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    Pilea, come prendersi cura della “pianta delle monete”

    La pilea o pianta delle monete è una perenne di origine cinese che, oramai, è possibile coltivare con facilità in casa. Ecco tutto quello che c’è da sapere sulla cura della pilea o pianta delle monete.
    La cura della pilea o pianta delle monete
    La pilea o pianta delle monete, appartenente alla famiglia delle urticaceae, deve il nome al suo aspetto: infatti, si presenta con foglie di forma arrotondata che, in un certo senso, ricordano proprio le monete. È una pianta con fusti carnosi e foglie succulenti distribuite a spirale. Queste possono avere un diametro tra gli 8 e 12 centimetri. La pianta perenne gradisce aree dove l’illuminazione è indiretta: a tal proposito, è meglio selezionare delle zone dell’abitazione o dell’ufficio a mezz’ombra oppure dove la luce è filtrata per via di una tenda. La luce diretta del sole può danneggiare la pianta, bruciando le foglie e causando anche la comparsa di macchie gialle.

    Per quanto riguarda le condizioni climatiche, invece, la pilea gradisce temperature comprese tra i 15°C e i 25°C. La pianta delle monete resiste a temperature basse fino ai 5°C, ma sopporta le gelate. A tal proposito, è meglio evitare di sistemare la pianta all’aperto, poiché si rischia di debilitarla o metterla in pericolo. Anche in caso di temperature superiori ai 30°C la pianta può subire danni: infatti, le foglie iniziano a deformarsi assomigliando a degli ombrelli.

    I fiori
    La pianta della pilea è in grado di sviluppare fiori. Si tratta di elementi floreali che non hanno una vera e propria importanza. Infatti, si tratta di fiorellini con 3-4 petali che si collocano alle ascelle foliari. È possibile assistere alla fioritura di questa pianta con il sopraggiungere della primavera: i suoi fiorellini poco appariscenti sono di colore bianco, giallo e rosa.

    Le varietà della pilea
    Questa pianta tropicale propone una famiglia davvero molto ampia: infatti, è possibile trovare molte varietà di pilea comuni tra le 600 e più specie disponibili in natura. Alcune di queste piante si contraddistinguono per una peluria urticante posta proprio sotto alle foglie che, se toccata, porta a un’irritazione della pelle. Qui di seguito ecco le varietà di pilea che si possono trovare in commercio:

    Pilea peperomioides: è la più famosa tra tutte e si può moltiplicare facilmente attraverso le talee in acqua o in terra. Le foglie sono grandi, tonde e verdi.
    Pilea mollis e Pilea involucrata: la prima è la cultivar della involucrata e si presentano simili tra di loro. Sono originarie dell’America meridionale e gradiscono elevata umidità per un’ottima cura. Le foglie sono di un verde brillante e compaiono venature marroni, mentre la parte inferiore è viola-rossa.
    Pilea microphylla: detta pianta artigliera o polvere da sparo, è meno nota tra le piante d’appartamento, ma si adatta alla perfezione. Le foglie sono molto piccole, carnose e rotonde con fiori di colore verde che espellono semi e polline.
    Pilea depressa: è pianta che si adatta molto all’umidità presente in casa. Si presenta con foglie piccole più di un’unghia, di colore verde brillante e sono carnose. È possibile replicare la pianta facilmente. È un’ottima pianta da coltivare con vaso sospeso, poiché i suoi steli sono pendenti.

    Il miglior terreno per la sua coltivazione
    Per quanto riguarda il tipo di terreno per la pilea ti suggeriamo di utilizzare terriccio sciolto e drenante: in questo modo, si evita di incorrere in problemi di ristagni idrici. È consigliato miscelare con il terriccio anche della pomice per una migliore crescita della pianta.

    La corretta irrigazione
    La pilea è una pianta che ama i terreni ben drenati: proprio per questo, suggeriamo di evitare annaffiature troppo abbondanti. La pianta delle monete gradisce irrigazione moderata e, proprio per questo, è importante controllare lo stato del terreno prima di procedere con l’annaffiatura della stessa. In questa maniera, si possono evitare i ristagni idrici: annaffiare le piante ogni 2-3 giorni è l’abitudine migliore da adottare.

    La concimazione
    Chi desidera fertilizzare la pianta delle monete può farlo durante la primavera-estate, sospendendo in inverno: suggeriamo l’uso di un concime liquido per piante d’appartamento. In questo modo, è possibile diluire il fertilizzante, offrendo alla pianta il giusto quantitativo di nutrimento. È importante seguire attentamente le indicazioni del concime selezionato per evitare qualunque interferimento con la crescita della pianta. In caso di troppo fertilizzante si rischia anche di compromettere la vita della pianta, portandola alla morte.

    Che cosa significa se le foglie sono abbassate?
    Quando si notano delle foglie della pilea abbassate vuol dire che la pianta è stata esposta a temperature troppo elevate. Come sottolineato in precedenza, la pilea o pianta delle monete non gradisce il caldo eccessivo e lo stesso può anche causare un abbassamento delle foglie, facendole perdere il tipico aspetto per cui la pianta è definita a moneta.

    Il rinvaso e la potatura
    Rinvasare questa pianta è facile ed è necessario solo quando l’apparato radicale della stessa lo richiede, poiché troppo fitto. Ad inizio primavera si può effettuare il controllo dell’apparato radicale, così da capire se è necessario procedere con il rinvaso. È importante selezionare un contenitore di dimensioni leggermente maggiori rispetto al vaso precedente. La pianta delle monete non necessita di potatura, ma solo dell’eliminazione delle parti secche o danneggiate.

    La propagazione per talea
    Occupandosi della potatura di questa pianta è possibile conservare i rametti buoni per propagare la pianta. In questo modo, grazie ai ritagli è possibile ottenere delle nuove piantine da far germogliare in vaso con terreno umido. In circa 2 settimane è possibile notare già la presenza di nuove radici, così da sistemare al meglio la piantina della pilea.

    Le malattie e i parassiti più pericolosi per la pianta
    La principale malattia in cui può incorrere la pilea è da ricondursi ad annaffiature eccessive: infatti, gli eccessi idrici possono far sviluppare marciume radicale che fa ammalare la pilea o la portano a morte. Inoltre, umidificare le foglie è pericoloso poiché si possono sviluppare malattie fungine. Si possono osservare determinati cambiamenti dei colori delle foglie in presenza di parassiti: per esempio, gli afidi possono rendere gialle le foglie, mentre la comparsa della mosca bianca fa apparire macchie bianche sulla superficie superiore della foglia. In tutti i casi è bene intervenire con l’utilizzo di spray insetticida che possono far scomparire il problema. LEGGI TUTTO

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    Il Messico include la protezione degli animali nella Costituzione

    Il Messico inserisce per la prima volta la protezione degli animali nella Costituzione. Il provvedimento, approvato all’unanimità da Camera (449 voti favorevoli) e Senato (117 sì) e in seguito anche da 17 Congressi locali, è stato il frutto di anni di campagne e mobilitazioni da parte delle associazioni animaliste e dei cittadini, che hanno chiesto a gran voce più tutele per gli amici a quattro zampe.

    Dai maialini ai cani randagi
    Una decisione storica, fondamentale in un Paese che è uno dei maggiori esportatori di carne nel mondo e in cui allevamenti intensivi e macelli sono molto diffusi. Qui, come ha più volte denunciato Animal Equality, le violenze e i maltrattamenti sono all’ordine del giorno. Accanto a polli e suini sfruttati a scopo alimentare, ci sono anche cani e gatti randagi costretti a sopportare crudeltà, malattie, abbandono e i numerosi esemplari selvatici minacciati dal commercio illegale. Secondo l’Istituto nazionale di statistica e geografia, ben sette animali su dieci subiscono abusi, rendendo la nazione la terza al mondo per casi di violazione dei loro diritti. A oggi solo lo 0,01% dei responsabili viene punito.

    Il caso

    La ministra austriaca che ha salvato la natura in Europa, ed ora rischia una denuncia

    di Luca Fraioli

    18 Giugno 2024

    Tre articoli modificati
    In concreto, la riforma introduce modifiche significative a tre articoli della Carta. Si tratta dell’articolo 3 che stabilisce che “i piani di studio scolastici dovranno includere contenuti relativi alla tutela degli animali, promuovendo una cultura di rispetto e responsabilità”; dell’articolo 4 che vieta “il maltrattamento degli animali” precisando che “lo Stato messicano si deve impegnare a garantire loro protezione, trattamento adeguato, conservazione, cura”; dell’articolo 73, secondo il quale il Congresso dell’Unione, ovvero il Parlamento, “avrà il potere di legiferare in materia di protezione e benessere degli animali, creando un quadro normativo completo e specifico”. In particolare, l’impegno è quello di emanare un’apposita legge entro 180 giorni dall’entrata in vigore della riforma.

    Una sfida che deve continuare
    A esprimere soddisfazione per il risultato è José Máximo García López, senatore del Partito d’azione nazionale: “La protezione giuridica degli animali è una questione etica e morale, che deve essere considerata prioritaria in una società che aspira allo sviluppo e all’equità”. Lisandro Morales Silva, opinionista del quotidiano El Universal, va coi piedi di piombo. “La vera sfida sarà passare dalla carta all’azione”, sostiene, “soprattutto in un Paese in cui comportamenti tradizionali e interessi economici spesso si scontrano con le norme progressiste. La vera battaglia sarà combattuta nelle leggi secondarie, dove si deciderà quali tradizioni preservare e come regolarle e in che modo allocare le risorse”. Sulla stessa scia gli esperti di Animal Equality, che affermano: “Sono stati compiuti passi avanti significativi, il lavoro però non è finito”. È allora importante che continui perché, come scrisse il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, “il presupposto che gli animali non abbiano diritti e l’illusione che il modo in cui li trattiamo non abbia alcuna importanza morale è un esempio scandaloso di crudezza e barbarie”. LEGGI TUTTO

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    Le ondate di calore (e il meteo estremo) fanno crescere il food delivery

    Che tempo fa? Ci poniamo, chi più chi meno, questa domanda di continuo per pianificare i nostri weekend, le passeggiate al mare, la corsa al parco o semplicemente l’uscita a pranzo o a cena. Perché il bello e il cattivo tempo influenzano anche la nostra propensione a uscire, è fuor di dubbio. C’è chi ha analizzato le nostre scelte in materia, osservando come, in particolare, quando fa tanto caldo aumenta la richiesta di cibo da asporto. Al punto che questo trend nel food delivery dovrebbe essere annoverato tra i fattori influenzati da ondate di calore e cambiamenti climatici.

    A renderlo noto è un lavoro scientifico pubblicato sulle pagine di Nature cities che ha messo in correlazione le richieste di food delivery con le temperature di un centinaio di città cinesi tra il 2017 e il 2023. I risultati, come anticipato, mostrano che più fa caldo, più aumentano le richieste di cibo d’asporto, con crescite di oltre il 20% quando ci si avvicina ai 40°C, soprattutto a pranzo. Dietro questa impennata, spiegano gli autori sparsi tra Regno Unito e Cina, ci sono alcune categorie di persone soprattutto: donne, anziani e benestanti.

    Clima

    Ondate di calore, siccità, incendi e alluvioni: perché è colpa del cambiamento climatico

    di  Pasquale Raicaldo

    15 Novembre 2024

    Quanto osservato è un dato che ha implicazioni sotto diversi punti di vista. Oltre a ricordarci che gli effetti dei cambiamenti climatici possono modificare anche diversi aspetti della nostra vita, mette in luce ancora una volta le contraddizioni e le criticità che circondano i lavoratori del settore. Le immagini dei rider sotto l’alluvione di ottobre sono storia recente. Le uscite con le temperature sotto zero o, di contro, schizzate intorno ai 40°C, sono l’altra faccia del problema. Se infatti, grazie al food delivery, c’è chi può permettersi di non uscire, e quindi di evitare di esporsi al disagio e ai rischi del caldo, spiega Pan He dalla Cardiff University, tra gli autori del paper, c’è chi non ha molta scelta. “Una parte considerevole del rischio di esposizione al calore viene trasferita ai corrieri, evidenziando una notevole disuguaglianza sociale in queste pratiche”.

    Lo studio su Nature Cities diventa così un nuovo appello a considerare le condizioni in cui operano i rider, con un chiaro invito da parte degli autori ai decisori politici affinché prendano misure a sostegno di questa classe dei lavoratori, anche per proteggerli dagli effetti delle ondate di calore. Le soluzioni proposte dai ricercatori sono diverse: indennità, assicurazioni sanitarie ad hoc, formazione mirata per identificare e mitigare i rischi, ma anche aree di sosta refrigerata, o ancora droni e veicoli a guida autonoma.

    Il report

    Cambiamenti climatici: mai così forte l’impatto sulla salute globale

    di  Simone Valesini

    30 Ottobre 2024

    D’aiuto sarebbe di certo anche una maggiore consapevolezza e comprensione da parte degli utenti stessi, come auspicato dai lavoratori stessi. E non solo per risparmiare loro condizioni meteo estreme e pericolose. Affidarsi sempre di più al food delivery rischia di essere un boomerang per l’ambiente anche per i rischi legati all’inquinamento degli imballaggi dei cibi, concludono gli autori. LEGGI TUTTO

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    Pfas nei cinturini degli smartwatch in fluoroelastomero: meglio sceglierli in silicone

    A seconda delle società di analisi e indagini di mercato, di smartwatch se ne vendono circa 180 milioni di pezzi all’anno. Nei tanti fattori di forma, con funzionalità anche molto lontane fra i diversi modelli e con pretese, per così dire, molto varie, questi dispositivi indossabili sono diventati onnipresenti e per molti essenziali nell’accompagnamento delle proprie giornate – e anche delle notti, considerando la possibilità di monitorare tempo e qualità del riposo. Tuttavia, secondo uno studio pubblicato su Environmental Science & Technology Letters, potrebbero esporci in alcuni casi ai cosiddetti “forever chemicals”, gli PFAS – cioè i circa 9mila composti chimici adoperati per realizzare prodotti resistenti all’acqua e ai grassi definiti “inquinanti eterni” – diffusi e presenti d’altronde in decine di categorie merceologiche. Non è certo, insomma, un discorso che riguardi la nicchia degli smartwatch.

    Parliamo soprattutto dei cinturini. Secondo l’indagine, i braccialetti più costosi realizzati in gomma sintetica fluorurata conterrebbero quantità particolarmente elevate di una sostanza chimica eterna, l’acido perfluoroesanoico (PFHxA) che è stato poi il principale indagato del lavoro firmato da Alyssa Wicks, Heather D. Whitehead e Graham F. Peaslee dell’università di Notre Dame, in Indiana. “Questa scoperta si distingue per le concentrazioni molto elevate di un tipo di sostanza chimica che rimane inalterata negli oggetti che restano a contatto prolungato con la nostra pelle” ha spiegato Peaslee, autore corrispondente dello studio. I PFAS sono stati collegati da numerose indagini al cancro e all’infertilità, oltre che a diverse altre patologie, da quelle del fegato a quelle renali passando per lo sviluppo dei feti: già dai primi stadi dello sviluppo fetale l’esposizione a queste sostanze chimiche sarebbe infatti in grado di alterare il metabolismo e di accumularsi nel fegato.

    Salute

    Pfas, dalla carta da forno all’acqua: indistruttibili e (quasi) inevitabili

    di  Pasquale Raicaldo

    07 Novembre 2024

    Il punto, insomma, sono i materiali impiegati per produrre i cinturini. Le fasce contengono fluoroelastomeri, gomme sintetiche ricavate da catene di PFAS, così da non scolorirsi e respingere al massimo la sporcizia. Sono prodotti ideali per gli allenamenti sportivi e per le attività outdoor ma – questa la tesi dell’indagine – potrebbero anche rappresentare una fonte di questi composti che finirebbero per penetrare sotto la pelle di chi le indossa.

    Le sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche sono d’altronde molto efficaci in due missioni: durare apparentemente per sempre e respingere acqua, sudore e grassi. Per questo sono sostanze che vengono sfruttate in modo trasversale in molti prodotti di consumo, dalla biancheria da letto antimacchia ai prodotti mestruali, dalle pentole fino all’abbigliamento per il fitness, tra cui smartwatch e braccialetti fitness tracker. Il problema con i PFAS non è solo nell’esposizione diretta: la loro degradazione può contaminare falde acquifere e terreni fino a entrare nella catena alimentare. L’inchiesta The Forever Pollution Project, condotta lo scorso anno da un consorzio di 18 redazioni europee, aveva non a caso individuato l’esistenza di più di 17mila siti contaminati da PFAS in tutta Europa.

    Peaslee, Wicks e Whitehead hanno esaminato diversi cinturini per orologi disponibili in commercio per la presenza di fluoro e di 20 PFAS specifici. Il team ha esaminato 22 cinturini da polso di una serie di marche e di diverse fasce di prezzo, la maggior parte dei quali appena acquistati ma alcuni indossati in precedenza. Tutti i 13 cinturini pubblicizzati come realizzati in fluoroelastomero contenevano l’elemento fluoro. Ma due dei nove cinturini che non pubblicizzavano come realizzati in fluoroelastomero contenevano in realtà anch’essi fluoro, il che indica la potenziale presenza di PFAS.

    Ambiente e salute

    Basta bottiglie di plastica, inquinano e contengono inquinanti

    di  Anna Lisa Bonfranceschi

    25 Settembre 2024

    “Tra quelli testati, i braccialetti che costavano più di 30 dollari contenevano più fluoro di quelli sotto i 15 – ha commentato Phys.com riportando l’indagine – successivamente, dopo un’estrazione chimica, tutti i braccialetti sono stati controllati per 20 diversi PFAS. PFHxA è risultato essere il più comune, presente in nove dei 22 braccialetti testati. La concentrazione mediana di PFHxA è risultata essere di quasi 800 parti per miliardo (ppb) e un campione ha superato i 16.000 ppb”. Giusto per farsi un’idea, una precedente ricerca del team nel 2023 sui cosmetici aveva rilevato una concentrazione media di circa 200 ppb di PFAS.

    I ricercatori, che sottolineano come concentrazioni di Pfas superiori alle 1.000 parti per miliardo non fossero mai state osservate prima in un bene di consumo, suggeriscono che le grandi quantità di PFHxA trovate nei braccialetti potrebbero essere il risultato dell’uso del composto come tensioattivo durante il processo di produzione del fluoroelastomero da cui verrà poi confezionato il cinturino. Al momento non si sa con precisione con quanta facilità il PFHxA si trasferisca alla pelle, né si conoscono i potenziali effetti sulla salute che comporti una volta che penetri nell’organismo, sebbene Peaslee affermi che studi recenti suggeriscono come una percentuale significativa potrebbe passare attraverso la pelle umana in condizioni normali.

    Unione Europea

    Pfas, le nuove regole Ue sulle sostanze pericolose per l’ambiente e la salute

    di  Cristina Bellon

    24 Settembre 2024

    Wicks, principale autrice dello studio, dà una prima soluzione: meglio acquistare braccialetti più economici – molti se non tutti gli smartwatch consentono di sostituirli a piacimento – realizzati in silicone. “Se il consumatore desidera acquistare un braccialetto più costoso, suggeriamo di leggere le descrizioni dei prodotti ed evitare quelli elencati come contenenti fluoroelastomeri” ha spiegato. LEGGI TUTTO

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    La mappa dei cetacei nel Mediterraneo la disegnano i ricercatori in “crociera”

    Sulle rotte dei cetacei. Osservati da un team di ricercatori a bordo dei traghetti delle grandi compagnie di linea nelle aree off-shore del Mediterraneo. Per una mappa della biodiversità che promette di restituire risposte alle domande più attuali: il delfino comune è ancora a rischio? E dove si spostano grampi, zifi e globicefali? Alla fine del terzo anno del progetto europeo Life Conceptu Maris, dedicato alla conservazione di cetacei e tartarughe nel Mar Mediterraneo, c’è una mole di dati – seimila osservazioni totali – che attende di essere interpretata. “Ma abbiamo già dei primi, significativi riscontri”, spiega a Green&Blue Antonella Arcangeli, coordinatrice del progetto, ricercatrice di Ispra, capofila della ricerca che coinvolge una serie di enti e istituti di ricerca di Italia, Francia e Spagna. Si è delineata, per esempio, l’importanza di alcune aree chiave per i cetacei, osservati con maggiore frequenza e intensità: sono il Santuario Pelagos, tra Corsica e Liguria, il Tirreno centrale, il Mediterraneo del Nord Ovest, di fronte alla costa francese, il Corridoio Spagnolo di Migrazione dei Cetacei, stretto tra le Isole Baleari e la costa spagnola, e il Mare di Alboran con lo Stretto di Gibilterra, compreso tra la Spagna e il Marocco.

    Tursiopi e stenelle, che boom
    Tursiope e stenella striata sono le specie più diffuse e osservate, nel Mediterraneo occidentale – lungo la costa spagnola – c’è la roccaforte del delfino comune; nel Santuario Pelagos concentrazioni significative di balenottera comune, osservata in 1100 occasioni (su un totale di 4000 osservazioni di cetacei). Meno frequente l’altro gigante del Mediterraneo, il capodoglio (95 osservazioni): numeri che tuttavia trovano risposta nell’etologia del cetaceo, meno “avvistabile” in superficie a causa della lunga durata delle sue immersioni, anche più di un’ora. “Abbiamo un numero di dati rilevante, e per la prima volta in modo così sistematico si inizia a colmare il gap di conoscenza sui cetacei in ambiente pelagico. – annota Arcangeli – E la conoscenza è un tassello fondamentale per promuoverne la conservazione”. Molti, ancora, gli enigmi da chiarire. “Perché molte specie compiono migrazioni non prevedibili, interrogarsi sui motivi della loro dispersione e concentrazione è utile a comprendere se alla base di alcune rarefazioni c’è l’uomo”, aggiunge la ricercatrice.

    Biodiversità

    Mappato il rischio di collisione tra balene e navi negli oceani

    di redazione Green&Blue

    22 Novembre 2024

    Se il globicefalo prende il largo
    C’è ad esempio il caso di grampi, zifi e globicefali, questi ultimi osservati in buon numero nel Santuario Pelagos e, in parte, lungo le coste francesi e spagnole: “Secondo la letteratura scientifica, tutte e tre le specie in questione prediligono i canyon sottomarini o le cosiddette scarpate, mentre invece stiamo registrando uno spostamento verso aree più pelagiche, più a largo”. Si allontanano dalle coste, insomma. Già, ma perché? “Abbiamo diverse ipotesi. – spiega la cetologa – Potrebbe essere una risposta al disturbo antropico (il diportismo in crescita, per esempio, ndr), ma anche l’evidenza di cambiamenti negli ecosistemi, legati per esempio al cambiamento climatico”. Per diradare i dubbi potrebbe essere così decisiva l’attività prevista nell’ultimo anno del progetto, il 2025, quando arriveranno i riscontri del Dna ambientale: “Già, per la prima volta le osservazioni visive saranno integrate con i dati che otterremo grazie alle nuove tecniche genomiche, il Next Generation Sequencing, che ci consentono di rilevare contemporaneamente la presenza di più specie di vertebrati che abitano gli ecosistemi, a partire dalle sole matrici ambientali. – spiega la coordinatrice del progetto – Avremo un quadro complessivo, che ci aiuterà a leggere anche ciò che accade di notte, quando non possiamo osservare cetacei”.

    Biodiversità

    Le balene scambiano i rifiuti di plastica per calamari. Una drammatica somiglianza

    di  Paolo Travisi

    29 Ottobre 2024

    Le tartarughe marine vanno verso Nord
    Bisognerà dunque attendere per avere nuove risposte. Ma non mancano alcune evidenze. La più nitida riguarda le tartarughe marine, Caretta caretta in primis: com’è noto, negli ultimi anni hanno conosciuto un incremento costante delle nidificazioni lungo le coste sabbiose italiane. E gli ultimi dati raccolti dal progetto Life Conceptu Maris, con più di 2000 segnalazioni in tre anni, aiutano a comprendere meglio distribuzione e spostamenti, tendenzialmente verso nord a causa del riscaldamento delle acque superficiali. Con un hostpot di riferimento individuato in mare aperto nel Tirreno Meridionale, attorno al vulcano sottomarino Marsili, 450 metri sotto il livello del mare. Qui, a quanto pare, le correnti circolari creano zone di convergenza, favorendo la concentrazione dei nutrienti. “Ecco perché – spiega Arcangeli – il numero di individui adulti in queste aree è sorprendentemente alto ed i monitoraggi, condotti nel corso di tutte le stagioni, hanno consentito di acquisire le prime informazioni sulla localizzazione delle aree di accoppiamento della Caretta caretta in mare aperto”.

    Un decalogo per gli ufficiali di comando: così si salvano i cetacei
    L’idea di sfruttare i traghetti commerciali come vere e proprie navi da ricerca è stata determinante. Il team sale a bordo delle compagnie Grimaldi Lines, Minoan Lines, Corsica&Sardinia Ferries, Tirrenia, Balearia, Grandi Navi Veloci. Ogni osservazione amplia il database e approfondisce la conoscenza della specie. E la ricerca conferma che cetacei e tartarughe marine affrontano una serie di minacce, nel Mar Mediterraneo: dalle catture accidentali della pesca industriale o artigianale, all’inquinamento marino causato dai rifiuti plastici (la cosiddetta marine litter) fino al rischio, concreto, di collisioni con le navi, particolarmente consistente lungo rotte marittime trafficate come quelle del Santuario Pelagos. Per questo, il progetto si è tradotto anche in un corso di formazione rivolto a cento ufficiali dei ponti di comando delle compagnie di navigazione coinvolte: “Abbiamo spiegato loro come una navigazione più attenta e consapevole da parte degli equipaggi aiuti a proteggere cetacei e tartarughe marine”, spiega la ricercatrice. LEGGI TUTTO

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    Dal clima alle pandemie, cosa ci aspetta nel 2025 secondo “Science”

    Per l’ambiente e per la scienza, che anno sarà? Il 2025 si apre con sfide importantissime per il futuro della salute della Terra. Quest’anno, entro fine febbraio, decine di Paesi del mondo sono chiamati ad aggiornare i loro Ndc, i piani climatici nazionali: finalmente scopriremo quale contributo vorranno realmente dare al taglio delle emissioni in una partita cruciale, per la lotta al riscaldamento globale, che a novembre durante la Cop30 in Brasile dovrà per forza fissare nuovi e ambiziosi obiettivi. Sempre a fine febbraio, a Roma, si tenterà di concludere la Cop16 sulla biodiversità andata fallita in Colombia, poi sarà la volta di nuove discussioni sul Trattato globale contro l’inquinamento da plastica e sarà anche un anno importante, visto il ritorno del fenomeno naturale de La Nina che tende ad abbassare le temperature, per comprendere davvero quanto terribile sia l’andamento della crisi climatica in corso. In questo contesto la prestigiosa rivista Science ha tentato – osservando le sfide che abbiamo davanti nel nuovo anno – di prevedere quali saranno i temi chiave per la scienza e per l’ambiente nel 2025.

    Il primo è già alle porte: il presidente Usa Joe Biden sta infatti tentando di correre per assicurarsi piani di riduzione delle emissioni degli Stati Uniti, per non perdere quanto construito con il piano ambientale ed energetico dell’Inflation reduction act e per salvaguardare parchi e territori che, con l’imminente insediamento del neo eletto presidente Donald Trump, potrebbero diventare luoghi di estrazione mineraria o petrolifera. La stessa rivista Science sottolinea come dal 20 gennaio – giorno dell’insediamento – il mondo potrebbe cambiare con il secondo atto di Trump. Parla per esempio delle paure di molti scienziati per l’intenzione di Trump di tagliare fondi a istituti e agenzie scientifiche, così come “c’è angoscia per la possibile interferenza politica nell’erogazione di sovvenzioni e l’erosione delle politiche di integrità scientifica” e anche per il fatto che “la ricerca sui cambiamenti climatici, la conservazione e le fonti di energia rinnovabili, che sono cadute in disgrazia durante la prima amministrazione di Trump, probabilmente verranno nuovamente messa alle strette, insieme a nuovi obiettivi come i programmi volti a creare una forza lavoro scientifica più inclusiva”.

    Riscaldamento globale

    Clima, il 2024 sarà l’anno più caldo di sempre

    di  Luca Fraioli

    09 Dicembre 2024

    Sempre dagli Stati Uniti arriva poi un allarme con valenza planetaria: l’evoluzione dell’influenza aviaria. Secondo Science lo sviluppo del virus H5N1 è una delle grandi domande e dei grandi rischi che incombono nel 2025 e ci si chiede se si riuscirà a fermare l’avanzata di un problema che, dopo le stragi di pollame, sta ora interessando anche i bovini e il comparto del latte. “Quest’anno i test sul latte potrebbero aiutare a identificare prima le mandrie infette e a frenare la diffusione del virus. Sono attesi anche i risultati delle sperimentazioni sui vaccini nelle mucche e gli scienziati sperano di capire meglio perché la maggior parte delle persone ammalate dalla variante H5N1 che colpisce i bovini ha sofferto solo di una lieve infezione agli occhi, mentre quelle infette dopo il contatto con gli uccelli hanno in genere una malattia più grave”. Oltre a ciò, si chiedono i ricercatori, c’è il rischio che H5N1 si evolva e inneschi una nuova pandemia globale?

    Altro grande tema, come sempre, è quello relativo poi alla crisi del clima. La Cop (Conferenza delle parti) a Belem, in Amazzonia, è da tempo indicata come quella decisiva per una possibile svolta nell’impegno per la riduzione delle emissioni e anche per un concreto approccio legato alla decarbonizzazione. Una Cop che oltretutto avviene nell’anno in cui le emissioni globali di gas serra potrebbero raggiungere “il picco”, ricordano da Science. Nonostante gli sforzi globali per ridurle, le emissioni planetarie continuano infatti a salire di circa l’1% ogni anno e “la rapida ascesa dei veicoli elettrici, delle energie rinnovabili e della riforestazione si è scontrata con le forze di contrasto dei data center che divorano energia e alimentano l’intelligenza artificiale e la domanda di carburante in ripresa dopo una pausa pandemica”. La buona notizia però è che la Cina sta trainando un cambiamento, basato sempre di più verso le energie rinnovabili, in un percorso più “aggressivo” verso lo zero netto delle emissioni del futuro. Proprio la Cina, in caso di Stati Uniti che con Trump potrebbero retrocedere sulle questioni climatiche e ambientali, è anche il Paese che potrebbe quest’anno intestarsi la vera leadership per le battaglie climatiche necessarie.

    Finanza climatica

    Cosa prevede l’accordo sui finanziamenti per il clima raggiunto alla Cop29

    25 Novembre 2024

    Se quelle elencate sopra sono le sfide forse più urgenti per la salute del Pianeta, altre, in chiave positiva, potrebbero vedere interessanti sviluppi secondo Science nel 2025. In archeologia per esempio lo studio avanzato delle antiche ossa umane, grazie alle firme chimiche e alle indagini sui metaboliti, sta facendo passi da gigante: scoprire più segni distintivi chimici sugli abitanti del passato potrebbe essere fondamentale per comprendere le malattie odierne così come l’impatto delle malattie e gli usi di un tempo sulla salute. Un’altra buona notizia potrebbe arrivare poi dalla lotta alla malaria: dove sono stati distribuiti vaccini, in almeno 17 Paesi, ci sono stati cali notevoli di casi. “Sebbene i dati completi sui casi di malaria, i ricoveri ospedalieri e i decessi siano notoriamente difficili da raccogliere, i ricercatori affermano che dovrebbe essere possibile vedere i tassi di malattia scendere nelle regioni in cui i bambini sono stati vaccinati” ricordano i ricercatori.

    Speranza c’è anche per un cambiamento generale delle diete: un minor consumo di carne rossa fa parte sia di una dieta che può aiutare la salute delle persone, sia quella dell’ambiente che ci circonda. Negli States, proprio su questo tema, sono state avviate nuove linee guida per limitare il consumo ma, ricorda Science, “la nuova amministrazione del presidente eletto Donald Trump potrebbe respingere le linee guida”. Infine, in questo 2025 appena iniziato, per la scienza vale la pena tenere gli occhi puntati sul cielo. L’astronomia potrebbe regalarci infatti nuove e importanti informazioni anche grazie al debutto del Vera C. Rubin Observatory, “un telescopio da ricognizione finanziato dagli Stati Uniti pronto a trasformare molti settori dell’astronomia che può individuare oggetti celesti che si sono spostati, hanno cambiato luminosità o sono apparsi o scomparsi all’improvviso, come comete e asteroidi precedentemente sconosciuti, stelle esplose in galassie lontane o, forse, il Pianeta Nove, un ipotetico pianeta gigante oltre Nettuno”. LEGGI TUTTO

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    Aiutiamo i coralli a resistere al cambiamento climatico

    “I danni incalcolabili alle barriere coralline hanno un impatto sulla biodiversità marina e sul turismo”. L’allarme di Oriana Migliaccio, trentotto anni, biologa marina napoletana arriva delle Maldive, dove ha concentrato mesi di studio, in particolare nei vivai di coralli all’interno della laguna di Anantara, una delle destinazioni più ricercate dai turisti occidentali, e del sistema di barriera corallina, nell’atollo di Male Sud. “Le barriere coralline sono fondamentali per la biodiversità marina e forniscono servizi ecosistemici essenziali, ma devono affrontare gravi minacce dovute al cambiamento climatico, che si traducono in particolare negli ormai famigerati eventi di sbiancamento dei coralli”, spiega.

    Il suo monitoraggio si è concentrato sulle risposte specifiche delle specie allo sbiancamento registrato nel 2024, che passerà agli archivi su scala globale come l’anno horribilis dei coral reef (il 75% è stato interessato da “bleaching”): i risultati, pubblicati sul Journal of Marine Studies nell’ambito del progetto HARP (Holistic approach to reef protection), rivelano una variabilità negli impatti dello sbiancamento tra specie e luoghi. Alle Maldive nel 2024, la temperatura del mare è stata costantemente al di sopra dei 31 gradi “generando uno stress costante per i coralli, costretti a espellere le piccole e variopinte zooxantelle, le alghe che conferiscono loro energia e tonalità vivaci”, spiega Migliaccio. Così, rivela lo studio, Acropora aspera e Acropora muricata hanno mostrato alti tassi di mortalità e una maggiore predazione, in particolare a profondità maggiori, mentre specie come Montipora digitata, Pocillopora damicornis e Porites cylindrica hanno mostrato una maggiore resilienza.

    Biodiversità

    Barriera corallina, ne abbiamo già persa un quarto

    di  Pasquale Raicaldo

    07 Ottobre 2024

    Studiare le specie più resilienti
    “I risultati dello studio evidenziano l’importanza di strategie di gestione adattiva per i vivai di coralli, sottolineando come fondamentali siano il monitoraggio ambientale in tempo reale e il posizionamento strategico dei vivai per rafforzare la resilienza complessiva della barriera corallina”, spiega Migliaccio. Ora sappiamo, per esempio, che Acropora ha bisogno di cure extra, mentre i resistenti Porites sono una delle chiavi per comprendere la potenziale resistenza delle barriere coralline al climate change. “Ma questo – annota la ricercatrice – è uno studio che aiuta soprattutto a prendere decisioni: in natura la resilienza esiste, dobbiamo solo favorirla. E possiamo chiederci, per esempio, se sia il caso di spostare i vivai in acque più profonde. Ancora: dovremmo dare la priorità alle specie robuste rispetto a quelle delicate? Come possiamo aiutare le barriere coralline, che – se stressate – diventano bersagli facili, a difendersi dai predatori durante un evento di sbiancamento?”. Allo studio, allora, ci sono vivai a temperatura controllata, sistemi di deterrenza per i predatori e, spiega Migliaccio “persino super-coralli da riproduzione”.

    Oceani

    Barriere coralline, come (e perché) stiamo perdendo un patrimonio di biodiversità

    di Pasquale Raicaldo

    03 Settembre 2024

    Ora i resort sostengono la ricerca
    “Servono approcci integrati che combinino il ripristino dei coralli con pratiche di gestione della barriera corallina più ampie per migliorare il recupero e la sostenibilità dell’ecosistema”, aggiunge la biologa marina, che si occupa in prima persona della gestione e del mantenimento delle “coral nurseries” di tre differenti resort. Qui, del resto, turismo e biodiversità sono strettamente intrecciati: lo sbiancamento progressivo delle barriere coralline può avere ricadute importanti sull’economia di luoghi che orbitano intorno ai flussi turistici. Un nuovo studio di prossima pubblicazione, coordinato da Roberto Danovaro, già presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn, oggi docente di ecologia all’Università Politecnica delle Marche, dimostra come la perdita di coralli in Egitto abbia ricadute economiche quantificabili in 5 miliardi di euro all’anno. Ma ancor prima dell’economia, c’è naturalmente la biodiversità: le barriere coralline “coprono appena l’1% della superficie del Pianeta, ma svolgono un ruolo cruciale racchiudendo addirittura il 25% della biodiversità globale”, annota lo stesso Danovaro.

    Il ruolo della citizen science
    Anche per questo Oriana Migliaccio lavora da anni nel cuore dell’Oceano: ha operato nel Borneo Malese, dirigendo un dipartimento interamente dedicato alla protezione dell’ambiente marino che ha sede nel cuore di una piccola isola dalla sabbia bianca e dalla lussureggiante vegetazione tropicale. “Anche la barriera corallina nel Borneo – aggiunge – è a grave rischio di estinzione. Molte aree sono state danneggiate o distrutte completamente dal riscaldamento globale e dalla pesca invasiva con dinamite, che continua tuttora. Così, i coralli muoiono e i pesci scompaiono”. Di qui, la pratica di piantare frammenti di coralli vivo su strutture di cemento o ferro, nel tentativo di tendere una mano ai coralli. “Si chiama coral reef restoration, proviamo a ripristinare la barriere coralline danneggiate in attesa di intraprendere percorsi virtuosi per contrastare con efficacia il cambiamento climatico”, dice. Fino all’appello accorato: “La salvezza dei coralli non passa solo per noi scienziati. Anche chi fa snorkeling o subacquea, o semplicemente ami l’oceano, può essere parte della soluzione sostenendo le organizzazioni che si occupano di conservazione, riducendo la propria impronta di carbonio e non sottovalutando mai il potere della curiosità”. LEGGI TUTTO

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    Se il risparmio di energia arriverà dalle finestre intelligenti

    Nei primi anni Ottanta, un gruppo di scienziati svedesi e californiani era alle prese con la realizzazione di nuovi materiali da costruzione. Aveva osservato, in particolare, che le finestre tradizionali consentono al calore di uscire durante l’inverno e di entrare in estate, costringendo i sistemi di riscaldamento, raffrescamento, ventilazione a un elevato consumo energetico, con conseguenti emissioni. Del team faceva parte anche il fisico Claes Goran Granqvist che, dopo ore e ore nel suo laboratorio, progettò i primi prototipi di finestre intelligenti, attribuendo loro questo nome in una richiesta di sovvenzione.

    Piccole scosse elettriche
    Nel tempo l’appellativo rimase, mentre gradualmente la tecnologia andò incontro a una evoluzione, dando modo di realizzare le finestre elettrocromiche, costituite da un vetro che, grazie a un conduttore che fornisce piccole scosse di elettricità, può essere oscurato in modo reversibile. Ciò blocca la maggior parte della luce infrarossa, responsabile del surriscaldamento degli interni. Così nei climi caldi circa il 60-70% del calore resta all’esterno, riducendo la necessità di aria condizionata, mentre nei climi freddi la dispersione di calore diminuisce del 40% circa. A oggi il sistema viene utilizzato in barche, automobili, aerei, uffici, con un mercato che, secondo le previsioni, raggiungerà i 7,5 miliardi di dollari entro il 2028. “Questo prodotto presenta, però, alcuni limiti”, evidenzia Anurag Roy, ricercatore all’Environment and Sustainability Institute dell’Università di Exeter, nel Regno Unito, in una recente analisi pubblicata su The Conversation. “Funziona solo con una fonte di alimentazione, che potrebbe non essere disponibile in luoghi remoti, e non offre la possibilità di modulare l’oscuramento, obbligando l’utente ad alternare restrizione completa della luce e trasparenza completa, senza vie di mezzo”.

    Energia

    Così le nostre finestre diventeranno “fotovoltaiche”

    di Sara Carmignani

    07 Febbraio 2024

    Come gli occhiali fotocromatici
    Un’alternativa che non richiede l’impiego di elettricità è la finestra fotocromica, il cui vetro, analogamente a quanto accade con gli occhiali fotocromatici, contiene minuscoli cristalli di alogenuro d’argento o di naftopirani, materiali che reagiscono alla luce ultravioletta, provocando una colorazione scura in condizioni di maggiore luminosità. Ma, anche in questo caso, non mancano le criticità. Come spiega lo scienziato, infatti, “le finestre di questo tipo sono molto costose, soprattutto se utilizzano l’argento. In più, risultano sensibili alle intemperie, non sono granché efficaci nel bloccare la luce infrarossa, non possono essere regolate manualmente dall’utilizzatore”.

    La ricerca continua
    Attualmente il vetro più promettente è quello termocromico, dotato cioè di un rivestimento di particelle che reagiscono alle temperature anziché alla luce. “Ciò significa che non necessita di elettricità”, prosegue il ricercatore. “Inoltre, è più economico del vetro fotocromatico, blocca sia ultravioletti sia infrarossi e può scurirsi progressivamente a mano a mano che la temperatura esterna aumenta”. Il problema è che questo tipo di vetro non è ancora utilizzabile per le finestre. Ma in proposito la ricerca sta compiendo passi avanti, con vari studi che si stanno svolgendo in tutto il mondo. Nel frattempo Roy fa le sue previsioni. “La prossima generazione di finestre intelligenti, tra cinque o dieci anni, dovrebbe essere utile anche nei luoghi più freddi, sia di giorno sia di notte”, afferma. “Dovrebbe, quindi, consentire un risparmio significativo per quanto riguarda non solo il raffrescamento, ma anche il riscaldamento. Installare cinque finestre smart in un appartamento in un Paese freddo potrebbe consentire di ridurre il numero di radiatori da cinque a due, con una rilevante diminuzione dei costi e delle emissioni di carbonio”. LEGGI TUTTO