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    “Europa leader nel cleantech ma non basta”

    Affrontare la crisi climatica e promuovere la sostenibilità ambientale. Nel panorama degli investimenti europei, il settore del Climate Tech, sta emergendo sempre più come un driver chiave della trasformazione economica e tecnologica del Continente. Abbiamo fatto il punto con Gelsomina Vigliotti, vicepresidente della Banca Europea per gli Investimenti, che sarà ospite del G&B Festival di Milano il 7 giugno alle ore 16:30.

    Nonostante le turbolenze economiche globali, si parla di crescita del mercato cleantech. Vigliotti, a che punto siamo?
    “L’Europa è oggi leader nel cleantech, grazie a politiche climatiche ambiziose e a un ecosistema innovativo che genera il 30% dei brevetti mondiali. Nel 2024, gli investimenti hanno superato gli 8,8 miliardi di euro, pari al 22% dei flussi globali. È la fase di scale-up che resta un nodo critico: servono strumenti finanziari più forti e mirati per trasformare le tecnologie verdi in industrie su larga scala. Per questo il ruolo degli attori pubblici è essenziale per attrarre capitali e rafforzare la fiducia del mercato”.Il cleantech europeo sta guadagnando slancio. Qual è il vostro ruolo?
    “Negli ultimi 5 anni, tramite il FEI, abbiamo investito 2,7 miliardi in 75 fondi specializzati di cleantech, ai quali si aggiungono i circa 18 miliardi di euro investiti dalla BEI in progetti che hanno una forte componente climatica-tecnologica. Tuttavia, notiamo che molte delle startup più promettenti faticano a trovare capitali adeguati per crescere in Europa e finiscono per essere acquisite da investitori esteri. Per invertire questa tendenza, abbiamo creato la European Tech Champions Initiative: un programma che punta a sostenere la creazione di 10-15 grandi fondi VC – ciascuno con almeno un miliardo di euro – per finanziare la crescita dei talenti tecnologici e ad assicurarsi che questi abbiano le risorse per crescere e restare in Europa”.In Italia emergono segnali incoraggianti. Qual è la scena Cleantech?“Secondo i dati di Cleantech for Italy, i finanziamenti sono cresciuti negli ultimi 5 anni, toccando un picco nel 2023 e restando solidi anche nel 2024 con circa 230 milioni di euro raccolti. L’Italia vede le sue startup cleantech nascere soprattutto nei settori agrifood, chimico e dei materiali. Per valorizzare questi punti di forza, è cruciale supportare spin-off universitari e partnership industriali, favorendo la scalabilità e l’adozione delle tecnologie pulite. Con la maturazione dell’ecosistema, crescerà anche il bisogno di finanziamenti per la fase di scale-up e commercializzazione: servono equity late-stage di massa critica e soluzioni di debito per sostenere investimenti industriali più consistenti”.

    Quali sono le iniziative di BEI per l’innovazione del clima?
    “In uno scenario geopolitico complesso, con il clima ormai ai margini dell’agenda internazionale, BEI ribadisce il suo ruolo di banca del clima Ue: lo scorso anno abbiamo destinato il 60% della nostra attività – oltre 50 miliardi di euro – a favore della transizione verde. E stiamo sviluppando nuovi pacchetti finanziari per sostenere i produttori europei di reti elettriche, oltre che gli investimenti delle PMI in efficienza energetica. Inoltre, a breve lanceremo TechEU: il più grande programma europeo a favore dell’innovazione tecnologica che mira ad attivare investimenti per 250 miliardi di euro entro il 2027, con un forte focus su investimenti in intelligenza artificiale, cleantech, healthtech”.

    In che altro modo supportate il climate tech?”Abbiamo avviato partnership pubblico-private per finanziare tecnologie climatiche, tra cui Breakthrough Energy Catalyst di Bill Gates. Inoltre, un esempio di successo finanziato tramite questa partnership è Energy Dome, startup milanese che ha sviluppato una batteria basata sulla conversione della CO?: i 25 milioni in Venture Debt della BEI e i 35 milioni in sovvenzioni Breakthrough Energy Catalyst stanno contribuendo alla costruzione del primo impianto su larga scala in Sardegna”.

    Altri esempi di sostegno in Italia?“L’anno scorso abbiamo investito in BeDimensional, startup genovese nata dall’IIT che sviluppa cristalli bidimensionali con proprietà termiche ed elettriche avanzate, e in Tau Group, startup torinese attiva nella produzione di filo ecosostenibile ad alte prestazioni per l’automotive. Inoltre, grazie agli investimenti FEI nei fondi MITO e Linfa Ventures, abbiamo sostenuto indirettamente i-Foria — che ricicla prodotti in cellulosa con soluzioni innovative – e Soplaya, che digitalizza e aggrega ordini per i ristoranti, riducendo sprechi alimentari ed emissioni di CO?”. LEGGI TUTTO

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    Se la geopolitica dimentica di salvare la Terra

    La Giornata dell’Ambiente, dedicata quest’anno alla lotta contro l’inquinamento della plastica, vede l’impegno per la difesa del clima indebolito dal duello strategico fra Usa e Cina. Il 2024 è stato l’anno più caldo di sempre, violando per la prima volta i limiti al surriscaldamento dell’atmosfera stabiliti dall’Accordo di Parigi, con una serie di eventi estremi — dai grandi incendi ai cicloni tropicali — che hanno causato il più alto numero di senzatetto dal 2008, secondo le stime dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo).

    Questa onda di devastazioni dovute al surriscaldamento del clima avrebbe dovuto portare le maggiori potenze industriali ad accrescere gli impegni presi per la riduzione dei gas nocivi, fino all’obiettivo di azzerarli. Ma quanto sta avvenendo sul terreno è l’esatto opposto.

    Le promesse della Cina di arrivare a “quota zero” nel 2060 e dell’India nel 2070 si allontanano nel tempo con un percorso parallelo agli Stati Uniti, che il presidente Donald Trump ha portato fuori dagli Accordi di Parigi. Mentre l’Unione Europea, pur mantenendo l’obiettivo di “zero emissioni” del 2050, si avvia ad una delicata revisione della tappa intermedia del 2040 destinata ad avere conseguenze di lungo termine, con l’allentamento di molti parametri. Si tratta di una chiara inversione di rotta rispetto al “Green Deal” firmato da Ursula von der Leyen durante il primo mandato da presidente della Commissione europea.

    Per comprendere la genesi di questa globale inversione di tendenza bisogna partire dalla guerra dei dazi che oppone anzitutto Washington e Pechino. Le decisioni di Trump di uscire dall’intesa di Parigi, bloccare i “fondi verdi” alle banche previsti dall’“Inflaction Reduction Act” di Joe Biden, sospendere le autorizzazioni ai nuovi progetti di energia rinnovabile e di espandere l’estrazione dei carburanti fossili nascono dalla convinzione che le politiche per lo sviluppo dell’energia “verde” costituiscono una “minaccia alla sicurezza nazionale” per via del fatto che implicano l’aumento dell’importazione di materiali e tecnologia dalla Cina. È un timore che nasce dalla supremazia di Pechino in alcuni mercati strategici, dai pannelli solari alle batterie verdi, e la scelta di Xi Jinping è stata di rilanciare su questo terreno immaginando, attraverso alcuni suoi consiglieri, un “Piano Marshall per la tecnologia pulita” destinato a creare una coalizione internazionale di Paesi sempre più legati, sul piano strategico, alla Cina.

    Come ben riassume Huang Yiping, rettore dell’Istituto di cooperazione e sviluppo Sud-Sud dell’Università di Pechino, “il piano di Xi può stimolare la domanda per manifatture cinesi sostenendo la trasformazione verde a livello globale”. Diplomatici cinesi sono stati nelle ultime settimane in missione nelle isole del Pacifico per declinare singole versioni del “Piano Marshall” e Pechino ha iniziato un pressing anche sulle capitali della Ue per offrire l’accelerazione dei legami commerciali proprio sulla base della convergenza sulla difesa dell’ambiente. Poco importa che Pechino ha la responsabilità di un terzo delle emissioni nocive del Pianeta e, assieme a New Delhi, guida all’interno del G20 un fronte di “falchi” convinto che il Sud Globale ha una sorta di diritto storico nell’usare più a lungo i gas serra perché i Paesi occidentali “colpevoli della colonizzazione” avrebbero accumulato un vantaggio nello sviluppo che ora deve obbligarli a frenare prima sulle emissioni rispetto a Paesi asiatici, africani e latinoamericani.

    Ciò che tiene assieme i tasselli del mosaico del Dragone è la scelta strategica di trasformare la difesa del clima in un tassello della sfida globale alle democrazie, per separare gli Usa dall’Europa, ed accelerare la corsa verso la leadership del pil del Pianeta. Anche per questo gli investimenti sulla collaborazione “green” di Xi guardano anzitutto ai Paesi con cui condivide la “Nuova Via della Seta”, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai ed il forum delle economie “Brics”: Russia, Brasile, India e Sudafrica.

    La commistione che si viene a creare fra decarbonizzazione e geopolitica spiega perché due senatori repubblicani vicini alla Casa Bianca, Bill Cassidy e Lindsey Graham, propongono il “Foreign Pollution Free Act” per sostenere l’esistenza di un “legame fra le azioni legislative su clima, sicurezza nazionale, economia ed energia” legittimando la politica di tariffe contro la Cina anche per difendersi dallo sviluppo di tecnologie rinnovabili “importate”.

    È questo scenario che pesa sull’Unione Europea impegnata da una parte a negoziare sui dazi con Washington per arrivare ad un’intesa entro inizio luglio e dall’altra a difendere quanto possibile il “Green Deal”. Senza per questo essere obbligata ad entrare nella sfera d’influenza del “Piano Marshall” del Dragone. Insomma, la geopolitica ruba il palcoscenico del clima a ciò che resta delle manifestazioni di Fridays for Future mentre il surriscaldamento dell’atmosfera accelera. LEGGI TUTTO

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    Il glaciologo Felix Keller: “Così possiamo salvare i ghiacciai”

    Nel cuore delle Alpi svizzere, dove le cime si specchiano nei laghi cristallini e il silenzio è interrotto solo dal sussurro del vento, si racconta una storia di resistenza e speranza. Proprio qui Felix Keller, docente del dipartimento di Scienze dei sistemi ambientali al Politecnico di Zurigo, ha dato vita, con la passione di un artigiano e la determinazione di un custode del tempo, il progetto MortAlive per proteggere i ghiacciai. Un piano audace, un gesto d’amore verso la montagna, un tentativo di preservare un patrimonio prezioso, che rischia di scomparire a causa del progressivo innalzamento delle temperature globali.
    Un’idea nata per caso
    L’idea gli balenò sette anni fa. Il naturalista stava pranzando con un collega, che gli disse: “Dato che sei un glaciologo, dovresti impegnarti per salvare i nostri ghiacciai”. “Scordatelo, non c’è modo di farlo”, fu la risposta. Ma il giorno dopo, mentre pescava in un torrente, Keller iniziò a pensarci su. Appassionato di violino, era solito trascorrere mezz’ora ogni mattina a esercitarsi. “Suonare apre la mente”, sostiene. “Mi aiuta a trovare nuove soluzioni”. LEGGI TUTTO

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    Tutti i numeri della crisi climatica

    Giornate cononde di calore e anomalie mediedi temperatura
    2024, anno dei record. Spicca l’ennesimo record di temperature globali registrato dal programma europeo Copernicus che indica il 2024 come l’anno più caldo da inizio registrazioni con, per la prima volta, il superamento della soglia di 1,5 °C sopra i livelli pre-industriali.

    Il mese di novembre 2024 è stato il secondo più caldo a livello globale, dopo il novembre 2023, con una temperatura media dell’aria superficiale di 14,1°C, +0,7°C al di sopra della media di quel mese del periodo compreso tra il 1991 e il 2020. Il novembre 2024 è stato di 1,6°C al di sopra del livello pre-industriale ed è stato il 16° mese in un periodo di 17 mesi in cui la temperatura superficiale media globale dell’aria ha superato di 1,5°C i livelli pre-industriali. Anche la temperatura superficiale media marina per il mese di novembre 2024 ha registrato livelli record, con 20,6°C, il secondo valore più alto registrato per il mese, e solo 0,13°C al di sotto del novembre 2023. LEGGI TUTTO

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    Rinnovabili, il solare va bene mentre l’eolico vola

    Bene, ma non abbastanza. Si può riassumere così il cammino globale delle energie rinnovabili nel corso del 2024 e nei primi mesi del 2025. Bene, perché in tutto il mondo, sono stati aggiunti quasi gigawatt di potenza fotovoltaica e 117 di eolica. Non abbastanza, in quanto la crescita non riesce ancora a raggiungere i livelli necessari per centrare l’obiettivo globale di triplicare l’energia rinnovabile entro il 2030 fissato alla Cop28 di Dubai: ciò richiederebbe una crescita della capacità del 16,6% ogni anno fino al 2030, mentre l’anno scorso l’aumento è stato del 15,1% rispetto al 2023, raggiungendo i 4.448 gigawatt totali. Il che fa dire all’Agenzia internazionale per l’energia (Iea): “Prevediamo che la capacità globale di energia rinnovabile crescerà di 2,7 volte entro il 2030, superando le attuali ambizioni dei Paesi di quasi il 25%, ma non riuscendo a triplicarla”.

    Il boom del solare
    Nel dettaglio, gli impianti solari nel 2024 hanno fatto registrare un impressionante aumento del 33% rispetto all’anno precedente (ma nel 2023 si era toccato addirittura un +85%). Il solare ha rappresentato l’81% di tutta la nuova capacità di energia rinnovabile aggiunta a livello mondiale. Pur restando un contributo modesto alla produzione complessiva di elettricità, la quota del solare è salita al 7% nel 2024, quasi raddoppiando in soli tre anni. Merito della “migrazione” degli investimenti.

    Secondo la Iea, tra il 2015 ed il 2024, gli investimenti globali in combustibili fossili sono scesi da 1.374 miliardi di dollari a 1.116, mentre quelli nel settore delle energie pulite sono incrementati del 78%, passando da 1.080 miliardi di dollari nel 2015 a ben 1.923 miliardi nel 2024.La produzione di elettricità fotovoltaica è dominata dalla Cina. Ma nel 2024 gli Stati Uniti hanno raggiunto un record di 50 gigawatt, con un aumento del 54%. E l’India ha registrato una notevole ripresa, con un aumento del 145% a 30,7 gigawatt, riconquistando il terzo posto. Spagna, Italia e Giappone si collocano al 6°, 8° e 9° posto, con installazioni rispettivamente di 8,7, 6,8 e 6,2 gigawatt.

    Il record dell’eolico

    L’industria eolica, invece, nel 2024 ha installato un record di 117 gigawatt di nuova capacità a livello globale. In prospettiva futura, lo scorso anno è stata assegnata in tutto il mondo una capacità eolica offshore di 56,3 gigawatt. L’Europa ha fatto da apripista, con 23,2 gigawatt assegnati in Europa, seguita dalla Cina con 17,4.Considerando la capacità rinnovabile installata totale, inclusi solare ed eolico, la Cina ha raggiunto 1.456 gigawatt nel febbraio 2025, superando per la prima volta la capacità di energia termica. Il boom di fotovoltaico ed eolico impone una accelerazione nei sistemi di accumulo. E in effetti nel 2024 sono stati installati in Europa 21,9 GWh, segnando l’undicesimo anno consecutivo di installazioni record e portando la flotta di batterie totale europea a 61,1 GWh. Tuttavia, il tasso di crescita annuale è rallentato al 15% nel 2024, dopo tre anni consecutivi di raddoppio della capacità aggiunta.
    L’Europa e l’Italia
    Dopo la Cina, l’Unione europea è l’area in cui le rinnovabili sono cresciute di più tra il 2017 e il 2023. Un secondo posto che, secondo la Iea, la Ue conserverà anche nel periodo 2024-2030, con 552 gigawatt in più rispetto ai 498 degli Stati Uniti. E nello scenario più ottimistico, l’Europa al 2030 si troverà a ospitare il 13% della capacità rinnovabile installata, contro il 45% della Cina e il 9% degli Usa.E in Italia? A monitorare la situazione nel nostro Paese, tra gli altri, è Legambiente che poche giorni fa ha pubblicato l’edizione 2025 del suo storico rapporto Comuni Rinnovabili. “Vent’anni di nuove installazioni hanno permesso di arrivare, alla fine del 2024, a una copertura del 41,2% del fabbisogno elettrico nazionale”, scrivono gli esperti dell’associazione.

    “Una rivoluzione che non ha portato solo megawatt installati, ma anche ad una crescita di posti di lavoro nel settore e che nel mondo tocca quota 16 milioni di unità, di cui 1,81 milioni nell’Unione europea e 212mila in Italia, seconda tra gli stati membri dopo la Germania”.
    Chi produce i pannelli
    Resta uno squilibrio cruciale per il futuro delle rinnovabili e l’indipendenza energetica: ancora nel 2030 la Cina sarà il principale produttore di tecnologie per il fotovoltaico, con oltre l’80% del mercato. Nel frattempo altri Paesi potrebbero aver recuperato terreno, soprattutto Stati Uniti e in India. “Anche se oggi – fa notare la Iea – costruire moduli fotovoltaici negli Usa e in India costa da due a tre volte di più che in Cina. Un divario destinato a perdurare nel prossimo futuro”.

    L’articolo è tratto dal numero di Green&Blue in edicola il 4 giugno, allegato a Repubblica e dedicato al Festival di Green& Blue (Milano, 5-7 giugno)
    La partecipazione al G&B Festival è gratuita previa registrazione. LEGGI TUTTO

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    Jessica McKenzie: “Fermiamo l’Orologio dell’Apocalisse, non c’è più tempo da perdere”

    C’è un tic-tac che non indica il tempo che passa, ma è il suono della consapevolezza che dovremmo avere. Se impareremo ad ascoltarlo – sostiene la giornalista americana Jessica McKenzie – forse ci renderemo conto davvero che “non c’è più tempo da perdere” e allora cominceremo a intervenire per cambiare l’inesorabile scadenza a cui siamo destinati. La scadenza in atto è quella dell’Orologio dell’Apocalisse, il famoso “Doomsday clock”. Uno strumento, simbolico ma estremamente efficace, che da quasi ottant’anni ci ricorda i rischi per la sicurezza globale derivanti dall’accelerazione dei progressi tecnologici, quelli che possono avere conseguenze negative per le vite di tutto il Pianeta.

    Il programma

    G&B Festival 2025, dal 5 al 7 giugno a Milano: il programma

    31 Maggio 2025

    Nel 1945 furono Albert Einstein, J. Robert Oppenheimer e altri scienziati dell’Università di Chicago a creare il Bulletin of the Atomic Scientist, l’organizzazione no profit che due anni dopo ideò l’orologio con l’idea di usare l’immaginario dell’apocalisse, ovvero la mezzanotte, per darci conto di come le esplosioni nucleari e altri fattori potessero minacciare l’umanità.

    Dopo la Guerra Fredda però l’orologio, pur sempre con un’attenzione al rischio nucleare, è stato doverosamente aggiornato inserendo nel suo tic-tac anche le minacce legate ai cambiamenti climatici innescati dalle emissioni umane e all’effetto delle tecnologie più dirompenti, tra cui quelle dei combustibili fossili e oggi anche di un uso errato dell’intelligenza artificiale. Dall’avvento di internet ogni gennaio il Bulletin of Atomic Scientist ci dà conto sul web di come si stanno spostando le lancette e metaforicamente nel 2024 si è arrivati al punto più vicino alla mezzanotte: mancano infatti solo 89 secondi all’Apocalisse, uno in meno rispetto ai 90 dell’anno precedente.

    Un secondo potrebbe sembrarci poco, ma come spiega Jessica McKenzie, giornalista del Bulletin of the Atomic Scientists che al Festival di Green&Blue venerdì 6 giugno alle ore 18:30 racconterà in dettaglio quanto siamo vicini alla fine del mondo, è un’unità di tempo che contiene una marea di informazioni. Ad esempio il fatto che stiamo superando diversi punti di non ritorno potenzialmente irreversibili: “Penso alla foresta pluviale amazzonica che si sta trasformando da pozzo a fonte di carbonio, alla perdita della calotta glaciale della Groenlandia, al collasso della circolazione atlantica meridionale” ricorda McKenzie, specificando però come potremmo ancora allungare il tempo di avvicinamento all’apocalisse “attraverso drastici tagli alle emissioni di gas serra”. Sfruttare i “punti di svolta positivi” come ad esempio le energie rinnovabili – sostiene la giornalista appassionata di natura e di trekking e i cui articoli sono stati pubblicati anche su The New York Times e National Geographic – “sarà fondamentale per scongiurare il peggio della crisi climatica” anche se purtroppo gli attuali segnali che arrivano dall’amministrazione Donald Trump negli Stati Uniti vanno nella direzione opposta, dato che “ha sistematicamente attaccato e indebolito l’azione per il clima e la ricerca”.

    Editoriale

    Ascoltiamo la scienza

    di Federico Ferrazza

    03 Giugno 2025

    A queste criticità vanno poi aggiunti i rischi nucleari che, soprattutto con la guerra in Ucraina, sono sempre presenti; così come quelli biologici dettati da malattie “emergenti e riemergenti” scrivono dal Bullettin, fra cui per esempio la “persistenza dell’influenza aviaria”, e infine quelli legati all’intelligenza artificiale che necessita di regole più ferree per evitare che in futuro le macchine prendano al posto nostro perfino “decisioni militari”. Se però ascolteremo bene il ticchettio dell’Orologio dell’Apocalisse, conclude la giornalista, allora ci renderemo conto come le lancette non vogliono “terrorizzare le persone ma ricordare loro che queste minacce sono create dall’umanità, la stessa che può anche trovare le soluzioni per salvarci”.

    La partecipazione al G&B Festival è gratuita previa registrazione. LEGGI TUTTO

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    Dal frigo alla tavola, ecco come sprechiamo il cibo e cosa fare per evitarlo

    Alzi la mano chi, andando al supermercato, non si è mai lamentato dell’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari? Ed ora alzi la mano chi non ha mai sprecato quel cibo tanto prezioso, per negligenza o dimenticanza in fondo al frigorifero? Sì, può capitare. Ma un italiano su tre getta cibo ogni settimana. Più al sud che al centro-nord. A dircelo è un’indagine condotta per Too Good To Go – l’app sviluppata proprio per contrastare lo spreco alimentare – realizzata con YouGov, che ha analizzato il rapporto di noi italiani nei confronti del cibo, (un campione di 1015 adulti) rivelando abitudini quotidiane spesso contraddittorie, a volte sbagliate.

    Bisogna dire però, a nostra discolpa, che il 99% degli intervistati riconosce l’importanza di ridurre lo spreco e che il 78% considera la lotta allo spreco come una priorità. Quindi c’è tanta consapevolezza, ma non è ancora sufficiente se il 31% ammette di buttare il cibo nella spazzatura almeno una volta a settimana: al Sud si sale al 38% che arriva al 44% tra i genitori con figli minorenni. LEGGI TUTTO

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    Il cortocircuito dei movimenti

    I movimenti per il clima oggi stanno vivendo un cortocircuito: la sensazione è che una volta trovato l’inghippo possano sprigionare una nuova e potente luce di battaglia, ma per ora è il buio a prevalere. In tempi di negazionismi e nazionalismi, di guerre e di politiche oscurantiste targate Donald Trump, le folle oceaniche di giovani pronti a scendere in piazza per chiedere giustizia climatica e un futuro diverso da quello prospettato dalle attuali tendenze del riscaldamento globale appaiono infatti lontanissime. Eppure, soltanto pochi anni fa, l’onda verde era in grado persino di avere un peso politico: i primi scioperi per il clima globali guidati da quella Greta Thunberg che affrontava a muso duro proprio Donald Trump, poi le piazze locali – come in Italia – riempite in ogni città di giovani di Fridays For Future decisi a chiedere a politici e governi di agire subito contro le emissioni e ancora le proteste dei 100 mila di Glasgow, alla COP26, dove sotto le bandiere di Extinction Rebellion migliaia di giovani, ma anche adulti, manifestavano per il clima. Oppure i raduni dei giovanissimi, come quelli di Milano dei “Youth4Climate” e tutte quelle proteste diffuse dall’Africa sino agli Usa passando per la Conferenza sul clima in Egitto. Erano tempi di colore e di cartelli, poi il Covid ha azzerato tutto. Senza più la possibilità di radunarsi e far sentire un coro unico, i movimenti dell’onda verde si sono spenti e disgregati: alcuni sono passati alla politica, come molti giovani di Fridays che hanno provato a candidarsi con i partiti, altri alle azioni forte ed eclatanti, come le vernici di Ultima Generazione o i blitz di Extinction Rebellion, supportati anche da nuove costole fatte di adulti laureati, come Scientist Rebellion.

    Il programma

    G&B Festival 2025, dal 5 al 7 giugno a Milano: il programma

    20 Maggio 2025

    Nel frattempo i teatri chiave delle proteste, le COP climatiche dove chiedere davanti ai leader del mondo di agire per rispettare l’Accordo di Parigi e restare sotto i +1,5 gradi, si sono trasformati in palcoscenici silenziati: con tre Conferenze di fila in Paesi regni dei combustibili fossili e dei diritti negati, dall’Egitto fino agli Emirati Arabi del petrolio o l’Azerbaijan del gas, la voce dell’onda verde si è così trasformata letteralmente in un tiepido mugugno. Proprio a Baku, nel nuovo clima di repressione, i movimenti hanno sì protestato, ma solo con versi e con la mano sulla bocca per non incorrere in sanzioni e arresti. Il nuovo scenario globale, dagli Usa di Trump che escono dall’Accordo di Parigi sino ai disegni legge italiani repressivi nei confronti delle proteste e all’attenzione mediatica tutta rivolta esclusivamente sulle guerre, ha poi fatto il resto: i movimenti verdi oggi esistono ancora ma appaiono oggi frazionati, depotenziati, perennemente in attesa di riprendere forza.

    Eppure, racconta un interessante ricerca apparsa su Nature, in un studio basato su 130mila intervistati di 125 Paesi è emerso come l’89% delle persone in tutto il mondo vorrebbe che si facesse di più per proteggere il clima e crede nella necessità di continuare questa battaglia. Ma, e questo fa parte anche del cortocircuito dei movimenti, gli stessi intervistati hanno raccontato di presumere – erroneamente – che altre persone non sostengano questa necessità. Addirittura il 69% delle persone si è detto disposto a contribuire con l’1% del proprio reddito personale pur di sostenere azioni e norme pro-clima, ma non avendo più la sensazione che ci sia un’onda globale unita pronta a battersi contro l’avanzata del surriscaldamento planetario – che nel frattempo è peggiorato – queste stesse persone restano inermi, come se attendessero che il pulsante della lotta venga riacceso chissà da chi. La speranza, e qui sta la buona notizia, è che una serie di nuovi fattori oggi potrebbero presto riaccendere la luce e riunire le varie facce della protesta climatica in modo da stimolare i governi a una azione concreta. Ci sono infatti una serie di “aumenti” che oggi uno dopo l’altro stanno portando nuova corrente alla ripresa dei movimenti: in primis la crescita delle persone e degli attivisti che, dagli Usa sino all’Europa, dai campus sino alle piazze si stanno unendo per combattere le politiche di negazione e smantellamento della scienza di Trump. E poi la fiducia, crescente, che il nuovo Papa Leone XIV possa dare nuova linfa all’impegno climatico iniziato da Bergoglio, così come l’attenzione in ascesa nei confronti di quella che sarà, dopo anni, la prima Cop fuori dai petrol-stati e che si svolgerà al contrario nel cuore della sofferente Amazzonia, in Brasile. Questi aspetti, uniti alle evidenze dell’aumento delle temperature, degli incendi e la siccità, degli eventi estremi e della perdita di biodiversità, potrebbero rilanciare la forza dell’onda verde, a un patto però: per dare nuova linfa ai movimenti serve assolutamente anche il coinvolgimento delle nuovissime generazioni, di quei i teenager e giovanissimi che, dopo l’onda di Greta, oggi faticano a scendere in prima linea nella lotta per il clima. LEGGI TUTTO