consigliato per te

  • in

    Le batterie bidirezionali delle auto elettriche possono far risparmiare 100 miliardi in Europa e alimentare l’energia delle nostre case: lo studio

    Se all’inizio ci alimentavi una macchinetta del caffè, ora grazie alle nuove tecnologie si può persino pensare – grazie alle batterie dell’auto – di fornire elettricità a una casa per un paio di giorni. Le cariche bidirezionale dei veicoli elettrici, quelle che permettono non solo di ricaricare il proprio veicolo ma anche di restituire energia alla rete, sono oggi nel mirino di sempre più produttori che stanno implementando questa tecnologia nei modelli di auto e in futuro, svela un nuovo report di Transport&Environment, potrebbero persino diventare il quarto fornitore di energia in Europa. C’è persino una stima, quella di un possibile risparmio “di oltre 100 miliardi in 10 anni” grazie allo sviluppo delle ricariche bidirezionale, che permetterebbero ai proprietari di veicoli elettrici “fino al 52% di risparmio sulla bolletta elettrica annuale”, in pratica “riduzioni fino a 780 euro all’anno, a seconda di fattori quali la localizzazione geografica, la presenza o meno di pannelli solari in casa e le dimensioni della batteria del veicolo”.

    Mobilità

    Con l’auto elettrica si risparmia metà delle emissioni di CO2

    di Nicolas Lozito

    07 Ottobre 2024

    Lo studio realizzato dagli istituti di ricerca Fraunhofer ISI e ISE per T&E, che stima i possibili risparmi tra il 2030 e il 2040, racconta sia l’importanza delle ricariche bidirezionali “che possono agire come batterie su ruote”, ma anche le criticità di una tecnologia che senza precisi standard, rischia di non trovare lo sviluppo necessario e positivo per l’ambiente e per le tasche dei consumatori. Come ricordano gli esperti, le auto elettriche dotate di sistemi bidirezionali di ricarica assorbendo elettricità nei momenti di eccesso di offerta possono restituirla quando la domanda è maggiore “ma il loro potenziale potrebbe non essere sfruttato, in assenza di standard comuni dell’Ue che garantiscano l’interoperabilità, cioè di uno standard unico di dialogo diretto tra tutti i veicoli elettrici e tutte le colonnine di ricarica” spiegano da T&E.

    La tecnologia per risparmiare costi ed energia, c’è già, perché grazie al V2G (vehicle-to-grid) le batterie delle auto elettriche possono scambiare elettricità con la rete e secondo il report questo uso potrebbe ridurre “nel 2030 il costo totale annuo del sistema elettrico dell’Ue di più del 5%, ovvero di oltre 9 miliardi di euro, per arrivare a 22 miliardi di euro di risparmi annui nel 2040 (in Italia 3,6), ovvero l’8%. Per il decennio tra il 2030 e il 2040, i risparmi potrebbero ammontare a oltre 100 miliardi di euro”.

    Mobilità

    La classifica europea delle capitali con i mezzi di trasporto più green, l’Italia fuori dalla top10

    di  Paolo Travisi

    07 Ottobre 2024

    Inoltre, ricordano da T&E, fondamentale è l’integrazione con le energie rinnovabili: se collegate a casa o al lavoro le vetture elettriche potranno infatti ridurre il fabbisogno dei sistemi di accumulo, per immagazzinare energia quando si verifica un eccesso di produzione di eolico o solare, fino al 92% al 2040. Solo in Italia “potrebbero arrivare a rappresentare la quasi totalità della capacità di accumulo necessaria per stoccare la produzione rinnovabile in eccesso. Con il V2G, la rete europea potrebbe integrare fino al 40% in più di capacità solare fotovoltaica (in Italia il 47%)” fanno sapere gli esperti. Un potenziale che farebbe diventare i veicoli elettrici dell’Ue di fatto “il quarto fornitore di elettricità d’Europa” dato che “immagazzinando l’energia rinnovabile in eccesso, che altrimenti andrebbe persa, la flotta europea di veicoli elettrici potrebbe contribuire fino al 9% del fabbisogno energetico annuale dell’Ue al 2040 (il 18% in Italia). In questo modo i veicoli elettrici diventerebbero il quarto ‘fornitore’ di elettricità dell’Ue e il secondo in Italia, riducendo la necessità di ulteriore capacità di generazione”.

    Dunque è tempo, sostengono da Transport & Environment, non solo di guardare all’elettrico come fattore chiave – come già vuole l’Europa – per la decarbonizzazione dei trasporti su strada, ma anche come player dell’energia perché “la ricarica bidirezionale offrirà una enorme e capillare rete di sistemi di accumulo, riducendo la necessità di costruirne di nuovi per stoccare l’energia eolica e solare in eccesso” spiega Andrea Boraschi, direttore di T&E Italia. Ricordando un altro potenziale della ricarica bidirezionale, ovvero il fatto che può allungare la vita delle batterie (con una durata prolungata fino al 9% rispetto alle ricariche standard), Boraschi spiega infine che per centrare questa rivoluzione in cui si raccolgono davvero i benefici della tecnologia V2G servono standard chiari e univoci a livello europei.

    “Il V2G – conclude il direttore di T&E Italia – può decollare solo se garantiamo che tutti i veicoli elettrici potranno funzionare con tutti i sistemi di ricarica. I legislatori possono sbloccare il potenziale di questa tecnologia decidendo gli standard Ue per la ricarica bidirezionale. Sarà una vittoria per i consumatori e l’ambiente, facilitando il progresso verso gli obiettivi dell’Ue in materia di clima ed energia”. LEGGI TUTTO

  • in

    Scienziati in allarme per il rischio di blocco delle correnti marine atlantiche

    In una lettera aperta (qui il .pdf) 44 scienziati e scienziate dai centri di ricerca più importanti al mondo sul clima e sulla oceanografia e rivolta al Consiglio Nordico (Nordic Council), l’organismo per la cooperazione interparlamentare dei Paesi nordici, avvertono che la circolazione oceanica nell’Atlantico, soprattutto nelle regioni polari, è a rischio di alterarsi al punto di “avere impatti devastanti e irreversibili soprattutto per i Paesi nordici, ma anche per altre parti del mondo”.

    Gli esperti avvertono che studi scientifici degli ultimi anni indicano che questo rischio è stato finora ampiamente sottovalutato e mandano un appello alla leadership dei Paesi nordici nel sostenere politiche climatiche più ambiziose.

    A rischio è la AMOC (Atlantic Meridional Overturning Circulation): un sistema di correnti ampio e profondo (fino a 3.000 metri) che coinvolge lo scambio di acqua calda e fredda tra diverse regioni dell’oceano Atlantico. Nel suo ultimo tratto, prima di giungere nell’Artico, include la Corrente del Golfo.

    Da un punto di vista climatico ha un’influenza globale e regola il clima in tutto il pianeta, anche se, come si legge nella lettera, un suo indebolimento o perfino un suo arresto avrebbero ripercussioni soprattutto nelle regioni del Nord Europa, e sulle coste orientali degli Stati Uniti.

    Questo è il meccanismo dominante del trasporto di calore verso nord, e sembra che stia per incepparsi. “Rischia sempre più di superare un punto di svolta”, ovvero un punto di non ritorno di un ingranaggio del sistema climatico, avverte il mondo scientifico. “Il rischio di un punto di svolta è reale e può verificarsi nell’intervallo climatico di 1,5-2 °C previsto dall’Accordo di Parigi. Attualmente il mondo si sta dirigendo ben oltre questa fascia ( > 2,5 °C)”.

    Abbiamo chiesto a Giuliana Panieri, geologa specializzata in biogeochimica marina e studi sul cambiamento climatico e professoressa presso l’Università Artica della Norvegia a Tromsø la portata di questo rischio: “Firmerei anche io questa lettera, perché ritengo sia fondamentale sensibilizzare l’opinione pubblica e i decisori politici su temi così importanti come i cambiamenti che stiamo vivendo”.

    Cosa rende l’artico una regione cruciale per il funzionamento della AMOC?
    “Nell’Artico il raffreddamento e l’aumento della salinità delle acque marine favoriscono il loro affondamento, un processo chiave per il mantenimento della circolazione. Mi spiego: durante l’inverno, le acque superficiali nei mari Artici si raffreddano e aumentano di salinità a causa della formazione di ghiaccio marino. Questa acqua fredda e salata diventa più densa e tende a sprofondare, contribuendo alla circolazione profonda dell’oceano.”

    Sui media leggiamo talvolta di indebolimento, talvolta di collasso della AMOC. Che differenza c’è?
    “L’indebolimento della AMOC indica una riduzione della sua forza, ma la circolazione continua a funzionare, seppur a ritmi ridotti. Un collasso, invece, suggerisce un arresto quasi completo, con cambiamenti climatici più drastici e immediati.”
    E quindi, qualcosa sta avvenendo, ci sono insomma delle misure e osservazioni o sono piuttosto delle previsioni?
    “Ci sono studi che mostrano un indebolimento della AMOC basati su osservazioni dirette e indirette, i modelli che prevedono un collasso sono ancora oggetto di dibattito scientifico. La tempistica e la probabilità di tali eventi variano molto tra gli studi. Qualche mese fa hanno pubblicato uno studio su Nature che confermava un indebolimento della AMOC, ma riportava anche che l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) suggerisce che un collasso non è probabile nel 2100.”

    Quindi c’è un indebolimento, ma un collasso è ancora in discussione?
    “Ricordiamoci che i modelli usati dall’IPCC non considerano la componente della fusione dei ghiacciai artici, per questo probabilmente sottovaluta l´indebolimento di queste correnti. Ricordiamoci poi che un collasso della AMOC non è un evento che si verifica ‘dal giorno alla notte’. È più probabile che avvenga gradualmente su decenni o secoli, se dovesse verificarsi”.

    Come mai il riscaldamento globale potrebbe causare un raffreddamento in Europa? E questo potrebbe quindi mitigare il riscaldamento globale o almeno in Europa?
    “Il riscaldamento globale potrebbe paradossalmente portare a un raffreddamento in alcune parti dell’Europa, e questo anche a causa dei cambiamenti nella circolazione oceanica. Questo non significa mitigare il riscaldamento globale, ma è piuttosto una ridistribuzione dei suoi effetti, con potenziali nuovi rischi, ancora da valutare. La AMOC trasporta acque calde tropicali verso il nord, riscaldando l’Europa settentrionale. Il nord Europa potrebbe avere così un clima più freddo, influenzando l’agricoltura, la biodiversità, e le condizioni di vita di tutti. Ma questo raffreddamento non mitigherebbe il riscaldamento globale in senso stretto, ne altererebbe invece localmente i suoi effetti. Il Mediterraneo ad esempio continuerebbe a riscaldarsi, con estati più calde e secche. La differenza tra il raffreddamento al nord e il riscaldamento al sud accentuerebbe i contrasti climatici in Europa, aumentando la probabilità e la severità di eventi meteorologici estremi.”
    È difficile districarsi con i limiti temporali presentati negli studi: alcuni dicono entro il 2100, altri avvertono che potrebbe già accadere nella metà di questo secolo, altri ancora invitano alla cautela perché potrebbe non avvenire mai o comunque ben oltre il 2100, come si legge nel rapporto numero 6 dell’IPCC.
    “Il sistema climatico terrestre è estremamente complesso e interconnesso. Le previsioni devono considerare tante variabili e interazioni che possono influenzare i risultati in modi non sempre prevedibili. Alla domanda quando? è difficile dare una risposta adesso. È fondamentale continuare la ricerca e l’osservazione, così come adottare un approccio precauzionale nella gestione delle politiche climatiche per mitigare i rischi associati a cambiamenti imprevisti nella circolazione oceanica.”

    E questo è un punto chiave della lettera. Gli scienziati firmatari parlano in termini di “rischio serio”, con “impatti devastanti e irreversibili”.
    “Gli scienziati non vogliono allarmare la società e creare panico ingiustificato. Sono affermazioni invece basate su evidenze scientifiche che considerano i possibili effetti di un cambiamento drastico nella AMOC. A mio avviso noi scienziati abbiamo la responsabilità di informare la società e i decisori politici sui rischi associati ai cambiamenti climatici. Questo serve a sottolineare l’importanza di prendere decisioni informate e tempestive per prevenire o mitigare gli effetti negativi di un clima che cambia.”

    Sempre nella lettera si insiste molto, come unica soluzione proposta, quella di insistere per restare vicino all’aumento di 1.5 °C perché?
    “Mantenere l’aumento della temperatura globale vicino ai 1.5°C è considerato essenziale per minimizzare i rischi climatici estremi, inclusi quelli associati a cambiamenti nella AMOC. Seguendo queste indicazioni si potrebbero anche limitare eventi estremi, come ad esempio ondate di calore, inondazioni e uragani e la loro frequenza. Poi non dobbiamo dimenticare che limitare il riscaldamento è anche una questione di equità globale. Le regioni più vulnerabili e meno capaci di adattarsi agli impatti climatici sono spesso quelle che hanno contribuito meno alle emissioni di gas serra. Mantenere l’obiettivo di 1.5°C è quindi anche un impegno verso la giustizia climatica.”

    Non sarebbe più realistico pensare a come adattarsi?
    “L’adattamento ai cambiamenti climatici è essenziale e dovrebbe procedere parallelamente agli sforzi di mitigazione. Prepararsi significa essere meno vulnerabili.” LEGGI TUTTO

  • in

    Green deal europeo: giusto il fine, da rivedere mezzi e modalità

    Che qualcosa sia da correggere è ormai evidente. Ma la strada è stracciata e non si può tornare indietro. È quanto emerge dal dibattito sul Green Deal europeo dal titolo “Transizione green, investimenti e strategie”, organizzato da Adnkronos. Esperti, rappresentanti del Governo, delle istituzioni e del mondo imprenditoriale hanno cercato di rispondere alle domande più urgenti su come cambiano le politiche nazionali per consentire una migliore ed armonica attuazione del Green Deal, sullo stato dell’arte del processo di transizione ecologica, sul contributo delle aziende nel contrasto al cambiamento climatico.

    Tanti ancora i punti da sviluppare e molte le incertezze sollevate dai Governi di alcuni stati che sono in ritardo nell’adozione di politiche e iniziative legislative in linea con quanto indicato dalla Commissione UE. L’obiettivo finale di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 è irrinunciabile. Ma a che punto siamo? E soprattutto cosa resta del Green Deal europeo?

    La cronaca degli ultimi giorni che ha registrato il dissenso di una parte dell’industria automotive e le proteste dei lavoratori rappresenta un primo e importante segnale di quanto la visione ottimistica europea non corrisponda pienamente alle singole realtà nazionali, sia a livello politico sia a livello industriale. E una conferma, seppure non con valore statistico, arriva anche da una rilevazione effettuata da Adnkronos tra i propri utenti web e social: per il 65% il Green deal europeo andrebbe addirittura eliminato, per il 23% migliorato e solo per il 12% è una priorità. Dati rafforzati dalla percezione, secondo il 75% degli utenti intervistati, che così come viene realizzata la transizione danneggia l’economia (75%). Per fare qualche esempio specifico, sull’acquisto delle auto elettriche, il 46% segnala il costo ancora elevato e il 38% la carenza di colonnine per la ricarica. Se è vero che sui social si avverte spesso una polarizzazione verso risposte negative, è altrettanto vero che il dibattito sull’argomento in Italia è molto acceso. Come dire, “il sogno” che si scontra con la realtà e che richiede interventi correttivi.

    Enrico Giovannini, direttore scientifico ASviS, ha parlato dell’Agenda 2030 e degli obiettivi da raggiungere: “Tra pensieri, parole e azioni c’è una divergenza piuttosto impressionante. L’Italia purtroppo non sta facendo quello che i ministri ci hanno detto. Il Piano strutturale di Bilancio avrebbe dovuto definire riforme e investimenti su 5 temi: transizione digitale ed ecologica, attuazione della legge europea sul clima, pilastro sociale dei diritti europeo, resilienza economica e sociale, difesa. Nel Piano strutturale di bilancio c’è poco di tutto questo”.

    “Qual è la vera prospettiva che l’Italia vuole conseguire?, si chiede Giovannini, aggiungendo: “La paura è che l’idea sia quella di ridiscutere questi obiettivi, sia al 2030 sia al 2050”. Le risorse per proseguire nel lavoro verso gli obiettivi, ragiona Giovannini, “si possono trovare: ci sono 30 miliardi di sussidi all’anno dannosi per l’ambiente che il governo si è impegnato a smantellare nei prossimi anni”. Quanto al Green Deal europeo, Giovannini chiarisce: “Il green non è stato toccato di una virgola, c’è tutto e lotta insieme a noi. L’approccio ideologico non è mai esistito. E’ sempre stato pensato non come una politica ambientalista ma come una politica di sviluppo economico”.

    Stesse preoccupazioni sono state espresse anche dai rappresentati del Governo intervenuti al convegno: il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin ha introdotto la strategia del Governo: “L’attenzione del governo è su più fronti: il lavoro in corso sui settori in cui è più difficile carbonizzare, gli incentivi per le CER, l’avanzamento delle misure al PNRR e diverse altre azioni normative semplificatorie. Sono convinto che il rinnovamento delle istituzioni europee ci permetterà di affrontare con maggiore pragmatismo anche quelle norme del green deal che si sono dimostrate molto ma molto sbilanciate”.

    “L’Italia non ha mai lavorato per distruggere – ha precisato il ministro Fratin – Ha voluto piuttosto migliorare, anche riuscendo, direttive e regolamenti che rischiano di lasciare indietro interi settori dell’economia. Non c’è più posto in Europa per approcci che non tengano conto di quelle che sono le evidenze scientifiche e di contesti nazionali differenti tra i 27 paesi europei. Credo che su questa linea si possa lavorare nel nuovo parlamento, nella commissione e consiglio europei. Come già fatto al G7 clima, energia e ambiente così a COP 29, che si apre tra pochi giorni, porteremo con responsabilità la voce del sistema paese espressione di valore e di eccellenza”.

    Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, ha spiegato che “in questa fase, sul settore automotive, insieme alla Repubblica Ceca, il nostro Paese si è fatto promotore di un non paper che sarà presto discusso in Commissione al fine di riesaminare le modalità che porteranno allo stop ai motori endotermici nel 2035. La transizione deve esserci ma occorrono le condizioni per raggiungerla. Il processo va sostenuto con una forte immissione di risorse pubbliche a oggi fuori dalla portata dei bilanci pubblici non solo dell’Italia ma di tutti i Paesi europei. Non solo: serve un approccio basato su evidenze empiriche e non su posizioni ideologiche, che guardi con favore alla neutralità tecnologica e all’inserimento dei biocarburanti tra le modalità per raggiungere l’abbattimento di CO2. Per questo chiediamo di anticipare alla prima metà del prossimo anno il Rapporto di valutazione previsto per fine 2026”.

    “Il Governo – ha concluso il ministro Urso – è consapevole che l’obiettivo della decarbonizzazione non può essere messo in discussione, ma occorre un confronto aperto su quale sia la modalità corretta per raggiungerlo”. LEGGI TUTTO

  • in

    La startup finlandese che combatte gli incendi con sfere di idrogel

    “Con il cambiamento climatico che aggrava la frequenza e l’intensità degli incendi boschivi, trovare soluzioni che non solo proteggano gli ecosistemi, ma che possano anche contribuire alla loro rigenerazione, è più urgente che mai. Le tecnologie attuali si concentrano principalmente sull’estinzione degli incendi, ma spesso trascurano il danno a lungo termine che viene inflitto agli ecosistemi locali”. A parlare è il team di Aviogel, startup innovativa che combina la protezione immediata della natura con una visione sostenibile per il futuro.

    Incendi

    I roghi sono in diminuzione, ma cresce la superficie bruciata

    di  Giacomo Talignani

    07 Ottobre 2024

    Fondata nel 2024, con sede a Helsinki, da William Carbone, Stéphanie Jansen-Havreng, Sevan Daniel Gerard, Aviogel ha sviluppato una tecnologia per la gestione e il contenimento degli incendi boschivi. Al centro di questa innovazione ci sono le sfere idrogel biodegradabili, progettate per essere rilasciate da mezzi aerei antincendio. Le sfere, a contatto con l’acqua o altri liquidi, li assorbono, aumentando il loro peso e garantiscono così una maggiore precisione nei lanci aerei, anche da altitudini più elevate. Questa caratteristica riduce il rischio per i piloti e rende le operazioni di spegnimento degli incendi più sicure ed efficienti. Con un potenziale in più: la sua capacità di combinare la lotta agli incendi con la rigenerazione immediata delle foreste. Le sfere, oltre ad aiutare a domare le fiamme, rilasciano anche semi e nutrienti, avviando il processo di riforestazione subito dopo l’intervento. In questo modo, ogni intervento aereo non si limita a combattere l’emergenza, ma semina già le basi per la rinascita dell’ecosistema. Inoltre, questa tecnologia riduce problema dell’evaporazione di una parte significativa dell’acqua rilasciata sugli incendi boschivi prima che essa raggiunga il suolo. LEGGI TUTTO

  • in

    Le balene scambiano i rifiuti di plastica per calamari. Una drammatica somiglianza

    Da una parte c’è un palloncino di plastica strappato, poco distante un calamaro. Da cosa è attratta una balena? La risposta può sembrare ovvia, ma purtroppo non lo è. Si, perché questi giganteschi e meravigliosi animali marini, nelle profondità degli oceani dove si immergono e nuotano alla ricerca di cibo, sfruttando una delle loro abilità, affinate nel corso della loro evoluzione, le onde sonore per individuare il cibo di cui nutrirsi. Solo che nel blu dell’oceano, dove non arriva la luce del sole, le due figure su cui rimbalzano le onde sonore emesse dalle balene possono essere molto simili, al punto che il pesce possa decidere di mangiare il palloncino di plastica e non il calamaro. A rivelare questa drammatica somiglianza sono stati i test acustici subacquei condotti dai ricercatori della Duke University, negli Stati Uniti, che hanno mostrato quanto la spazzatura rinvenuta sulla spiaggia – in particolare pellicole e frammenti di plastica – fosse uguale a quella presente nello stomaco delle balene morte.

    Biodiversità

    Riscaldamento globale, aumenta il pericolo di collisioni tra navi e squali balena

    di  Anna Lisa Bonfranceschi

    11 Ottobre 2024

    Ingannate dai segnali acustici
    “Queste firme acustiche sono simili e potrebbe essere il motivo per cui sono portati a consumare plastica al posto delle loro prede”, ha spiegato Greg Merrill che ha guidato la ricerca. Ma in che modo cacciano capodogli, capodogli pigmei e balene dal becco d’oca? I cetacei emettono schiocchi e ronzii da una struttura simile a una corda vocale, vicino ai loro sfiatatoi. I suoni si diffondono nell’oceano dalla struttura bulbosa posta al di sopra della bocca: quando rimbalzano sugli oggetti in acqua e tornano indietro, vengono captati da organi di rilevamento che si trovano nelle mascelle inferiori. A quel punto, passano all’orecchio interno ed infine arrivano al cervello dell’animale che interpreta il segnale. Un sistema che per 25 milioni di anni è stato fondamentale alla sopravvivenza delle balene, e che ora, per colpa della plastica, sta entrando in crisi.

    Inquinamento

    Dal fegato allo stomaco, microplastiche nel 66% delle gazze marine trovate morte nel Tirreno

    di  Pasquale Raicaldo

    02 Ottobre 2024

    Il test acustico
    “Il 100% dei detriti marini di plastica analizzati ha un’intensità acustica simile o superiore a quella delle prede delle balene”, affermano gli autori in un articolo pubblicato sul Marine Pollution Bulletin, e purtroppo come è noto, la quantità di plastica che troviamo nei mari è in crescita, al punto tale da formare vere e proprie isole. Per condurre il test acustico, i ricercatori della Duke hanno raccolto spazzatura di plastica rinvenuta in alcune spiagge di Beaufort e della vicina Atlantic Beach, e hanno messo i campioni di plastica a circa 5 metri di profondità sotto al sonar transponder di una nave per eseguire il test, simulando il passaggio di una balena.
    Sono stati eseguiti diversi test acustici usando tre differenti frequenze sonar, 38, 70 e 120 kilohertz, che coprono la gamma di sonorità utilizzate da diverse specie di balene che nuotano abitualmente a quelle profondità. Per condurre lo studio scientifico in modo accurato hanno analizzato anche il “rumore” emesso dai calamari morti e dai pezzi di becco di calamaro recuperati dallo stomaco di un capodoglio morto.

    Lo studio

    Piccolissimi e sorprendenti: i tardigradi sanno difendersi dalle microplastiche

    Sara Carmignani

    30 Settembre 2024

    Una drammatica somiglianza
    L’esperimento ha dato un risultato drammaticamente sorprendente; i rifiuti in plastica emettevano – quasi sempre – rumori simili a quelli dei calamari, confermando la ragione per cui frammenti di plastica sono sempre più comuni nello stomaco delle balene morte.
    “Esistono centinaia di tipi di plastica e le varie proprietà dei materiali, tra cui la composizione chimica del polimero, gli additivi, la forma, le dimensioni, l’età, l’esposizione agli agenti atmosferici e il grado di incrostazione, svolgono probabilmente un ruolo nelle risposte specifiche in frequenza osservate”, affermano ancora gli autori dello studio della Duke University. Sappiamo che l’inquinamento da plastica è sempre più pervasivo, e l’aumento, purtroppo, continuerà a provocare la morte di questi splendidi e pacifici animali marini. L’unica soluzione che propongono i ricercatori è quella di riprogettare alcune plastiche in modo che non abbiano una firma acustica che inganni le balene, ma non si fanno illusioni. “Non credo che sia davvero un’opzione praticabile, perché poi, se la rete da pesca e la lenza sono invisibili, le balene potrebbero rimanervi impigliate”. LEGGI TUTTO

  • in

    Lewisia, la succulenta che vuole tanto sole e poca acqua

    La lewisia è un genere di pianta erbacea succulenta perenne che appartiene alla famiglia delle montiacee (in passato era classificata tra le portulacacee). Deve il suo nome all’esploratore statunitense Meriwether Lewis, il quale ne ha scoperta l’esistenza. Le origini di questa pianta succulenta sono da ricercare in America Settentrionale. Il suo habitat ideale si trova tanto nelle aree rocciose quanto nelle foreste di latifoglie e conifere degli stati più occidentali dell’America. La lewisia può raggiungere mediamente un’altezza di cinquanta centimetri e, nella maggior parte delle specie, le foglie sono caduche. Esistono comunque delle specie di Lewisia – come la cotyledon – che rientrano tra le sempreverdi.

    Esposizione ideale
    Per la lewisia dobbiamo scegliere senza dubbio un’esposizione in pieno sole. Il luogo ideale in cui mettere a dimora questa pianta deve assicurare un soleggiamento diretto per diverse ore della giornata, indispensabile per la corretta fioritura. Nel suo ambiente naturale, la pianta tende a svilupparsi anche tra le rocce: possiamo quindi sfruttarla per impreziosire i giardini rocciosi, dove le sue radici contribuiscono a prevenire il dilavamento. Può sopportare senza problemi temperature fino a -10 gradi, tuttavia, durante la stagione invernale non deve essere irrigata: ripariamola quindi dalla pioggia.

    Il terreno per coltivare la lewisia
    La lewisia non ha particolari pretese per quanto riguarda la tipologia di terreno. Ricordiamoci però di preferire un terriccio moderatamente fertile, dal pH compreso tra il neutro e l’acido, ma soprattutto con una buona capacità di drenaggio. A questo proposito, per la messa a dimora possiamo miscelare un po’ di sabbia o della ghiaia al terriccio, in modo tale da scongiurare il fenomeno del ristagno idrico a livello radicale, che la pianta non sopporta. Se coltivassimo la lewisia in vaso, ricordiamoci di prevedere la sostituzione del terriccio ad ogni rinvaso.

    Innaffiatura, concimazione e come potare
    Durante la stagione vegetativa, tra la primavera e l’estate, la lewisia richiede innaffiature costanti, con una cadenza quindicinale. In ogni caso, prima di annaffiare la pianta, accertiamoci che il terreno sia ben asciutto, per evitare di provocare del ristagno idrico a livello radicale. Quando la pianta inizia a perdere i fiori (e in seguito le foglie), significa che sta entrando nella fase di riposo vegetativo: in quel momento, dobbiamo sospendere le innaffiature. Per concimare la pianta, possiamo usare un concime granulare a lento rilascio, solo durante la primavera e l’estate. Infine, la lewisia non ha particolari esigenze di potatura: ricordiamoci però di eliminare le foglie secche o danneggiate, per evitare che possano attirare dei parassiti.

    La fioritura della lewisia
    La lewisia regala una bella fioritura durante il periodo compreso tra la primavera e l’estate, con colori che variano in modo notevole tra le specie. Ad esempio, la lewisia cotyledon ha una fioritura tra il rosso-arancione, mentre la specie rediviva ha fiori con una sfumatura dal bianco al violetto. La lewisia longipetala regala invece una caratteristica fioritura rosa salmone e, infine, la nevadensis spicca per il colore bianco dei suoi fiori.

    Malattie e parassiti
    La pianta della lewisia non è particolarmente soggetta all’attacco da parte dei più comuni parassiti. Per contro, quando la lewisia entra nella stagione vegetativa – cioè nel periodo primaverile – dobbiamo accertarci che non sia colpita dalle chiocciole o anche le limacce. Questi molluschi sono soliti cibarsi delle foglie della pianta, che in caso di attacco presentano il classico aspetto bucherellato. Prestiamo molta attenzione alla quantità di acqua che diamo alla lewisia, poiché gli eccessi di irrigazione possono provocare con una certa facilità il fenomeno del marciume radicale, che a sua volta si traduce in molti casi nella morte della pianta. LEGGI TUTTO

  • in

    Ritorno all’ora solare, ma adottare l’ora legale per tutto l’anno porterebbe a benefici per l’ambiente

    Ogni volta che arriva questo periodo dell’anno, soprattutto negli ultimi tempi, ci si continua a interrogare se il cambio dell’ora sia una pratica che al giorno d’oggi ha ancora senso. E soprattutto, se fa bene o meno all’ambiente. Tra sabato 26 ottobre e domenica 27 ottobre, alle tre del mattino, le lancette dell’orologio sono tornate indietro di un’ora: con il passaggio dall’ora legale all’ora solare le giornate si accorceranno via via. L’ora solare resterà tale fino all’ultimo weekend di marzo, poi di nuovo lancette in avanti. Questo cambio, che non esiste in tutto il mondo (per esempio in Africa avviene in pochissime zone, oppure Cina, Giappone e India dopo aver “provato” hanno abbandonato l’idea), si ripete ogni anno in Europa dal 1966 e in Italia dal 1965.

    Da fine ottobre di fatto entreremo nei ritmi dettati dalla luce del sole, mentre finora abbiamo vissuto secondo un orario, quello “legale”, che è frutto della necessità di risparmiare a livello energetico: spostare l’ora in avanti nei mesi primaverili ed estivi consente infatti di ridurre i consumi energetici in media di circa lo 0,2%. In generale, questa pratica non viene utilizzata in molti paesi equatoriali, dove c’è disponibilità di luce e nell’emisfero australe solitamente il cambiamento è opposto al nostro.

    Le differenze stesse fra i 70 Paesi che adottano questo sistema, hanno portato negli ultimi tempi a punti di vista diversi sul cambio d’orario: i paesi Scandinavi per esempio, chiedono all’Europa di abolire il passaggio all’ora solare, dato che lo spostamento – che porta a ulteriore buio prima nella vita quotidiana – ha impatti sullo stato psico fisico dei cittadini.

    Anche negli Usa, dove il passaggio vige da oltre un secolo, ci sono richieste (già prese in carico dai legislatori) di rivedere il meccanismo, mantenendo permanente l’ora legale. In particolare negli States grazie al Sunshine Protection Act, reintrodotto nel 2023, sarebbero i singoli stati a decidere se adottare l’ora solare annuale o l’ora legale.

    Stop al cambio dell’ora: troppi problemi alla salute. La richiesta degli scienziati inglesi

    di Valentina Arcovio

    26 Ottobre 2024

    A seconda dei Paesi, delle regole e ovviamente delle condizioni di luce, da tempo si discute sui pro e i contro del cambio ora: dalla positiva opportunità di dormire più a lungo ai negativi impatti sui bioritmi, oppure semplicemente – dimostra uno studio Usa basato su una raccolta dati di 20 anni – sul fatto che il 6% in più degli incidenti stradali mortali si verifica nella settimana successiva al cambio dell’ora legale.In generale, e anche l’Europa ne sta discutendo con più forza dal 2018, buona parte dei Paesi che considera di modificare il passaggio dell’ora sta pensando di mantenere per sempre quella legale.

    Il perché è soprattutto una questione ambientale e di risparmi energetici e di emissioni. Recenti studi per esempio hanno dimostrato come l’ora legale può ridurre la quantità totale di energia necessaria per raffreddare gli edifici adibiti a uffici in estate di quasi il 6%. Se inizialmente ci si concentrava sull’illuminazione ora – con gli effetti della crisi del clima – come spiegano ricercatori svizzeri bisogna considerare di più il possibile risparmio su condizionatori e impianti di refrigerazione.

    “Gran parte della discussione sull’ora legale si è concentrata storicamente sul risparmio di elettricità derivante dall’illuminazione artificiale – ha detto Sven Eggimann dell’EMPA di Zurigo – tuttavia la domanda di energia per il riscaldamento e il raffreddamento degli edifici è molto più grande di quella per l’illuminazione”, una energia che contribuisce in maniera significativa alle emissioni di carbonio. Basandosi su modelli, i ricercatori hanno stabilito quindi che l’ora legale permette – grazie a lavoratori che arrivano in ufficio in ore più fresche e lasciano gli edifici in ore più calde – di ridurre in generale la quantità di energia necessaria per il controllo del clima degli uffici.

    Come viene descritto nel loro studio pubblicato su Environmental Research Letters “lo spostamento degli orari di lavoro influisce sull’interazione tra la domanda di energia per il riscaldamento e il raffreddamento”. Anche per questo gli scienziati chiedono che l’impatto climatico dell’ora legale sia considerato nelle discussioni politiche.

    A cavalcare la stessa tesi, quella che l’ora legale sia più sostenibile, anche le stime di Altroconsumo che indicano ad esempio come dal 2004 al 2021 grazie all’ora legale l’Italia abbia risparmiato circa 10,5 miliardi di kilowattora, riducendo di 200mila tonnellate le emissioni di CO2 nell’atmosfera. Anche il Sima, la Società Italiana di Medicina Ambientale, ha stimato – lanciando una petizione per mantenerla – che l’adozione dell’ora legale permanente tutto l’anno permetterebbe di consumare meno energia per circa 720 milioni di kwh equivalenti, con un possibile “risparmio in bolletta di circa 180 milioni di euro annui”.

    A queste cifre si possono aggiungere anche i dati di Terna che raccontano come dal 2004 al 2022 l’Italia ha risparmiato circa 2 miliardi di euro e 10,9 miliardi di kWh di elettricità proprio grazie all’ora legale. Nel 2018 la Ue ha avviato l’iter della proposta per porre fine al doppio cambio dell’ora, percorso che si è però poi parzialmente arenato a causa del Covid. Come hanno ricordato da Sima però, in chiave ambientale ormai è tempo di “impegnarsi per arrivare in Italia all’abbandono definitivo dell’ora solare adottando l’orario legale tutto l’anno, auspicando un coordinamento tra le varie nazioni per evitare ripercussioni sugli scambi commerciali e i movimenti transfrontalieri”. LEGGI TUTTO