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    Batterie preziose come miniere, un progetto italiano per recuperare il 90% del litio

    È ora di considerare le batterie come delle piccole miniere portatili. E dalle miniere, si sa, si ricavano minerali e materie prime molto preziose. Sempre di più. Le comuni batterie agli ioni di litio, quelle che un tempo si definivano ricaricabili, ormai sono il nostro pane quotidiano, e probabilmente per molti di noi sono l’ultimo gesto della giornata: ricaricare la batteria del nostro smartphone. Dentro a queste batterie, troviamo il litio, che è l’elemento chiave per il trasporto degli ioni durante la carica/scarica della batteria, il cobalto che migliora stabilità e durata, nickel che aumenta la densità energetica, e ancora il manganese, la grafite, il rame e l’alluminio. Una lista lunga, ed ogni batteria giunta a fine vita che buttiamo via, e che non viene riciclata e riutilizzata perde e disperde nell’ambiente sostanze preziose.

    Mobilità sostenibile

    Batterie al sale: l’idea di BatterIT per trovare un’alternativa al litio

    di Gabriella Rocco

    08 Gennaio 2025

    Da qui si capisce, quanto sia altrettanto prezioso il progetto di ricerca denominato Caramel, dell’Università di Brescia, che promette di poter recuperare il 90% del litio di ogni batteria, senza usare acidi inorganici e riducendo i consumi energetici del 50%, attraverso lo sviluppo di un innovativo forno a livello industriale. O meglio di un forno a microonde. D’altronde la sfida è di grandi proporzioni, come sottolinea la stessa Commissione Europea che con il Critical Raw Act ha stabilito l’obiettivo di raggiungere nei prossimi anni una serie di percentuali di recupero e una capacità di riciclo di almeno il 25% del fabbisogno continentale europeo.

    Nel caso del litio dai rifiuti di batterie, la Commissione chiede ai paesi membri di arrivare al 50% entro il 2027, per salire fino all’80% entro il 2031. E ci sono anche altri target importanti che interessano, ad esempio le batterie portatili (i power bank), le batterie dei mezzi di trasporto leggeri, così come il recupero del cobalto, del rame, del piombo e del nichel pari al 90% entro la fine del 2027 e del 95% entro la fine del 2031.

    Ma torniamo a Caramel – acronimo di New Carbothermic Approaches to Recovery Critical Metals from Spent Lithium-Ion Batteries – finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca con il bando FISA con un importo di oltre un milione di euro, sotto la guida di Elza Bontempi, docente ordinario di Fondamenti Chimici delle Tecnologie, che con questo progetto universitario intende contribuire in modo significativo alla creazione di una filiera industriale italiana per il riciclo delle batterie agli ioni di litio. Secondo lo studio iniziato nel 2022, il cui metodo è già oggetto di brevetto, il processo di estrazione avviene attraverso la “cottura” all’interno di un forno a microonde che elimina completamente l’uso di acidi inorganici commerciali, limitando le sostanze inquinanti.

    Innovazione

    La batteria green che nasce dagli alberi. L’idea di un giovane colombiano

    di Paolo Travisi

    22 Ottobre 2024

    Il procedimento scoperto sfrutta la radiazione a microonde del forno per riscaldare il materiale, grazie alla presenza di grafite presente nella batteria che assorbe l’energia e genera calore per effetto della polarizzazione dei suoi atomi di carbonio. I vantaggi rispetto ad altri metodi, risiedono principalmente nella velocità del trattamento, che dura appena pochi minuti, che si verifica ad una potenza di radiazione inferiore ai 1000 W, riducendo il consumo energetico di oltre 100 volte rispetto ai trattamenti termici convenzionali e senza additivi chimici aggiuntivi.

    Questo processo, così efficiente che potrebbe addirittura competere con l’estrazione dei metalli dai minerali naturali, contribuirebbe a ridurre la dipendenza dalle miniere e a promuovere il riciclo delle batterie esauste. Entro i prossimi tre anni, l’obiettivo è arrivare ad un impianto prototipale su scala industriale che certifichi la maturità tecnologica e consenta di raggiungere il livello 6 della scala TRL, che valuta il livello raggiunto in ambito industriale, per dare avvio ad un iter di scala. Ed i risultati fino ad ora sembrano essere molto avanzati e “dimostrano che è possibile coniugare innovazione tecnologica e sostenibilità ambientale, e allo stesso tempo contribuire alla creazione di un mercato nazionale per il riciclo delle batterie, attualmente carente in Italia”, spiega Elza Bontempi, responsabile di Caramel. Tra l’altro il progetto dell’Università di Brescia ha ottenuto l’Intellectual Property Award, che ha consentito all’ateneo lombardo di partecipare all’Esposizione Universale di Osaka 2025, in Giappone, all’interno di una giornata dedicata alla valorizzazione dell’eccellenza della ricerca italiana.

    Inoltre, una volta implementato su scala industriale permetterebbe all’Italia, estremamente povera di queste risorse, di essere meno dipendente dalle forniture dall’estero; come stiamo vedendo in queste settimane, le miniere in Ucraina sono proprio il motivo del contendere con gli Stati Uniti per avviare il percorso di pace, perché cedere materie prime così preziose e rare, significa cedere una parte importante di ricchezza di un paese e di potere economico-politico. Non averne, accentua la vulnerabilità del continente europeo. LEGGI TUTTO

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    Clima, Trump vuole spegnere il monitoraggio sulle emissioni di gas serra

    Se non lo vedi, non esiste. Questa è l’attuale politica di Donald Trump nei confronti della crisi climatica, quella che ha sempre negato. Per poterla avallare ulteriormente il presidente degli Stati Uniti, insieme al Doge, il Dipartimento per l’efficienza governativa con cui Elon Musk è stato incaricato di tagliare le spese pubbliche “inutili”, sta portando avanti da quasi due mesi la cancellazione e l’oscuramento totale della questione climatica.
    L’ultima mossa – anticipata un mese fa quando all’improvviso alcuni siti della Noaa (la National Oceanic and Atmospheric Administration) finirono offline – è quella di voler cancellare anche i dati sulla CO? globale.

    L’intervista

    Che impatto avrà il riarmo dell’Europa sulle sue politiche climatiche?

    di Luca Fraioli

    15 Marzo 2025

    Come noto le emissioni di gas serra da parte delle attività umane, e insieme a quelle di metano soprattutto quelle dell’anidride carbonica, sono la causa principale del surriscaldamento del Pianeta che nell’ultimo anno ha registrato le temperature medie globali più calde di sempre. Monitorare i livelli di CO? nel mondo significa dunque avere una fotografia precisa di quanto sta accadendo e al contempo ottenere gli strumenti per modelli climatici in grado di aiutare a prevenire, adattare e proteggere, l’umanità intera davanti alle sfide del nuovo clima.

    L’osservatorio Loa nelle Hawaii
    La principale stazione che monitora i valori di CO? da quasi 70 anni nel mondo è quella dell’osservatorio di Mauna Loa nelle Hawaii. Qui, in una avamposto vicino alla cima del vulcano e lontano da fonti inquinanti, vengono costantemente monitorate e rese pubbliche le “parti per milione” (ppm, ndr) di CO?, arrivate negli ultimi tempi al terrificante valore di 427 ppm, fra le più alte di sempre.
    Quei valori sono quelli che ci restituiscono lo stato delle cose, quelli che possiamo osservare anche solo per farci un’idea di come le emissioni climalteranti stanno aumentando: per dire, quando Greta Thunberg iniziò i suoi scioperi per il clima e le successive manifestazione globali di lotta alla crisi del clima, una delle prime cose che scrisse sui suoi profili è che era nata in un periodo in cui nel mondo c’erano 375 ppm di CO? (nel 2003), in modo tale da lanciare un confronto e un segnale dell’aumento costante della concentrazione delle emissioni.

    Se non si vede, non esiste
    Ora Trump e Musk, quei valori gestiti dalla Noaa a Mauna Loa, vogliono oscurarli. Se non sono più quotidianamente visibili, evidentemente non esistono e non sono più un problema per chi come l’amministrazione Usa sta smantellando ogni tipo di politica climatica. Oltre all’uscita dagli Accordi di Parigi, quelli per limitare il surriscaldamento globale entro gli 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, il tycoon ha già fatto rimuovere dal sito della Casa Bianca e da ogni agenzia federale le parole e i riferimenti alla crisi del clima. Ha poi effettuato centinaia di migliaia di licenziamenti che riguardano scienziati, ricercatori,forestali e difensori del clima e dell’ambiente in ogni settore pubblico degli Stati Uniti.

    I dati

    Inquinamento atmosferico, solo 7 Paesi al mondo sotto il livello di guardia dell’Oms

    di Luca Fraioli

    11 Marzo 2025

    Mentre adesso si prepara a cancellare ogni politica di riduzione delle emissioni climalteranti impostata in precedenza da Joe Biden, in modo da poter agevolare senza freni il suo “drill, baby, drill”, l’idea di trivellare ovunque per ottenere petrolio e gas e riportare in auge l’uso dei combustibili fossili affossando contemporaneamente le rinnovabili, a breve Trump e Musk intendono infatti anche chiudere e smantellare l’ufficio di Hilo della Noaa a Mauna Loa che è quello relativo proprio al monitoraggio delle emessioni di gas serra.
    La scusa per poterlo chiudere definitivamente è una questione di affitto: costa troppo (si stima intorno ai 160 mila dollari l’anno) e di conseguenza, in ottica dei tagli DOGE, vale la pena serrarlo.
    La reazione degli scienziati
    Il problema è che da quell’ufficio da decenni escono i principali indicatori sul cambiamento climatico causato dall’uomo che servono agli scienziati di tutto il mondo per sviluppare modelli e fornire informazioni cruciali per salvare la vita delle persone davanti per esempio all’intensificazione degli eventi meteo estremi.
    Valori che vengono usati in ogni parte del globo tant’è che anche esperti italiani – come la presidente dell’Italian Climate Network la fisica Serene Giacomin oppure il ricercatore e meteorologo del CNR-Lamma Giulio Betti di recente hanno denunciato la pericolosità legata al potenziale taglio di questi uffici. Lo stesso Betti sui social, denunciando una situazione “peggio degli struzzi”, di chi davvero nasconde la testa per non vedere, suggerisce di ricordarsi il numero delle attuali ppm, 427, perchè “non sappiamo ancora per quanto i rilievi verranno fatti”.

    Altre strutture a rischio
    In generale l’ufficio con sede a Hilo dell’Osservatorio di Mauna Loa è una delle 34 strutture della National Oceanic and Atmospheric Administration che potrebbero essere presto chiuse: in questo luogo particolare per l’aria rarefatta e la posizione remota nell’Oceano Pacifico, lontana da città inquinante,fin dagli anni Cinquanta vengono rilevati i dati climatici più importanti per comprendere la salute della Terra ed è facile ipotizzare i danni derivanti da una eventuale smantellamento dell’ufficio che seguirà in ordine di tempo quelli già avvenuti per esempio nelle sedi centrali Noaa e in quelle dell’Epa, l’Agenzia di protezione ambientale dove, così come al Forest Service, sono già stati licenziati migliaia di dipendenti.

    Le difficoltà in cui stanno lavorando gli scienziati
    Sempre da Mauna Loa, va ricordato, sono iniziate le raccolte di dati da parte di Charles Keeling, lo scienziato che studiando i modelli di anidride carbonica ha coniato la famosa “curva di Keeling”, quella che ci fornisce l’andamento della crescita dei livelli di anidride carbonica, passate appunto da 315 ppm ai temi di Keeling negli anni Sessanta alle attuali e pericolose oltre 420.
    Già oggi, raccontano gli scienziati ai media statunitensi e britannici, operare nelle scienze del clima, quelle che dovrebbero – così come il Noaa – aiutarci a prepararci agli impatti futuri del surriscaldamento per esempio osservando i dati atmosferici e soprattutto quelli degli oceani tragicamente sempre più bollenti, negli Usa sta diventando un’impresa.
    “Sarebbe terribile se questo ufficio fosse chiuso – ha spiegato per esempio lo scienziato atmosferico Marc Alessi dell’Union of Concerned Scientists – perché non solo fornisce la misurazione della CO? di cui abbiamo così disperatamente bisogno per tracciare il cambiamento climatico, ma informa anche le simulazioni dei modelli climatici utili in tutto il mondo per proteggerci”. LEGGI TUTTO

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    Il radicchio cresce meglio nella serra in perovskite

    Nuove interessanti prospettive nel campo dell’agricoltura sostenibile. Un gruppo di ricercatori dell’Istituto per la microelettronica e microsistemi di Catania, parte del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Imm), ha infatti appena dimostrato come l’applicazione di celle solari in perovskite sui tetti delle serre migliori significativamente la crescita delle piante – radicchio, nel caso dell’esperimento condotto dagli scienziati – e contribuisca all’autosufficienza energetica delle celle stesse. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Communications.

    L’agrivoltaico, ossia l’integrazione di sistemi fotovoltaici nella coltivazione agricola, è una tecnica studiata e adoperata già da qualche tempo, che ha per obiettivo l’abbattimento dei consumi di energia elettrica necessari al funzionamento delle serre. Tradizionalmente si usano celle solari in silicio opaco, che garantiscono una buona efficienza ma, proprio in quanto opache, trattengono molta della luce solare che le colpisce, il che limita la crescita delle piante. È proprio per cercare di superare questo problema che i ricercatori del Cnr-Imm si sono concentrati su celle solari semitrasparenti in perovskite (St-Psc), un altro materiale già ampiamente utilizzato nel fotovoltaico che, a differenza del silicio opaco, lascia passare una frazione molto più alta della luce che lo colpisce.

    Nel loro esperimento, i ricercatori hanno costruito una serra in miniatura dotata di un tetto rivestito con perovskite e altri materiali, e vi hanno lasciato crescere delle piantine di radicchio. Dopo qualche tempo, hanno confrontato la maturazione delle piantine cresciute sotto la serra “potenziata” con quella delle piantine cresciute sotto una serra tradizionale, con tetto in vetro, constatando così che le prime presentavano effettivamente una crescita più rapida e foglie più grandi rispetto alle seconde – nonostante, e qui sta la parte più interessante del risultato – la quantità di luce totale che investiva le piantine fosse inferiore nella serra con perovskite.

    Energia

    Un fotovoltaico da record di efficienza con il tandem silicio-perovskite

    Dario D’Elia

    06 Febbraio 2024

    Questi risultati, scrivono i ricercatori nel lavoro, suggeriscono che a fare la differenza in termini di crescita delle piante non è solo la quantità di luce che ricevono, ma anche la sua “qualità”, o, in termini più precisi, la sua composizione spettrale. La perovskite, infatti, ha la caratteristica di filtrare la componente blu della luce solare e di aumentare la componente rossa, creando condizioni apparentemente migliori per lo sviluppo delle foglie. Ma c’è dell’altro: i ricercatori hanno anche analizzato l’espressione genica delle piantine di radicchio, scoprendo che quelle cresciute sotto perovskite mostravano piccole differenze nell’espressione di geni legati allo stress ambientale, al metabolismo e alla percezione della luce, il che suggerisce che le piante siano in grado di adattarsi attivamente alle nuove condizioni di illuminazione.

    La perovskite non sembra far bene solo al radicchio, ma anche alla bolletta: i ricercatori hanno stimato che una serra dotata di questa tecnologia potrebbe produrre tra 220 e 243 chilowattora per metro quadro, sufficienti a coprire il fabbisogno di serre ad alta intensità, quelle che richiedono molta energia per riscaldamento, raffreddamento e illuminazione. Resta solo da scoprire se il radicchio sarà altrettanto gustoso. LEGGI TUTTO

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    Come ci fa sentire la crisi del clima? In Italia perlopiù tristi e arrabbiati

    Il cambiamento climatico ci mette di fronte a enormi sfide e soprattutto a grandi incertezze: come sarà il nostro futuro e quello delle generazioni successive alla nostra? Domande che suscitano inevitabilmente un turbinio di emozioni diverse. Molti gruppi di ricerca stanno iniziando a studiare questa “componente emotiva” legata al grande tema del cambiamento climatico: quali emozioni spiccano maggiormente?

    Le diverse sensazioni sono in qualche modo collegate alle politiche ambientali che le persone scelgono di sostenere? Proprio su questo tema, un team di ricercatori dell’Università di Aarhus in Danimarca e dell’Istituto internazionale per l’analisi dei sistemi applicati in Austria ha condotto un sondaggio online in 19 lingue diverse, coinvolgendo più di 30mila adulti di 30 paesi diversi. Le risposte sono state raccolte fra agosto e dicembre del 2022, e i risultati delle relative analisi sono appena stati pubblicati su Risk Analysis.

    Nel dettaglio, gli autori dello studio hanno “mappato” l’intensità di cinque emozioni, o sensazioni, che possono essere collegate al cambiamento climatico: rabbia, tristezza, paura, preoccupazione e speranza. La cosa interessante, e forse in parte anche attesa, è che sono emerse specifiche tendenze in base all’area geografica presa in considerazione.

    Per esempio, fra i 12 Paesi risultati più “speranzosi”, 11 sono in via di sviluppo, come la Nigeria, il Kenya, l’India e l’Indonesia. Il dodicesimo, l’unico appartenente al cosiddetto “nord globale” fra i 12 di questo gruppo, è rappresentato dagli Stati Uniti.

    I Paesi europei, fra cui Germania, Austria e Svezia, sono invece risultati essere fra i meno fiduciosi. E spostando il focus in particolare sulla porzione meridionale dell’Europa è inoltre emerso che Spagna, Italia e Grecia sono quelli caratterizzati da un livello più alto di rabbia e tristezza per quanto riguarda il cambiamento climatico. La paura e la preoccupazione, infine, sono le due emozioni espresse maggiormente dai partecipanti del Brasile.

    Le emozioni legate all’uso di tecnologia per contrastare la crisi

    L’altro obiettivo della ricerca era poi quello di esaminare il possibile collegamento fra le diverse reazioni emotive al cambiamento climatico e la relativa opinione o posizione in merito all’utilizzo di specifiche tecnologie per contrastarlo. Il team ha quindi analizzato la relazione statistica fra le cinque emozioni prese in considerazione e il sostegno a dieci diversi tipi di intervento, fra cui l’imboschimento, tecniche di rimozione attiva dell’anidride carbonica dall’atmosfera e metodi che modifichino l’incidenza delle radiazioni solari (in modo che il pianeta riceva in sostanza meno calore dal sole), come l’iniezione di particolari aerosol nella stratosfera. Stando ai risultati, la speranza sarebbe strettamente collegata alla propensione per il supporto agli interventi climatici, soprattutto per quanto riguarda i più innovativi. Un discorso analogo vale per la preoccupazione e per la paura, anche se il legame sembrerebbe essere meno marcato con quest’ultima.

    Non si tratta della prima indagine di questo tipo. Anche uno studio pubblicato su Plos Climate nel 2024 mostrava che le diverse reazioni emotive di fronte al cambiamento climatico hanno a che fare con il tipo di politica climatica che si sceglie di sostenere. In quel caso le emozioni analizzate dagli autori erano senso di colpa, rabbia, paura, speranza e tristezza. Il sondaggio aveva coinvolto circa 16mila statunitensi di età media compresa fra 45 e 54 anni, di cui circa la metà erano donne e circa il 73% si era dichiarato di etnia “bianca, non ispanica”. Dai risultati di questo studio era emerso che rabbia e senso di colpa porterebbero ad essere favorevoli a politiche che gravano molto sul singolo. Speranza e tristezza sembrano invece essere associate più spesso al sostegno di politiche proattive, come l’investimento nella costruzione di infrastrutture green. LEGGI TUTTO

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    Che impatto avrà il riarmo dell’Europa sulle sue politiche climatiche?

    Che impatto avrà il riarmo dell’Europa sulle sue politiche climatiche. ReArm Europe prenderà a cannonate e affonderà definitivamente il già traballante Green Deal pensato per decarbonizzare le economie della Ue? “Sicuramente assisteremo a una distrazione di risorse economiche. E già vediamo una distrazione dell’agenda politica: le politiche sono già passate in secondo piano”, risponde Matteo Leonardi, cofondatore di Ecco, think tank italiano per il clima. “Ma ci sono implicazioni indirette, che potrebbero anche essere positive”.

    Leondardi, avete già fatto una valutazione precisa di quanto costerà riarmo della Ue alla sua decarbonizzazione?
    “È presto per farlo, in termini di cifre. Ma certamente ci sono implicazioni dirette che vedremo nel breve termine. La prima è che appunto ci saranno meno risorse, proprio in un momento in cui la decarbonizzazione aveva bisogno di un input di risorse con una consistente partecipazione pubblica. Distrarre il 3% del pil su un settore che non ha nulla a che fare con la decarbonizzazione, rappresenta un grosso problema per le politiche green europee. Ancora più grosso è il problema della distrazione dell’agenda: non si tratta solo di dove trovare i soldi, ma di come costruire le politiche di cui l’Europa ha bisogno per la sua crescita, con investimenti su innovazione, industria, lavoro. Ma per costruire politiche ci vuole tempo. Anche nell’interlocuzione con i migliori e più illuminati decision maker è ormai evidente che l’agenda è cambiata. Perfino il Green Industrial Deal di qualche giorno fa è passato in secondo piano”.

    C’è anche un problema di consenso da parte dei cittadini europei?
    “È la terza implicazione diretta che vediamo: l’universo sociale che più supporta l’idea di Europa si trova spiazzato nel momento in cui l’Unione sposta la propria azione dai temi della solidarietà, delle questioni sociali, a quelli del riarmo. C’è il rischio di perdere il consenso sociale di chi fino a oggi ha sostenuto di più l’idea di Europa, proprio mentre il continente affrontare crisi all’interno e all’esterno”.

    Cosa salvate?
    “Ci sono alcune implicazioni indirette del ReArm Ue che vogliamo approfondire, perché potrebbero avere conseguenze non facilmente prevedibili al momento. La prima è che il riarmo, indipendentemente da come lo si farà, non ha alcun senso se non ci sarà una maggiore integrazione europea. Questo nuovo scenario innescherà un processo che farà superare ostacoli finora insormontabili tra i 27? Non è detto che da una cosa in cui non ci si riconosce possa nascere una maggiore unità. Poi c’è la questione del debito…”.

    È caduto il tabù?
    “Pare di sì. In tre settimane, dopo che per decenni il mantra è stato: non si può fare. E allora ci chiediamo: se l’Europa lo fa fa per le armi, perché non l’ha mai fatto per il sociale o per il clima? Inoltre, se da oggi si può fare, vuol dire che si aprono nuovi spazi per la politica. Come ha detto il premier spagnolo Sanchez: spiegateci meglio il piano, perché per la Spagna sicurezza non vuol dire fronteggiare le armate russe ma cybersecurity e sicurezza energetica”.

    Ma l’Europa cosa può fare in termini di politiche climatiche, stretta tra gli Usa di Trump e la Russia di Putin?
    “È possibile un ribilanciamento delle relazioni diplomatiche e commerciali tra Europa e Cina. Dobbiamo capire che spazio si apre, visti gli interessi reciproci. Entrambi i blocchi sono poveri di combustibili fossili, ma Pechino ha una sovracapacità di tecnologie per la decarbonizzazione, di cui ha un grande bisogno Bruxelles. Che però finora era intenzionata a metterci i dazi. Nella nuova situazione, la Ue metterà comunque i dazi sui pannelli fotovoltaici cinesi? Se li importi è perché ti fidi, e per fidarti vuol dire che hai spostato un po’ l’asse verso Est. In questo momento non è nell’interesse e nelle possibilità economiche dell’Europa finanziare un esercito e contemporaneamente avviare una industria di pannelli fotovoltaici fatti nel bresciano, per dire. Mentre di sicuro abbiamo la necessità di procurarci energia a prezzi convenienti”.

    Tornando alle parole di Sanchez: la sicurezza si fa con le armi o con l’indipendenza energetica?
    “La sicurezza dell’Europa passa necessariamente per l’energia e per la sua governance. E anche qui servirebbe una Europa più integrata. E poi: chi è l’alleato in questo caso? Gli Stati Uniti? Ma se ci costringono a riarmaci, potremo poi fidarci di loro come fornitori di gas? E della Russia ci possiamo fidare? Sappiamo la risposta. E viene in effetti d chiedersi se il vero problema dell’Europa non sia proprio l’indipendenza energetica. Sapendo che le tecnologie rinnovabili ci offrono l’alternativa”.

    Questo ritorno ai blocchi è la fine del multilateralismo e quindi anche delle Conferenze Onu sul clima?
    “La sensazione è che tutti i processi multilaterali, dalle Cop al G7, stiano perdendo valore e si pongano obiettivi sempre meno ambiziosi. Ma si dovrà vedere quale sarà il nuovo equilibrio. La Cina è un grosso difensore del multilateralismo. Qualcuno ha detto: o sei seduto al tavolo o sei nel menù. Pechino lo sta mettendo in pratica. Come Europa, cerchiamo di non finire nei menù”. LEGGI TUTTO

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    Lavori green, l’apicoltore: “Nelle arnie il segreto del cibo sano”

    Chiamarlo lavoro, è riduttivo. Una passione? Le api e l’apicoltura possono essere entrambe le cose”. Parole chiare quelle di Giuseppe Cefalo, presidente dell’Unaapi (l’associazione che riunisce gli apicoltori italiani) e imprenditore agricolo. Cinquant’anni, irpino, una laurea in Economia, alla spalle una famiglia impegnata in agricoltura da cinque generazioni: producono olio e miele. ”Ho iniziato ad occuparmi di apicoltura dopo la laurea, perché in casa avevamo le arnie lasciate da mio nonno. Alcune risalivano addirittura al 1922, è stato lui a trasferirmi la passione per le api. Ho cominciato gradualmente finché ho capito che quel mondo affascinante, poteva diventare davvero anche il mio lavoro”.

    Una professione di grande responsabilità, l’apicoltore. Non solo perché le specie di cui si occupa sono considerate a rischio estinzione (in Europa in trent’anni il numero delle api si è ridotto del 70%), ma anche perché il ruolo di questi insetti è considerato cruciale, visto che influisce sull’intero ecosistema. ”Basti pensare che l’impollinazione è essenziale per la produzione di cibo a livello globale. Oltre il 70% della produzione agricola mondiale di frutta, verdura, ortaggi e semi dipende dagli insetti impollinatori, di cui le api sono la specie più numerosa e importante”, tiene a sottolineare Giuseppe Cefalo, che oggi gestisce 600 alveari. LEGGI TUTTO

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    Balena ritrovata a Trieste: lo scheletro verrà recuperato e studiato

    Dallo scorso 30 agosto, data della morte, è laggiù, sotto i pontili di Porto San Rocco, a Muggia, ultimo comune del Friuli-Venezia Giulia. Ora quel che resta di una “balenottera comune” aiuterà a comprendere i misteri che ancora avvolgono una specie straordinaria, il secondo animale più grande del pianeta. Ed è per questo che dopo il trasporto al largo e l’affondamento della carcassa in una zona portuale off-limits, l’area marina protetta di Miramare ha avviato un’attività di monitoraggio subacqueo sui resti dell’animale. Attorno ai quali si sono immersi, in questi giorni, i ricercatori Saul Ciriaco e Marco Segarich, animati dal desiderio di rispondere a interrogativi più o meno comuni. Per esempio: in quanto tempo si decompone la carcassa di una balena? E ancora: quali processi biochimici si attivano sott’acqua? Quanti dati può offrire e quali storie può raccontare l’analisi e lo studio del suo scheletro, del cranio, delle vertebre, dei fanoni?

    Biodiversità

    Senza l’impatto dell’uomo le balene vivono molto più a lungo di quanto credevamo

    03 Gennaio 2025

    Il contributo alla salute dell’oceano
    Le attività, che procedono con il coordinamento della Capitaneria di Porto di Trieste, hanno già mostrato che il processo di decomposizione è in stato avanzato: circa il 90% dei tessuti molli della balena non è più presente, decomposto o predato. Proprio in questi giorni, del resto, uno studio guidato dall’Università del Vermont pubblicato su Nature Communications ha evidenziato come le balene contribuiscano in modo determinante al sostentamento nutritivo di molte specie oceaniche anche indirettamente, attraverso le loro carcasse, che nutrono ‘spazzini’ del mare (squali tigre e grandi elasmobranchi), non di rado interessati a seguire le grandi rotte migratorie dei cetacei proprio con il malcelato obiettivo di trarne giovamento. E non finisce qui. LEGGI TUTTO

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    Dai pesi alle scarpe, così il fitness diventa sostenibile

    Allenarsi tonifica l’organismo, migliora l’umore, tiene alla larga molte malattie. E potrebbe anche aiutare l’ambiente. È ciò che accade nelle palestre ecologiche, che si stanno gradualmente diffondendo, dove sono presenti luci Led, soffioni per la doccia a risparmio idrico, rubinetti a basso flusso, bidoni per differenziare i rifiuti, bottigliette per l’acqua riutilizzabili. Alcune strutture, poi, vanno oltre, proponendo macchine e attrezzi green.

    Produrre energia elettrica pedalando
    Una nuova generazione di macchinari sfrutta, per esempio, il movimento degli utenti per generare elettricità. Pare che i primi tentativi in tal senso risalgano al 2007, quando il California Fitness Club di Hong Kong impiegò una tecnologia in grado di convertire l’energia cinetica in energia elettrica. Su questa scia, l’anno successivo, il personal trainer Adam Boesel fondò, in Oregon, negli Stati Uniti, The Green Microgym, la cui sfida era quella di avvicinarsi il più possibile all’autosufficienza energetica proprio attraverso l’allenamento dei clienti. Così creò una spin bike capace di trasformare, tramite il collegamento a un generatore, le pedalate in corrente. “Le mie palestre consumano circa l’85% in meno di elettricità e hanno un’impronta di carbonio che ammonta a circa un decimo rispetto a quella di una palestra tradizionale”, quantifica il proprietario.

    Oggi lo stesso meccanismo della bicicletta viene applicato anche a step, cyclette, tapis roulant. Tra le aziende che producono attrezzature di questo tipo c’è anzitutto SportsArt, che offre anche prodotti eco-friendly per la riabilitazione.

    Dal legno alla gomma, fino al sughero
    Un’altra sfida è quella dei materiali. Dalle balance ball ai rulli addominali, molti attrezzi prodotti in serie e di plastica possono, in realtà, essere realizzati anche con materiali naturali, rinnovabili, riciclabili e a basso impatto. L’azienda Nohrd crea, per esempio, vari macchinari con legni duri, come ciliegio, noce, quercia, provenienti da foreste degli Appalachi gestite in modo sostenibile. Tra le proposte, SlimBeam, attrezzo a cavi con sistema a doppia puleggia; WaterGrinder, macchina che simula il lavoro del velista; WaterRower, vogatore che utilizza una tecnologia basata sul principio della resistenza dell’acqua.

    Anche il produttore finlandese FitWood punta, come suggerisce il nome stesso, sul legno: con questo materiale, derivante da foreste scandinave sostenibili, crea anelli da arrampicata e spalliere di alta qualità. A partire da gomma di pneumatici recuperati, plastica riciclata, acciaio, il marchio svedese Eleiko produce, invece, pesi per un allenamento a 360 gradi.

    E ancora, Paragon propone corde in pelle per saltare, mentre Casall realizza tappetini da yoga in sughero, estratto a mano senza danneggiare o abbattere gli alberi. In più, per chi volesse, molti di questi attrezzi sono perfetti anche da utilizzare a casa.

    Abbigliamento sportivo eco-friendly
    Importante pure scegliere l’abbigliamento giusto. Si calcola che ogni anno la produzione di capi sportivi in poliestere provoca oltre 700 milioni di tonnellate di emissioni di carbonio e utilizza una quantità di petrolio pari a quella che servirebbe per alimentare 47mila navi da crociera. Ma le alternative, per fortuna, non mancano. Allbirds, per esempio, realizza scarpe da ginnastica utilizzando fibre naturali come lana, canna da zucchero, eucalipto. Inoltre, i suoi lacci vengono creati a partire da bottiglie di plastica riciclata, mentre le solette contengono olio di ricino.

    Community Clothing, impresa con sede nel Regno Unito, ha di recente messo a punto la linea Organic Athletic, che comprende indumenti di cotone biologico certificato, elastici in gomma naturale, istruzioni per manutenzione e lavaggio scritte con un inchiostro non tossico a base d’acqua. L’azienda sta, inoltre, collaborando con varie università per sviluppare nuovi materiali sostenibili. Tra questi, l’acetato di cellulosa, una fibra di origine vegetale che può essere facilmente riciclata. LEGGI TUTTO