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    Sul Kilimangiaro è scomparso il 75% delle specie vegetali in un secolo

    Sui pendii della montagna più alta dell’Africa, il Kilimangiaro, ci sono sempre meno specie di piante. A lanciare l’allarme è oggi un nuovo studio dei ricercatori dell’Università di Bayreuth, in Germania, secondo cui nell’ultimo secolo la perdita delle specie vegetali naturali sulle pendici inferiori del Kilimangiaro è stata pari al 75%. Un preoccupante declino della biodiversità che, secondo gli autori, non sarebbe stato direttamente causato dai cambiamenti climatici, bensì da pressioni antropiche, e in particolare dai cambiamenti nell’uso del suolo. I dettagli sono stati pubblicati sulla rivista Plos One. Il Kilimangiaro e i suoi ecosistemi Milioni di persone che vivono nelle aree vicine alla montagna dipendono dai suoi ecosistemi, ad esempio per il legname, il cibo e le risorse idriche. Tuttavia, come già suggerito da ricerche precedenti, la biodiversità presente in questi ecosistemi è gravemente minacciata da molteplici fattori, come i cambiamenti climatici, l’inquinamento, l’introduzione di specie invasive, l’estrazione di risorse e il cambiamento nell’uso del suolo. Comprendere non solo quali siano gli effetti ma anche le cause dirette del calo della biodiversità sul Kilimangiaro, così come su altre montagne tropicali, è quindi fondamentale per orientare al meglio gli sforzi di mitigazione.

    L’analisi
    Ed è proprio in questa direzione che si sono focalizzati gli autori del nuovo studio. Hanno, infatti, analizzato mappe storiche, dati di censimento, immagini satellitari e un set di dati ad alta risoluzione spaziale di circa 3 mila specie vegetali presenti in diverse parti della regione. Dai loro risultati è emerso che la principale causa diretta della perdita di biodiversità vegetale nell’ultimo secolo (1911-2022) è stata il cambiamento nell’uso del suolo, come per esempio l’espansione delle aree urbane, dovuta a una rapida crescita demografica, e la conversione degli habitat della savana in terreni agricoli, derivata dallo sviluppo economico. In questo periodo, infatti, le pendici inferiori del Kilimangiaro hanno registrato una perdita del 75% delle specie vegetali naturali per chilometro quadrato. I cambiamenti climatici, invece, non sono risultati essere una causa diretta significativa del calo delle specie vegetali su questo vulcano.

    Il cambiamento nell’uso del suolo
    Il nuovo studio, il primo nel suo genere ad aver collegato la densità della popolazione umana a quella delle specie vegetali su una scala così piccola (1 km²), rappresenta quindi un’ulteriore conferma che la perdita di biodiversità sia una conseguenza diretta delle attività antropiche. “La nostra ricerca rivela che il cambiamento nell’uso del suolo, causato dalla rapida crescita demografica – non il cambiamento climatico – è stato il principale fattore diretto della perdita di biodiversità sul Monte Kilimangiaro nell’ultimo secolo”, spiegano gli autori. “È stato sorprendente scoprire che, contrariamente a quanto si pensa comunemente, il cambiamento climatico non ha avuto effetti misurabili sulle tendenze della biodiversità locale, il che sottolinea l’urgente necessità di affrontare fattori socioeconomici come l’uso del suolo nelle politiche di conservazione”. Anche le specie animali sono in declino e perdono “potenza”. Rimanendo nel continente africano, anche gli ecosistemi della fauna selvatica sono in pericolo. A riferirlo è stata una nuova ricerca pubblicata su Nature e coordinata dall’Università di Oxford, a cui ha collaborato anche Luca Santini del dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università di Roma, che si basa su un approccio energetico per mostrare non solo il declino della biodiversità animale, ma anche come questo influisca sul funzionamento degli ecosistemi. Secondo l’analisi, infatti, gli ecosistemi africani hanno perso oggi, rispetto all’epoca pre-coloniale e pre-industriale, oltre un terzo della potenza, in ciò che gli esperti chiamano flussi di energia trofica. La causa di questa perdita, come suggeriscono i ricercatori, è in gran parte dovuta al declino della megafauna, ossia le specie di grandi dimensioni, come leoni, elefanti e rinoceronti, che ha appunto il potenziale di alterare la funzionalità degli ecosistemi. LEGGI TUTTO

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    I Paesi più ricchi e tecnologici perdono la “connessione con la natura”

    In epoca di continui sviluppi tecnologici e sociali, quanto riusciamo ancora ad essere fortemente connessi alla natura? E cosa influenza il nostro legame con il “creato”? Domande che secondo un nuovo studio mostrano alcune evidenze importanti: laddove la spiritualità, la fede religiosa, le credenze e le tradizioni sono ben radicate, il rapporto con la natura appare più stretto. Al contrario, nei luoghi in cui c’è una maggiore “facilità di fare impresa”, in pratica nei Paesi più costantemente orientati al business e alle spinte del mercato, i legami con ambiente e natura sono più deboli. Così si spiega per esempio come il Paese al mondo “più connesso con la natura” risulti essere il Nepal, mentre quello meno ravvicinato all’ambiente sia oggi la Spagna con la sua economia in crescita. A raccontarci i dettagli di queste connessioni è un nuovo studio, che fa leva sia su competenze psicologiche, sia economiche ed ambientali, pubblicato su Springer Nature da un team internazionale di ricercatori e a guida britannica.

    Gli esperti, attraverso un ampio set di dati e sondaggi che hanno coinvolto in totale 57mila persone, hanno realizzato una classifica sulla connessione con la natura che riguarda 61 Paesi. Al primo posto con un valore superiore allo zero, c’è il Nepal (1.386), seguito da Iran (1.215) e dal Sudafrica (1.200). I meno connessi sono invece Spagna (-0,613), Giappone (-0,391) e Israele (-0.303). Nella classifica si leggono i punteggi in totale di 63 realtà: alla lista dei 61 Paesi esaminati va infatti aggiunta la Gran Bretagna scelta come Paese di riferimento (dal valore 0) e la Palestina.

    In questo contesto l’Italia risulta al 44esimo posto come “connessione alla natura”. La prima delle realtà europee che mostra più legami con l’ambiente è invece la Croazia (settima), mentre il Brasile dove si svolgerà a breve la COP30 – la grande conferenza delle parti sul Clima – è all’undicesimo posto, la Palestina è al 12esimo e la Cina, sempre per fare un esempio, è trentaseiesima.

    Nello specifico lo studio tenta di indagare come i nostri comportamenti nei confronti della natura siano influenzati dai fattori sociali, economici, ma anche culturali o geografici, sempre partendo però dal concetto psicologico di misura della vicinanza fra la nostra ed altre specie. In generale gli studi mostrano come un’elevata connessione con la natura porti a un benessere maggiore e un aumento del rispetto nei confronti dell’ambiente mentre bassi livelli virano invece verso cause di deterioramento naturale, come la perdita di biodiversità o l’aumento delle disuguaglianze. Come ha spiegato Miles Richardson, esperto di “connessione con la natura” che insegna all’università di Derby ed è fra i primi autori dello studio, questa ricerca evidenzia come la spiritualità delle persone e i popoli sia un indicatore decisivo: più è alta, più società e culture mostrano livelli di connessione maggiore. Laddove prevale la fede i dati mostrano una maggiore connessione, mentre al contrario quando a prevalere sono scienza e interessi economici avviene una sorta di distacco.

    A influenzare negativamente il rapporto con la natura sono anche i livelli di urbanizzazione, l’uso di internet e il reddito medio. Per Richardson “la connessione con la natura non riguarda solo ciò che facciamo, ma anche il modo in cui ci sentiamo, pensiamo e diamo valore al nostro posto nel mondo vivente”. Parlando della Gran Bretagna, realtà nella parte bassa della classifica e paese di riferimento dello studio, il professore spiega di non essere stupito dei risultati dato che “siamo diventati una società più razionale, economica e scientifica. Questo ha ovviamente portato alcuni fantastici benefici, ma è importante bilanciarli con i problemi imprevisti. Per esempio dovremmo chiederci come poter reintegrare il pensiero naturale nel nostro mondo altamente tecnologico. È ovviamente molto difficile cambiare le culture, ma si tratta di integrare il valore della natura rendendola parte del nostro benessere, in modo che diventi rispettata e quasi sacra”.

    Come si potrebbe dunque migliorare il rapporto dei cittadini con la natura? Fondamentale, per gli autori delo studio, è lo sviluppo dei diritti della natura che devono essere inseriti nelle leggi, ma anche normare ciò che è necessario fare per l’aumento della biodiversità e aggiungere per esempio l’importanza del valore della natura e dell’ambiente anche nei trattamenti di salute pubblica (quella mentale compresa). E per fare questo non si tratta “semplicemente di creare un parco in una città, ma di andare più in profondità nel rafforzare il legame con la natura nelle società urbanizzate” conclude Richardson. LEGGI TUTTO

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    L’Italia investe sugli alberi: oltre 3 milioni piantati nel 2024

    L’Italia continua ad investire nel verde: sono oltre 3 milioni i nuovi alberi piantati nel 2024 per un totale di quasi 4 mila ettari. Un investimento in capitale naturale: si prevede infatti un ritorno economico di più di 20 milioni di euro all’anno in servizi ecosistemici per ciascuno degli anni di vita degli impianti messi a dimora. È quanto emerge dalla quinta edizione dell’Atlante delle Foreste, il rapporto annuale realizzato da Legambiente e AzzeroCO2 con il supporto tecnico di Compagnia delle Foreste. LEGGI TUTTO

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    Emissioni, finanza, foreste: i temi in discussione in una Cop in bilico

    La 30esima Conferenza Onu sul clima, pur prevista in una location amazzonica altamente simbolica, in questi mesi preparatori non è riuscita a darsi un obiettivo altrettanto emblematico. Al contrario delle due edizioni che l’hanno preceduta. Nel 2023 a Dubai c’era da definire il global stocktake, una valutazione periodica dei progressi compiuti a livello mondiale in materia di azione per il clima. E, grazie a una inedita triangolazione Usa-Cina-Arabia Saudita, si inserì per la prima volta nella storia delle Cop un riferimento esplicito all’uscita dai combustibili fossili, con l’espressione transition away. L’anno successivo, a Baku, la Cop29 è stata totalmente dedicata alla finanza climatica: i Paesi ricchi hanno promesso 300 miliardi di dollari alle nazioni in via di sviluppo e ai piccoli Stati insulari entro il 2035. Più altri mille miliardi di investimenti privati non meglio definiti.

    Editoriale

    Cop30 – “L’ultimo appello”. Un’istituzione da difendere

    di Federico Ferrazza

    03 Novembre 2025

    E quest’anno a Belém? Il rischio è che si continuino a fissare obiettivi e a prendere impegni senza che poi vengano centrati e mantenuti. È venuto il momento di non fare più annunci, perché di traguardi collettivi ne sono stati concordati molti, ma di usare le Cop per verificare chi tra le singole nazioni si è davvero mosso per raggiungerli. E in effetti il Brasile ha dichiarato di voler passare “dalla fase negoziale a quella attuativa degli obiettivi”. Impresa tutt’altro che semplice, in un momento in cui gli Usa si stanno ritirando dagli Accordi di Parigi e il mondo è meno concentrato sull’azione per il clima.

    I tagli alle emissioni
    Se si rimane alle “promesse”, a Belém si conteggeranno quelle relative ai tagli delle emissioni di gas serra che ogni nazione si è impegnata a fare. Oltre la metà delle parti che hanno firmato l’Accordo di Parigi, inclusa la Cina, ha presentato i propri nuovi Ndc. La Ue, così come l’India, ha mancato la scadenza di settembre. Ma Bruxelles ha promesso che arriverà in Brasile con un nuovo target. Gli Usa avevano presentato il loro Ndc in anticipo, sotto l’Amministrazione Biden, ma poi è arrivato Trump… Prima dell’inizio di Cop30 l’Onu conteggerà tutte le promesse di riduzione delle emissioni e mostrerà quanto si sia lontani dall’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C. È probabile che ci si fermi non molto al di sotto dei 2,5 °C e questo dato allarmante sarà certamente al centro dei negoziati di Belém. Si farà qualcosa per correggere la rotta che ci porta al naufragio? Dopo mesi di resistenza, il Brasile sta iniziando ad accettare l’idea di negoziare una cosiddetta cover decision, un preambolo vincolante per le parti, che affronti il divario di temperatura. Ma finora c’è poca chiarezza su cosa sarà incluso, anche perché alle Cop si decide per consenso, non a maggioranza, ed è già nota la strenua opposizione a un documento del genere dei petro-Stati guidati dai sauditi. E c’è anche chi contesta lo strumento: l’eventuale cover decision sarebbe l’ennesimo documento politico che prende impegni per il futuro, quando invece è necessario agire oggi.

    Verso Cop30

    Cop30, strada in salita ma il dibattito sul clima è centrale in Europa

    di Luca Fraioli

    30 Ottobre 2025

    La finanza climatica
    Anche qui promesse: chi ha mantenuto quelle fatte a Baku? E come mobilitare il fantomatico miliardo di dollari di investimenti pubblici? Nella capitale Azera era stata varata una Roadmap from Baku to Belém, che avrebbe dovuto rispondere a tali quesiti. Dove abbia condotto tale roadmap lo scopriremo dal 10 al 21 novembre. Sarebbe bene che gli investimenti pubblici si concentrassero sull’adattamento, anziché sulla mitigazione. Perché creare campi fotovoltaici in Paesi in via di sviluppo è un business redditizio e ci saranno sempre imprese private pronte a investirci. Mentre creare infrastrutture che mettano persone e proprietà al riparo dagli eventi estremi, innescati dal riscaldamento globale, è un intervento che non ha ritorni economici nel breve termine che solo la finanza pubblica si può permettere. Non sembra plausibile a Cop30 un accordo su un nuovo obiettivo di finanza climatica sull’adattamento, tuttavia i negoziatori potrebbero lavorare per ridurre gli indicatori di resilienza ai cambiamenti climatici dagli attuali 400 a circa 100, in modo da rendere più semplici gli investimenti e le rendicontazioni.

    Il fondo per le foreste tropicali
    Per avere almeno un risultato certo, da incassare già in apertura e da rivendicare come obiettivo centrato, in fase di bilancio a sipario calato, la presidenza brasiliana ha profuso molte energie per creare consenso intorno alla sua proposta di un “Fondo per le foreste tropicali per sempre”: 125 miliardi di dollari, per finanziare i Paesi che mantengono in vita i loro patrimoni forestali. Ma c’è chi annovera questa misura tra quelle che in ogni Conferenza Onu sul clima permettono di fare annunci, distraendo media e opinione pubblica dal vero traguardo (ridurre le emissioni di gas serra eliminando i combustibili fossili) e dall’eventuale fallimento nel raggiungerlo.

    I combustibili sostenibili
    Un altro annuncio “a effetto” da dare a Belém durante la due-giorni preliminare che vedrà sfilare i capi di Stato e di governo, potrebbe sancire la rivincita dei biocarburanti. La possibilità si è concretizzata qualche settimana fa, quando il ministero degli Esteri brasiliano ha reso pubblica l’iniziativa “Impegno di Belém per i carburanti sostenibili”, con l’obiettivo di quadruplicare la produzione e l’uso di combustibili alternativi a quelli fossili entro il 2035. Nome in codice: Belém 4x. Per “carburanti sostenibili” si intendono “biocarburanti liquidi, biogas, idrogeno rinnovabile e carburanti a base di idrogeno”. Ma considerando i costi ancora proibitivi per fare della molecola H2 una seria opzione al posto di benzina e gasolio, Belém 4x sembra voler essere soprattutto una spinta ai combustibili “bio”, quelli derivati da coltivazioni, scarti alimentari, deiezioni animali. “Cerchiamo il sostegno del maggior numero possibile di Paesi, per inviare un segnale politico, anche agli attori economici”, ha dichiarato João Marcos Paes Leme, direttore del dipartimento dell’Energia del ministero degli Esteri di Brasilia. E in effetti l’Italia, insieme a India e Giappone, ha espresso il suo supporto al progetto. D’altra parte, non è una novità che il nostro governo punti sui biocarburanti per rendere meno “traumatica” la transizione verso l’elettrificazione dei trasporti.

    Il multilateralismo
    Da anni le Cop sono messe in discussione per la lentezza con cui affrontano la crisi climatica. Non c’è da stupirsi se anche a Belém accadrà altrettanto. Ma quest’anno le Nazioni Unite, che organizzano la conferenza, dovranno fare i conti anche con il terremoto Trump che ha scosso alle fondamenta l’edificio del multilateralismo, non solo in ambito climatico. Sarà da monitorare l’eventuale nascita di nuove alleanze, con gli occhi puntati sui Brics, di cui il Brasile è un esponente importante. Ma anche sulle delegazioni europea e cinese, che in assenza degli Usa, potrebbero decidere di collaborare maggiormente in un’ottica di decarbonizzazione e di tecnologie green. Forse il vero successo di Cop30 sarebbe riuscire a dimostrare che ha ancora senso ritrovarsi, in quasi 200 Paesi, intorno allo stesso tavolo, per discutere delle sorti dell’umanità e del Pianeta. Purtroppo le defezioni annunciate di molti leader, con il declassamento della Cop a evento minore, non sono un segnale incoraggiante. LEGGI TUTTO

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    Tutte le startup di Ecomondo 2025. Il laboratorio dell’innovazione circolare

    Startup, ricerca e imprese si incontrano a Ecomondo 2025 per presentare proposte capaci di tradurre la scienza in soluzioni ambientali reali, dal ciclo dell’acqua alla bioeconomia circolare. La 28esima edizione dell’evento internazionale di Italian Exhibition Group (IEG) sulla green, blue and circular economy, in programma alla Fiera di Rimini dal 4 al 7 novembre, conferma la presenza dell’Innovation District con 40 startup italiane e internazionali, selezionate per l’alto contenuto tecnologico delle loro proposte. Dalla bioeconomia rigenerativa alla gestione intelligente dell’acqua, dal riciclo avanzato dei materiali all’agritech circolare, le giovani imprese presenti porteranno soluzioni in grado di connettere digitale, ambiente e produttività sostenibile.

    Tutte le startup di Ecomondo 2025
    L’edizione 2025 di Ecomondo riserva un ruolo strategico alle startup e alle nuove realtà imprenditoriali con l’area Innovation District. Questa sezione specializzata è un vero e proprio hub di business development, dove prende forma un ecosistema di open innovation pensato per mettere in connessione imprese, startup, centri di ricerca, istituzioni e investitori, favorendo il trasferimento tecnologico, la nascita di collaborazioni e la contaminazione tra competenze. L’Innovation District di Ecomondo è lo spazio espositivo dedicato alle tecnologie emergenti, alle startup più promettenti e alle soluzioni innovative per accelerare la transizione ecologica e l’economia circolare. Le 20 startup presenti in fiera e che hanno risposto alla call di Ecomondo 2025.

    ParaStruct GmbH (Austria, settore Waste as Resource)
    Azienda che sviluppa materiali da costruzione a basso impatto ottenuti da flussi minerali e residui biogeni. La tecnologia consente di realizzare prodotti strutturali come lo screed con funzioni di “carbon sink”, sostituendo sabbia e cemento con materiali riciclati. La soluzione combina alte prestazioni, economicità e sostenibilità, rispondendo alle esigenze dell’edilizia del futuro e riducendo le emissioni di CO2.

    4peopleHolding SRL (Trentino-Alto Adige, settore Water Cycle & Blue Economy)
    Ha sviluppato HydraX, un sistema di depurazione basato sulla cavitazione controllata e sull’insufflazione di ozono on-demand. La tecnologia riduce drasticamente la produzione di salamoie e i consumi energetici rispetto ai dissalatori tradizionali, garantendo al tempo stesso un’efficace rimozione di sostanze nocive e una migliore qualità delle acque reflue, rendendole riutilizzabili in ottica circolare.

    Agricolture Biodiversity and Technologies – Abit Agritech (Lombardia, settore Site & Soil Restoration)
    Propone una piattaforma digitale che misura e valorizza la salute del suolo, integrando dati georeferenziati, analisi fisico-chimiche e algoritmi di intelligenza artificiale. Lo strumento fornisce KPI ESG utilizzabili lungo la filiera agroalimentare, certifica pratiche rigenerative e supporta la compliance normativa, distinguendosi per l’approccio scientificamente validato e la verticalità sul tema della biodiversità del suolo.

    Aqua Farm (Piemonte, settore Bioenergy & Agriculture)
    Progetta impianti acquaponici ad alta efficienza che consentono la produzione integrata di ortaggi e pesce con consumi minimi di acqua ed energia. Il sistema, brevettato e automatizzato, integra monitoraggio IoT e controllo remoto, abbattendo i costi operativi e garantendo tracciabilità completa. Si distingue per la capacità di ridurre drasticamente l’uso di suolo e agrofarmaci, offrendo una soluzione scalabile e sostenibile.

    CDC Studio (Toscana, settore Waste as Resource)
    Specializzata nel riciclo circolare degli scarti tessili, ha brevettato soluzioni che trasformano rifiuti complessi in polimeri ad alte prestazioni e coating innovativi. I processi non richiedono separazione delle fibre né additivi, risultando compatibili con impianti industriali esistenti. L’azienda offre così nuove materie prime per moda, arredo, design e automotive, riducendo costi e impatti ambientali.

    CENTROTERRA (Emilia-Romagna, settore Site & Soil Restoration)
    Produce biofertilizzanti rigenerativi derivati da scarti agricoli attraverso un processo brevettato a basso consumo energetico. I prodotti migliorano la ritenzione idrica e la resilienza dei suoli, risultando idonei sia per agricoltura biologica e rigenerativa sia per applicazioni domestiche e hobbistiche. L’innovazione risiede nella rapidità del processo statico e nelle proprietà specifiche come la presenza di struvite e il rilascio bilanciato dell’azoto.

    D.W.S (Emilia-Romagna, settore Water Cycle & Blue Economy)
    Presenta CONSTANCE, un sistema brevettato di controllo automatico per impianti di depurazione convenzionali. Basato su sensori economici e affidabili (pH, redox, ossigeno disciolto), permette di ridurre i consumi energetici fino al 60% e ottimizzare i processi biologici. L’uso di algoritmi di machine learning assicura monitoraggio continuo e gestione intelligente delle risorse.

    Dabohn (Emilia-Romagna, settore Water Cycle & Blue Economy)
    Ha sviluppato un software operativo ibrido che controlla in tempo reale macchine e impianti industriali, apprendendo nel tempo e garantendo ottimizzazione continua. La soluzione integra intelligenza artificiale, modelli matematici e machine learning, agendo come un vero “pilota automatico” degli impianti e migliorando sia l’efficienza energetica sia la manutenzione predittiva.

    Eco8 (Trentino-Alto Adige, settore Bioenergy & Agriculture)
    Propone un applicativo cloud che collega in tempo reale tutti gli attori della filiera del biogas, monitorando logistica e prescrizioni di settore e calcolando la carbon footprint secondo standard certificati. La soluzione è modulare, intuitiva e scalabile, con l’obiettivo di rendere più efficiente e sostenibile l’intero ecosistema del biogas.

    Etrash (Veneto, settore Waste as Resource)
    Offre un sistema integrato composto da un cestino intelligente con visione artificiale e una piattaforma cloud. Il cestino riconosce i rifiuti con una precisione superiore al 95%, attiva lo smistamento automatico e invia dati su KPI ambientali ed ESG. La tecnologia riduce fino al 40% l’indifferenziato, taglia i costi e migliora la sostenibilità delle aziende clienti.

    GEOMATRIX (Trentino-Alto Adige, settore Waste as Resource)
    Sviluppa compound polimerici ad alte prestazioni ottenuti da materie prime riciclate come plastiche e scarti legnosi. La tecnologia brevettata riduce fino al 50% le emissioni di CO? rispetto all’ABS vergine, mantenendo competitività economica. I materiali possono essere riciclati più volte senza perdita di caratteristiche, rappresentando una soluzione innovativa nel settore delle plastiche rigide.

    InnoChem srl (Lombardia, settore Waste as Resource)
    Porta avanti la tecnologia TextInOL, che consente di trattare e valorizzare rifiuti tessili misti post-consumo e industriali, trasformandoli in biocarburanti e nuove molecole chimiche. Il processo non richiede pretrattamento meccanico ed è integrabile in filiere esistenti, riducendo costi di trasporto e impatto ambientale.

    Re.Nova Plast (Marche, settore Waste as Resource)
    Introduce OLIFOUR, un polimero termoplastico riciclato ad alte prestazioni per il settore calzaturiero. La proposta si fonda su un approccio di eco-progettazione che prevede il recupero e il riuso degli stessi materiali a fine vita, chiudendo il ciclo produttivo e trasformando le calzature in veri prodotti circolari.

    SIEve (Lombardia, settore Water Cycle & Blue Economy)
    Ha sviluppato un filtro innovativo a base di red mud, scoria metallurgica rigenerabile, capace di rimuovere metalli pesanti, inquinanti organici e micro-patogeni dalle acque reflue. Il sistema è modulare e riduce costi e complessità impiantistiche, trasformando un rifiuto industriale in risorsa utile per la depurazione.

    STE – Sanitizing Technologies and Equipments (Marche, settore Waste as Resource)
    Presenta Sanify, un sistema che sanifica e insacchetta automaticamente i rifiuti ospedalieri, riducendone la classificazione da pericolosi a speciali. La tecnologia garantisce maggiore sicurezza per gli operatori, abbattimento dei costi di smaltimento e tracciabilità del processo, rappresentando un’innovazione nel settore sanitario.

    TERAMODUS (Abruzzo, settore Waste as Resource)
    Ha sviluppato un kit retrofit e una stazione di battery swap per convertire mezzi con motori termici in veicoli elettrici, con particolare applicazione nel settore della raccolta rifiuti. L’approccio consente di ridurre sprechi, abbattere i costi di ricarica e prolungare il ciclo di vita dei veicoli, offrendo una soluzione sostenibile e scalabile.

    The EEM Team Spin-Off company (Lombardia, settore Environmental Monitoring & Earth Observation)
    Spin-off universitario che sviluppa software e soluzioni per l’analisi di dati geofisici ed elettromagnetici, integrando AI e modellistica idrogeologica. Le applicazioni riguardano la gestione delle acque sotterranee, l’esplorazione mineraria e la resilienza delle georisorse, con strumenti avanzati integrabili in piattaforme GIS.

    Vortex (Piemonte, settore Waste as Resource)
    Ha brevettato un processo di upcycling che trasforma matrici vegetali deperibili in farine e ingredienti funzionali ad alto valore aggiunto per food, petfood e cosmetica. La tecnologia preserva le proprietà bioattive e si caratterizza per modularità, scalabilità e utilizzo di energia rinnovabile, riducendo sprechi e impatti ambientali.

    W.N.T. (Lombardia, settore Circular & Regenerative Bio-Economy)
    Sviluppa rivestimenti nanotecnologici anticorrosivi a base ceramica che sostituiscono la cromatura tradizionale, altamente impattante. La soluzione garantisce prestazioni comparabili in termini di resistenza e durezza, ma con maggiore sostenibilità, trovando applicazione in settori come automotive e aerospace.

    We are bi-rex (Lombardia, settore Circular & Regenerative Bio-Economy)
    Ha brevettato una tecnologia per estrarre fibra cellulosica da scarti agroalimentari senza processi chimici, offrendo una valida alternativa alla cellulosa da legno. La materia prima ottenuta è già validata per applicazioni industriali nel packaging e nel tissue, con vantaggi in termini di disponibilità, sostenibilità e tracciabilità.

    Sempre all’interno dell’Innovation District, saranno presenti anche 20 startup selezionate nell’ambito del progetto Lab Innova for Africa “Luca Attanasio”, promosso da Agenzia ICE in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Le realtà, provenienti da Marocco e Tunisia, operano nei settori della green economy e dell’economia circolare, rafforzando il ponte tra Europa e Mediterraneo che Ecomondo presidia da anni. LEGGI TUTTO

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    Un’istituzione da difendere

    Cosa succederà a Belém, la sede amazzonica della trentesima Conference of the Parties (Cop), l’appuntamento annuale sul clima delle Nazioni Unite che si svolgerà nella città del nord del Brasile dal 10 al 21 novembre, è difficile da prevedere. È complicato perché ci si arriva con un quadro geopolitico ed economico molto incerto. Ai conflitti […] LEGGI TUTTO

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    “Un bioreattore per trasformare lino e canapa in fibra da riusare al posto della plastica”

    Fibre liberiane. Bioreattori. Macerazione. No, non è un test delle associazioni verbali di Jung, ma i tre ingredienti chiave della startup milanese Sylfib. “Semplicemente estraiamo da lino, canapa e altre piante la fibra nobile che può essere reimpiegata nel tessile, nell’edilizia per pannelli termoisolanti, nell’industria cartaria e nel ramo bioplastico. Il tutto abbinando anche una personalizzazione che incide sulle prestazioni finali”, spiega Emanuele Bertolotti, co-fondatore e Ceo di Sylfib. Potrebbe essere uscito dall’universo di Star Trek, ma il primo prototipo avrebbe ricordato di più la vasca da bagno di Fred Flintstone.

    Le fibre liberiane sono le fibre tessili vegetali che si ottengono dalla corteccia interna del fusto di alcune piante, come lino, canapa, ortica, ginestra, kenaf e ramiè. Sono caratterizzate da resistenza e versatilità, e grazie alla lavorazione di Sylfib possono acquisire ulteriori attributi. “Oggi riforniamo soprattutto società di filatura o direttamente aziende tessili, nonché cartiere. Però questa seconda materia prima può essere in ogni ambito dove si punti su biocompositi”, aggiunge Bertolotti. Sylfib sta per System Luxury Fiber, “perché secondo noi è un lusso poter utilizzare delle fibre realmente sostenibili, realmente naturali e che effettivamente possano in qualche modo sostituire la plastica”.

    Come funziona il bioreattore di Sylfib
    Un bioreattore genericamente è un dispositivo in cui si inducono e gestiscono reazioni biologiche, principalmente tramite l’azione di microrganismi, cellule o enzimi, in un ambiente controllato. La versione di Sylfib, grande come un container di 4 x 2,5 metri (comunque modulare), non solo è dotata di sensori avanzati che ne consente anche la gestione in remoto, ma può essere impiegata per occuparsi totalmente della fase di macerazione delle piante che consente poi di ottenere la fibra per i successivi usi. Il tutto ovviamente con un procedimento naturale, senza enzimi e additivi, a differenza di quanto avviene ad esempio in Cina dove la soda caustica domina il processo. E così si spiega perché il lino low-cost è bianco e fine. LEGGI TUTTO

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    Quanto durano i contenitori di plastica e come riciclarli

    Negli ultimi anni la coscienza ambientale è cresciuta, ma basta fare caso alla quotidianità per rendersi conto di quanto anche la plastica continui a occupare la vita di chiunque. Nonostante le alternative ecologiche ai soliti contenitori di plastica, questo materiale è comunque piuttosto presente e lo si vede anche dalle piccole cose. Gli imballaggi di plastica ci sono e ci saranno sempre, sono parte integrante della vita di ognuno e la loro distribuzione è, appunto, mondiale. Ma quanto durano mediamente questi contenitori e come si può fare per riciclarli?

    Contenitori di plastica: quanto durano nella media?
    In realtà parlare di “durata” della plastica è un concetto non proprio semplice, perché essa dipende da molti fattori. Bisogna infatti considerare il tipo di plastica, le condizioni d’uso, gli stress termici, i graffi, l’esposizione a luce ultravioletta e tutte le sollecitazioni meccaniche a cui può andare incontro. Insomma, non tutti i contenitori di plastica sono uguali, quindi anche la durata sarà diversa. Ad esempio, le bottiglie monouso in PET dovrebbero durare circa uno/due anni se la conservazione è corretta (senza considerare l’esposizione al sole che potrebbe danneggiarle). Se invece parliamo di contenitori di plastica più durevoli (propilene PP, ad esempio), la durata aumenta di diversi anni. I pallet di plastica, invece, possono arrivare a durare anche quattro anni. Questo discorso non ha nulla a che vedere con la degradazione del materiale nell’ambiente. È risaputo infatti che la plastica impiega tantissimi anni per “sciogliersi” in natura, ed è proprio uno dei motivi per i quali gettare un qualsiasi rifiuto in giro per le strade etc. è considerato altamente nocivo per l’ambiente e il suo futuro.

    Quanto durano i contenitori di plastica alimentari
    Nei contenitori che usiamo quotidianamente per conservare alimenti (es. plastica alimentare), ci sono accortezze specifiche da considerare. Ad esempio, i materiali più sicuri (come PP, HDPE) tendono a resistere meglio all’uso ripetuto rispetto a plastiche più fragili o sottili. Come capisco quando è ora di buttare un contenitore alimentare? Quando appare scolorito, rigato, deformato o con odori persistenti che non vanno via neanche dopo diversi lavaggi. Anche l’uso del microonde o della lavastoviglie potrebbe accelerare il rilascio di sostanze indesiderate. Meglio dunque non aspettare anni, ma sostituire i contenitori quando mostrano chiari segni di usura.

    Quali sono i fattori che accorciano la durata dei contenitori di plastica
    Abbiamo visto che i contenitori in plastica per alimenti potrebbero iniziare a perdere la loro efficacia anche (ma non solo) a causa di fattori specifici da osservare nel corso del tempo. L’occhio vuole sempre la sua parte, ma questo vale per tutti i contenitori fatti di questo materiale. A che cosa, quindi, prestare attenzione per capire se sia o meno il caso di sostituire i contenitori in plastica? Ma soprattutto, quali sono i fattori che accorciano la loro durata?
    Shock termico: passare da caldo a freddo, microonde, congelatore e lavastoviglie danneggiano la struttura molecolare;
    Lavaggio intenso o abrasivo: spugne ruvide o detergenti aggressivi favoriscono graffi microscopici;
    Luce solare / UV: la radiazione degrada i polimeri, rendendoli più fragili;
    Acidi, oli, cibi pigmentati: alimenti fortemente acidi (pomodoro, agrumi) o coloranti aggressivi possono interagire con la plastica;
    Tipo di plastica: non tutte le plastiche sono uguali. Alcuni polimeri resistono meglio, altri sono più vulnerabili.

    Come si producono i contenitori di plastica
    La produzione degli imballaggi in plastica inizia dalla lavorazione di petrolio e metano, da cui si ricavano i monomeri (carbonio e idrogeno). Questi, attraverso la polimerizzazione, si trasformano in resine come polietilene, polipropilene e PET, le plastiche più diffuse. Le resine vengono poi fuse e modellate con tecniche diverse (estrusione, iniezione, soffiaggio sono alcuni esempi) per dare forma a buste, contenitori alimentari o flaconi per detergenti. Durante il processo possono essere aggiunti coloranti e additivi per migliorarne resistenza e durata, ad esempio contro raggi UV o alte temperature. Oggi, la sfida principale dell’industria è ridurre l’impatto ambientale, puntando sempre più sull’uso di granuli di plastica riciclata e su soluzioni sostenibili.

    Come riciclare correttamente un contenitore di plastica
    Gettare i contenitori di plastica nell’apposito cassonetto dovrebbe essere la base per una sana civiltà. Eppure, ci sarebbero anche altre piccole-grandi azioni da compiere se si volessero fare le cose nel modo più perfetto possibile.
    Riconoscere il tipo di plastica
    Spesso sul fondo del contenitore c’è un simbolo a forma di triangolo con un numero (da 1 a 7): si tratta del codice RIC (Resin Identification Code), che permette di capire se il materiale è facilmente riciclabile. Ad esempio, PET (codice 1) e HDPE (codice 2) sono tra i più riciclati. Plastiche con codice 3, 6 o 7 possono essere più difficili da trattare.
    Pulizia e separazione
    Dicono che si potrebbe anche non fare, ma sarebbe meglio sciacquare tutti i contenitori di plastica prima di buttarli nel bidone. Importantissimo, per quanto banale, ricordare di rimuovere eventuali etichette, tappi diversi se, ovviamente, in materiale che non sia la plastica.
    Schiacciare e/o comprimere quando possibile
    Come per la carta, anche la plastica dovrebbe essere schiacciata prima di essere buttata. Questo comporta una maggiore facilità e praticità nella gestione dei cassonetti e di conseguenza nei centri di raccolta.
    Favorire plastiche riciclabili
    Quando si sceglie un contenitore nuovo, sarebbe meglio prediligere quelli con codici RIC ben gestiti localmente (quindi 1,2,4 e 5). Da evitare, se possibile, materiali multistrato (quindi plastica e alluminio insieme) se non sono riciclabili nella zona in cui si abita. LEGGI TUTTO