Quarant’anni per “riparare” Il buco dell’ozono
Sono passati quasi 40 anni da quando la scoperta del buco nell’ozono in Antartide ha mostrato al mondo l’impatto dell’uomo sull’ambiente. Una crisi ambientale globale da cui è emersa anche la nostra capacità di reagire. Mentre, infatti, monitoriamo il recupero di questo strato protettivo naturale, la sua storia ci offre una preziosa lezione per affrontare le altre complesse sfide ambientali del nostro tempo, prima fra tutte la crisi climatica.
Ma partiamo dall’ozono.
Un gas composto da tre atomi di ossigeno (O?), a differenza dell’ossigeno che respiriamo che ne ha solo due. È un gas minore nella nostra atmosfera e si trova principalmente nello “strato di ozono” ad altitudini comprese tra 10 e 35 chilometri. Sulla superficie terrestre risulta tossico in quantità elevate, ma nella stratosfera svolge un ruolo vitale bloccando le radiazioni ultraviolette più pericolose. Assorbe, infatti, la maggior parte dei raggi UV provenienti dal sole, responsabili di e tumori della pelle e altre gravi patologie negli esseri umani, oltre ad effetti devastanti sulla produttività agricola e sull’equilibrio degli ecosistemi marini. Lo strato di ozono è uno dei cardini fondamentali dell’equilibrio del sistema Terra, tanto che la sua distruzione rientra tra i nove Limiti Planetari (Planetary Boundaries), il cui superamento determina conseguenze catastrofiche e imprevedibili.
L’invenzione miracolosa
La minaccia a questo strato vitale dell’atmosfera nasce da un’invenzione al tempo celebrata come rivoluzionaria: i clorofluorocarburi (CFC), una classe di sostanze alcune note col nome commerciale di Freon. Sintetizzati per la prima volta negli anni ’30, questi gas rispondono a molte esigenze dell’industria moderna: stabili, non tossici, non infiammabili e poco costosi. Trovano ampia applicazione in molti settori, come refrigeranti nei frigoriferi e nei condizionatori d’aria, come propellenti nelle bombolette spray di deodoranti, lacche, insetticidi, come solventi nell’elettronica e molto altro. La loro produzione esplode nel dopoguerra, spinta dal boom economico. Il mondo intero si affida ai CFC, ignaro dei pericoli che si celano nell’apparente innocuità: proprio la loro stabilità si sarebbe infatti rivelata, in alta atmosfera, la loro caratteristica più distruttiva.
La ferita
È il 16 maggio 1985 quando un gruppo di ricercatori, guidato dal fisico Joe Farman del BAS, pubblica sulla rivista Nature in uno degli articoli scientifici più rilevanti del secolo, annunciando la scoperta del “buco nell’ozono”. Le immagini satellitari della NASA confermarono la presenza una “ferita” enorme sopra il polo sud, estesa quanto il continente nordamericano. Le mappe colorate mostrano un’area vastissima di colore blu scuro-viola (che indica concentrazioni bassissime di ozono) circondata da anelli di colore verde, giallo e rosso (concentrazioni più normali). Il pericolo diventa immediato, tangibile e globale: lo scudo naturale contro le radiazioni ultraviolette era gravemente compromesso.
La causa
La comprensione delle cause di questo fenomeno è un capolavoro scientifico internazionale, premiato poi nel 1995 con il Nobel per la Chimica. Già negli anni ’70, Paul Crutzen, Mario Molina e Sherwood Rowland avevano ipotizzato il meccanismo alla base del problema: i CFC potevano raggiungere la stratosfera intatti grazie alla loro elevata stabilità chimica. Qui, la radiazione ultravioletta del Sole ne provocava la fotolisi, liberando atomi di cloro capaci di distruggere, attraverso reazioni a catena, decine di migliaia di molecole di ozono. Ma come può una lacca per capelli creare un buco nello strato di ozono? La risposta sta nella chimica dell’atmosfera: le osservazioni satellitari e le misurazioni dirette condotte in Antartide rivelarono alte concentrazioni di cloro attivo nelle zone dove l’ozono risultava più rarefatto, confermando il legame tra i CFC e la perdita dello strato protettivo. Durante l’inverno australe, quando le temperature scendono sotto i –80 °C, si formano le spettacolari nubi stratosferiche polari, che favoriscono la trasformazione dei composti di cloro in forme altamente reattive. Con il ritorno della luce solare in primavera, queste reazioni si intensificano, portando alla distruzione massiccia dell’ozono: è qui che si apre il “buco” sopra l’Antartide.
Lo scontro con l’industria
Questa scoperta suscita un acceso dibattito tra comunità scientifica e mondo industriale. L’amministratore delegato della DuPont – la società che aveva brevettato e dominava la produzione i CFC – bollò la teoria di Rowland e Molina come “un racconto di fantascienza”. Tuttavia, di fronte all’accumularsi delle evidenze scientifiche e la pressione internazionale, i governi iniziarono ad agire: già dal 1978 Stati Uniti, Canada, Norvegia, Svezia e Danimarca approvarono regolamenti per limitare l’uso dei CFC. Nonostante le iniziali resistenze, l’industria finì per adeguarsi alle nuove norme e investì massicciamente nella ricerca di sostituti più sicuri. LEGGI TUTTO

