Greenpeace Usa dovrà pagare 667 milioni di dollari a Energy Transfer. Ora rischia la chiusura
C’è chi lo interpreta come una dichiarazione di guerra a chi per mezzo secolo ha inseguito il sogno di una “pace verde”: Greenpeace. L’associazione ambientalista, fondata a Vancouver nel 1971, è stata condannata da un giuria del Dakota del Nord a pagare 667 milioni di dollari al gestore del Dakota Access Pipeline, il colosso Usa degli oleodotti Energy Transfer. Il reato? Diffamazione.
La condanna pecuniaria è ben più alta della richiesta iniziale della compagnia: 300 milioni di dollari. E già quella cifra avrebbe messo in pericolo l’esistenza stessa della branca statunitense di Greenpeace. “Hanno lottato per salvare le balene. Riusciranno a salvare se stessi?”. Se lo era chiesto qualche giorno fa il New York Times, alla vigilia di una udienza decisiva del processo. La causa riguardava appunto il ruolo dell’associazione ambientalista nelle manifestazioni organizzate ormai un decennio fa contro un oleodotto vicino alla riserva Sioux di Standing Rock, nel Dakota del Nord.
La Energy Transfer, proprietaria dell’infrastuttura, accusava Greenpeace di aver appoggiato attacchi illegali al progetto e aver condotto una “vasta e maligna campagna pubblicitaria” che sarebbe costata denaro all’azienda. La compagnia voleva quindi 300 milioni di dollari di danni. “Una tale perdita in tribunale ci potrebbe costringerla a chiudere i nostri uffici americani”, avevano ammesso gli attivisti.
Il caso
Una causa da 300 milioni di dollari mette a rischio Greenpeace Usa: “Siamo sotto attacco”
di Luca Fraioli
18 Marzo 2025
L’associazione si è mobilitata in tutto il mondo, a difesa di Greenpeace Usa: qualche giorno fa sul sito della sezione italiana è stata aperta una petizione che partendo dal processo in corso, allarga la lotta al revisionismo climatico di questi ultimi mesi: “Greenpeace è sotto attacco. “Abbiamo bisogno del tuo aiuto!”, si legge nella pagina web dedicata a alla raccolta delle firme.
“La gigantesca compagnia petrolifera Energy Transfer ha intentato una causa contro Greenpeace negli Stati Uniti e contro Greenpeace International per 300 milioni di dollari. In un contesto in cui politici negazionisti della crisi climatica, come Trump o Milei, governano interi Paesi, la battaglia per il futuro del pianeta e dei suoi abitanti è in serio pericolo”.
Eppure Greenpeace non è nuova a battaglie durissime, sul campo, nei mari, sui ghiacci… ma anche nelle aule di tribunale. Perché il processo intentato dall’Energy Transfer rischia di fare la differenza? L’entità dell’indennizzo richiesto, e ora a maggior ragione il raddoppio voluto dal tribunale: 667 milioni di dollari sono quasi quindici volte il budget di Greenpeace Usa (nel 2020 era di 40 milioni). Anche una condanna in primo grado, comporterebbe comunque un anticipo tale da far saltare il banco dell’associazione statunitense.
Ma il pericolo è più ampio. E non riguarda solo Greenpeace. Il processo dell’oleodotto contrastato dai Sioux è solo la punta dell’iceberg di una generale tendenza a “punire un ambientalista per zittirne 100”. Lo nota l’altro giorno anche la voce della City londinese, il Financial Times: “Greenpeace contro Big Oil: il caso che mette alla prova la libertà di parola nell’era Trump”. Per restare negli Stati Uniti, pochi giorni fa un’altra notizia dello stesso tenore: il climatologo Michael Mann, che nei mesi scorsi aveva vinto una causa per diffamazione da un milione di dollari, contro chi lo aveva accusato di truccare i dati sul riscaldamento globale, ora dovrà restituire oltre la metà: 530 mila dollari, perché secondo un giudice i suoi avvocati avrebbero utilizzato prove false nel corso del procedimento.
In base a una recente legge anti-proteste, in Australia decine di attivisti sono stati arrestati al porto del carbone di Newcastle alla fine del 2024 dopo aver utilizzato kayak e gommoni per protestare contro la struttura: è iniziato il processo e loro si dichiareranno in massa “non colpevoli”, come raccontava ieri il Guardian.
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