del frigorifero possono migliorare l’efficienza energetica degli apparecchi. Un frigorifero con il congelatore pieno lavora meglio, mentre una lavatrice pulita consuma meno energia. È possibile, infine, anche ottimizzare l’uso di energia accendendo gli elettrodomestici solo quando necessario. Un altro consiglio è quello di non lasciare apparecchi in stand-by, poiché consumano comunque energia. LEGGI TUTTO

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    Sostanze tossiche nei parchi urbani? Ce lo dicono i ricci

    I ricci di mare sono molto sensibili ai cambiamenti ambientali e vengono spesso usati come organismi “bioindicatori”. Come se fossero delle sentinelle marine. Seppur appartenenti a tutta altra specie, anche i ricci terrestri sembrano avere caratteristiche simili, secondo un recente studio condotto dai ricercatori dell’Università di Lund, in Svezia; raccogliendo questi piccoli mammiferi morti, sono risaliti alle cause del decesso e hanno iniziato ad indagare su una serie di inquinanti riscontrabili negli ambienti urbani. Gli spazi verdi delle città fungono da attrattiva per questi animali selvatici, che purtroppo devono fare i conti con materiali sintetici e sostanze chimiche. Veleno. Infatti, i ricci percorrono lunghe distanze – entrano ed escono da parchi e giardini ogni notte – alla ricerca di cibo, come insetti e altri invertebrati. Ma allo stesso tempo, sono particolarmente esposti ad alte concentrazioni di inquinanti che si trovano nell’ambiente: piombo, pesticidi, additivi plastici e metalli pesanti che sono elementi letali. A sorprendere gli scienziati svedesi, sono state proprio le cause all’origine della morte dei ricci: le elevate concentrazioni di alcuni metalli pesanti, tra cui il piombo.

    Ue: inquinamento in calo, ma non basta

    di Sibilla Di Palma

    08 Aprile 2025

    Per comprendere il fenomeno, i ricercatori di Lund hanno analizzato i corpi dei ricci morti, con l’obiettivo di capire quali fossero i fattori di rischio rintracciabili negli ambienti urbani, per noi umani ed abitanti delle città. “L’analisi dei ricci fornisce una sorta di impronta digitale ambientale dell’ecosistema di un’area. È molto difficile accedere a queste conoscenze, ma i ricci ci hanno permesso di ottenere una visione unica del tipo di inquinamento ambientale urbano che ci circonda”, spiega Maria Hansson, una delle ricercatrici. Il team dell’università di Lund ha coinvolto i cittadini nelle aree limitrofe della regione meridionale di Scania, chiedendo loro di segnalare la presenza di eventuali ricci morti. Il risultato del loro studio è piuttosto allarmante: hanno misurato la presenza di 11 elementi diversi, tra cui diversi metalli pesanti, e 48 inquinanti ambientali organici nei ricci morti. Un vero e proprio allarme. Ecco allora che lo studio è andato oltre e più in profondità, esaminando aculei e denti degli animali morti per verificare l’esposizione a lungo termine ai metalli pesanti, mentre per l’esposizione più breve a una serie di sostanze chimiche organiche ambientali, è stato esaminato il tessuto epatico. Dai risultati è emerso che i ricci presentavano alte concentrazioni di metallo pesante, come il piombo e contenevano diverse sostanze chimiche, come gli ftalati. Si tratta di composti chimici, usati principalmente come plasticizzanti, sostanze che rendono le materie plastiche più flessibili, morbide e lavorabili. I ftalati si possono trovare nella plastica PVC, cosmetici e prodotti per la cura personale, imballaggi alimentari, ma sono considerati elementi piuttosto controversi, perché perché alcuni di essi sono interferenti endocrini, cioè possono disturbare il sistema ormonale. Secondo la letteratura scientifica, infatti, potrebbero influenzare la fertilità, avere effetti negativi sullo sviluppo del feto e legami con l’asma e reazioni allergiche.

    Questi effetti nocivi sulla saluta umana, hanno portato in Europa e in molte altre parti del mondo, ad un uso limitato o addirittura vietato, soprattutto nei giocattoli e nei prodotti per bambini, e comunque ad essere oggetto di regolamentazione a livello Ue. E non è ancora tutto. I ricercatori hanno trovato anche pesticidi, ritardanti di fiamma bromurati, livelli elevati di altri metalli pesanti e idrocarburi policiclici aromatici . “Questo dimostra che gli ambienti urbani, dove oggi vive la maggior parte delle persone, potrebbero contenere una grande quantità di sostanze critiche che si sono dimostrate dannose per la salute. Queste sostanze problematiche provengono da materiali da costruzione, plastica, pesticidi, inquinamento atmosferico, rifiuti, traffico, veicoli e persino suolo contaminato”, spiega ancora la scienziata Maria Hansson. Lo studio dunque, pone l’accento sulla necessità di un maggiore monitoraggio ambientale del suolo nelle aree urbane, compresi giardini e parchi. E questo perché, i ricci come noi, sono mammiferi ed è preoccupante secondo gli autori dello studio “trovare sostanze che sono interferenti endocrini, cancerogene o che interferiscono con la riproduzione umana”. Ora il dilemma da risolvere è capire come i ricci siano stati influenzati, fino a morirne, da sostanze inquinanti. Infatti, ancora si sa molto poco su come le diverse specie animali, in particolare i mammiferi, siano colpite da sostanze pericolose. Anche perché, evidenziano i ricercatori “oggi vogliamo la natura nelle nostre città, quindi dobbiamo anche ridurre il rischio che gli organismi siano esposti alle sostanze chimiche contenute nei materiali e nei prodotti che scegliamo di utilizzare” LEGGI TUTTO

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    Data center e IA raddoppieranno il consumo di energia in appena 5 anni. E le emissioni inquinanti?

    Sempre più al centro della nostra vita, online e offline, ma anche sempre più energivora. E’ l’intelligenza artificiale. Secondo l’autorevole rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia – il primo dedicato agli impatti energetici dell’IA – entro i prossimi 5 anni, il 2030, raddoppierà la domanda energetica dei data center. Questi enormi centri di calcolo e storage di big data, infatti, sono alimentati a pane ed IA, motivo per cui i consumi energetici sono destinati a salire in modo importante. Il rapporto speciale dal titolo “Energy and AI” dell’AIE (da 302 pagine) offre un’analisi globale completa, basata sui dati finora disponibili sulle crescenti connessioni tra energia e IA. Il rapporto, infatti, è stato realizzato basandosi su nuove serie di dati e su un’ampia consultazione con i responsabili politici, il settore tecnologico, l’industria energetica ed esperti internazionali. Numeri alla mano, solo lo scorso anno, i data center rappresentavano l’1,5% del consumo mondiale di elettricità, circa 415 terawattora, ma calcolando che negli ultimi cinque anni l’aumento è stato del 12%, è lecito supporre che l’intelligenza artificiale spingerà il motore ai massimi regimi. Infatti le stime sono più del doppio: 945 terawattora entro il 2030, poco più dell’intero consumo di energia elettrica di un paese come il Giappone.

    Lo studio

    L’intelligenza artificiale è assetata di acqua. Per ogni conversazione se ne consuma una bottiglietta

    Gabriella Rocco

    22 Marzo 2024

    A guidare la spinta energivora saranno gli Stati Uniti, in cui il consumo dei data center è destinato a rappresentare quasi la metà della crescita della domanda di elettricità da qui ai prossimi 5 anni. Il 2030 è ritenuto l’anno in cui l’economia statunitense consumerà più elettricità per l’elaborazione dei dati, che per la produzione di tutti i beni ad alta intensità energetica messi insieme: compresi alluminio, acciaio, cemento e prodotti chimici. E questo ha dell’incredibile, considerando che stiamo parlando di consumi da industria pesante, ben più parca nel consumare energia, rispetto al mondo immateriale dell’IA. Per capire il livello di consumo di un centro di elaborazione dati, è bene sapere, che un data center da 100 megawatt può consumare la stessa quantità di elettricità che serve a 100.000 famiglie in un anno intero. Ma più saranno grandi, e lo saranno, e più consumeranno. Di più. In questa impennata del consumo energetico, si stima che all’interno delle economie avanzate, i centri di elaborazione dati determineranno oltre il 20% della crescita della domanda di elettricità nel prossimo quinquennio. Per soddisfare queste sete interminabile di energia, senza aumentare le emissioni inquinanti, si dovrà fare sempre più ricorso a energie pulite, rinnovabili principalmente, ma è inevitabile che anche il gas naturale giochi un ruolo importante per la sua facile disponibilità nei mercati chiave. Ma non si farà a meno del carbone, secondo l’AIE, che attualmente soddisfa il 30% del fabbisogno dei data center.

    L’intelligenza artificiale “divora” energia con un impatto ambientale insostenibile

    a cura della redazione di Green&Blue

    21 Marzo 2025

    Intanto alcune big del tech, una su tutte, Google, ha stretto accordi per alimentare parte delle proprie infrastrutture con energia proveniente da piccoli reattori nucleari, così come sta pensando di fare anche Microsoft e Amazon, che si muovono sulla stessa direttrice per sostenere l’alimentazione dei loro data center. Stiamo parlando del cuore della tecnologia del mondo. Purtroppo, (o per fortuna, lo dirà la storia) l’intelligenza artificiale generativa che crea contenuti incredibili avendo imparato da miliardi di dati a disposizione, è gratuita per gran parte degli utenti, ma consuma. E tanto, perché la capacità di calcolo è alimentata da big data ed energia. Ogni nostra richiesta sui motori di ricerca o su ChatGPT o Gemini, solo per citare i più noti, richiede energia continuamente. La rapida crescita dei data center potrebbe portare a un aumento del 67% delle emissioni legate all’elettricità entro il 2035, passando dagli attuali 180 milioni di tonnellate di CO2 a 300 milioni di tonnellate, comunque una quota minima rispetto ai 41,6 miliardi di tonnellate di CO2 delle emissioni globali stimate nel 2024. Ma l’incremento potrebbe essere “potenzialmente compensato dalle riduzioni di emissioni consentite dall’IA stessa se l’adozione della tecnologia sarà diffusa”. Come? Questa tecnologia consente di accelerare la ricerca scientifica, per cui potrebbe portare innovazione rapidamente nello sviluppo di batterie e di fotovoltaico. “L’intelligenza artificiale è oggi una delle storie più importanti del mondo dell’energia, ma finora i responsabili politici e i mercati non avevano gli strumenti per comprenderne appieno l’ampio impatto”, ha dichiarato il direttore esecutivo dell’AIE, Fatih Birol. Ora gli strumenti ci sono. LEGGI TUTTO

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    In Europa ci stiamo adattando più velocemente al freddo estremo che al caldo

    Estati torride, ondate di freddo invernale. Le temperature europee sono destinate a cambiare sempre più rapidamente nei prossimi decenni, e la capacità di adattarsi agli estremi climatici sarà, di conseguenza, sempre più essenziale. Come ce la stiamo cavando? La risposta arriva da una ricerca guidata dall’Istituto per la Salute Globale di Barcellona, che sulle pagine di Lancet Planetary Health ha analizzato l’andamento degli eccessi di mortalità in Europa nell’arco degli ultimi 20 anni, rivelando una riduzione sia nel corso delle ondate di caldo che nei picchi di freddo, più significativa però nel caso delle basse temperature. Lo studio ha analizzato i dati di mortalità di 800 aree di 35 paesi europei raccolti tra il 2003 e il 2020, ed è stata realizzata utilizzando la potenza di calcolo del Barcelona Supercomputing Centre. L’analisi è stata effettuata utilizzando un nuovo metodo, basato su quello che i suoi autori hanno battezzato Extreme-Risk Temperature, o temperature di rischio estremo, un sistema di soglie mobili che determina i picchi di temperatura pericolosi per ogni regione in base ai dati epidemiologici degli ultimi decenni.

    I dati

    Marzo il mese più caldo d’Europa e ghiaccio marino artico più basso d’inverno

    a cura della redazione di Green&Blue

    08 Aprile 2025

    In questo modo, la ricerca ha potuto comparare la situazione in paesi e aree diverse del continente, impresa impossibile da raggiungere utilizzando soglie di temperatura fisse (zero gradi, d’altronde, sono cosa ben diversa in Norvegia o in Sicilia). In assoluto, nel periodo studiato l’Europa ha sperimentato 2,07 giorni di basse temperature di rischio estremo in meno ogni anno, mentre quelli di alte temperature a rischio sono aumentati di 0,28 giorni l’anno. Nelle zone sudorientali del continente, però, la situazione è risultata ben diversa, con un aumento sia dei giorni a rischio sia per il freddo, che per il caldo. L’analisi comunque conclude che in Europa nel ventennio studiato la mortalità in eccesso causata dalle ondate di freddo è diminuita del 2% ogni anno, mentre quella legata al caldo è calata, sì, ma solo dell’1% annuo. “I nostri risultati mostrano che, sebbene l’Europa abbia compiuto notevoli progressi nell’adattamento al freddo, le strategie per affrontare la mortalità correlata al caldo sono state meno efficaci”, commenta Zhao-Yue Chen, ricercatore dell’Istituto per la Salute Globale di Barcellona che ha guidato lo studio. “Il nostro studio evidenzia la necessità di maggiori progressi nelle attuali misure di adattamento al caldo e nei piani d’azione per la salute e il caldo. Allo stesso tempo, le disparità spaziali osservate sottolineano la necessità di strategie specifiche per regione al fine di proteggere le popolazioni vulnerabili”.

    Lo studio ha inoltre analizzato la frequenza con cui le temperature a rischio si sono verificate in giorni in cui i livelli di inquinamento superavano i limiti raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In media, è avvenuto nel 60% dei giorni di caldo estremo e nel 65% di quelli di freddo estremo. Nel corso del tempo la co-occorrenza di estremi di temperatura e picchi di inquinamento è diminuita, ad eccezione di quella tra giorni pericolosamente caldi e alti livelli di ozono (O3), aumentata invece a un ritmo di 0,26 giorni all’anno. “Con l’intensificarsi del riscaldamento globale, gli episodi combinati di caldo e ozono stanno diventando una preoccupazione inevitabile e urgente per l’Europa”, conclude Zhao-Yue Chen. Dobbiamo tenerlo in considerazione, e sviluppare strategie specifiche per affrontare gli inquinanti secondari come l’ozono, perché temperature estreme e inquinamento atmosferico non sono completamente indipendenti per quanto riguarda il loro impatto sulla salute, anzi, possono interagire tra loro amplificando i reciproci effetti nocivi”. LEGGI TUTTO