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    Decarbonizzare una cementeria? Si può fare, a Rezzato-Mazzano

    La cattura di emissioni di CO2 da qualche anno si inizia a sperimentare anche nelle cementerie, ma l’avanguardia probabilmente sarà in Italia, esattamente presso l’impianto Rezzato-Mazzano di Heidelberg Materials Italia. Il relativo progetto Dream (Decarbonisation of the Rezzato And Mazzano cement plant) infatti è stato selezionato per concorrere alla ricezione dell’Innovation Fund dell’Unione Europea. Si […] LEGGI TUTTO

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    Dalla Lombardia alla Basilicata, i fondi regionali per il fotovoltaico

    Fine d’anno con nuovi fondi a disposizione a supporto del fotovoltaico. Diversi i bandi regionali attivi che si rivolgono a privati e imprese possono contare su alcune centinaia di milioni di euro di contributi a fondo perduto per installare impianti solari e sistemi di accumulo. Il punto sui principali finanziamenti disponibili e sulle scadenze da non perdere.

    Friuli Venezia Giulia, fondi anche per i pannelli da balcone
    Il bando della Regione Friuli Venezia Giulia per il fotovoltatico su immobilo residenziali prevede anche il finanziamento per i sistemi plug and play, ossia dei pannelli da balcone. Previsto un contributo pari al 40% del costo. Per un impianto fotovoltaico di questo tipo il costo massimo ammissibile è di 1.720 euro, con un incentivo massimo di 688 euro. Per gli impianti tradizionali, ossia quelli con potenza pari o superiore agli 800 kw, invece, è ammissibile un costo massimo di 3.000 euro al kW con il limite di 7.200 euro per l’incentivo. Agevolate al 40% anche le batterie di accumulo. Le domande possono essere presentate solo a lavori ultimati attraverso la piattaforma online dedicata. L’incentivo è cumulabile con le detrazioni fiscali (bonus casa al 50%), purché la somma delle agevolazioni ottenute non ecceda il limite della spesa complessivamente sostenuta.

    Basilicata, domande entro il 31 dicembre
    Anche la Basilicata punta sul fotovoltaico residenziale con uno stanziamento di 39 milioni di euro destinato a impianti a fonti rinnovabili per privati. Il bando prevede contributi a fondo perduto fino a 10.000 euro per l’installazione di impianti fotovoltaici con potenza non inferiore a 3 kW (con tolleranza del 5%). L’agevolazione include anche i sistemi di accumulo con capacità minima di 4,5 kWh, oltre a collettori solari, pompe di calore e scaldacqua a pompa di calore. Le domande possono essere presentate fino al 31 dicembre 2025 attraverso la piattaforma Centrale bandi della Regione.

    Liguria, una settimana per presentare domanda
    La Regione Liguria offre invece un’opportunità con tempi molto stretti. Il bando si rivolge a micro, piccole, medie e grandi imprese per la realizzazione di impianti di autoconsumo da fonti rinnovabili. Sono ammessi interventi che riguardano fotovoltaico, mini-eolico, geotermico e biomassa, oltre alla sostituzione di componenti obsoleti con soluzioni più efficienti. La piattaforma per la compilazione offline delle domande è disponibile dal 3 novembre 2025, mentre l’invio telematico sarà possibile dal 17 al 29 novembre prossimo.

    Sardegna, a disposzione 29 milioni fino a giugno 2026
    Tempo più ampio in Sardegna per le imprese sarde che possono contare su uno stanziamento di 29 milioni di euro per sostenere autoconsumo e risparmio energetico. Il bando, pubblicato il 23 ottobre 2025, finanzia due linee di intervento: efficienza energetica e riduzione consumi (razionalizzazione dei cicli produttivi, adeguamento e rinnovo impianti) e installazione di impianti per l’autoproduzione di energia da fonti rinnovabili. Le domande possono essere presentate fino al 30 giugno 2026, salvo esaurimento anticipato delle risorse disponibili.

    Lombardia, bando aperto dal 5 novembre
    Anche la Regione Lombardia ha pubblicato un bando da 20 milioni di euro, aperto dal 5 novembre 2025, destinato alle imprese che investono in efficientamento energetico. La misura prevede un contributo a fondo perduto pari al 50% delle spese, con un limite massimo di 50.000 euro per beneficiario. Gli interventi ammessi comprendono l’installazione di impianti fotovoltaici e sistemi di accumulo, oltre alla razionalizzazione dei cicli produttivi e all’adeguamento degli impianti per ridurre i consumi energetici. L’efficientamento atteso deve essere certificato da una relazione tecnica. Le domande devono essere presentate esclusivamente online attraverso la piattaforma Bandi e Servizi della Regione. LEGGI TUTTO

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    La ritirata da record del ghiacciaio Hektoria

    Otto km di ghiaccio persi in due mesi, ed è record. Parliamo della eccezionale ritirata del ghiacciaio di Hektoria, in Antartide, nella porzione del continente che si allunga verso la Terra del fuoco. Eccezionale perché, scrivono gli autori dalle pagine di Nature geoscience presentando i risultati delle loro analisi, qualcosa del genere nella glaciologia moderna non si era mai visto. Al di là del record, monitorare simili eventi e comprenderne le ragioni, è essenziale per capire cosa potrebbe succedere negli anni a venire ai ghiacciai antartici, spiegano gli autori.

    Riscaldamento globale

    Sopra l’Antartide aria fino a 35ºC più calda del normale

    di Fiammetta Cupellaro

    02 Ottobre 2025

    “Il ritiro dell’Hektoria è un po’ uno shock: questa fulminea ritirata cambia davvero quello che potrebbe succedere ad altri ghiacciai più grandi del continente”, ha commentato dal Cooperative Institute for Research in Environmental Science (Cires) della University of Colorado Boulder Ted Scambos, tra gli autori della ricerca: “Se le stesse condizioni si verificassero in altre aree, l’innalzamento del livello del mare nel continente potrebbe accelerare notevolmente”. La ritirata del ghiaccio Hektoria è avvenuta a cavallo tra il 2022 e l’inizio del 2023, e in totale si stima che le perdite siano state di 25 km, ma si sono concentrate alla fine del 2022, quando solo tra novembre e dicembre appunto ne sono volati via 8 km.

    Secondo gli autori, che hanno mappato cambiamenti nelle dimensioni, morfologia e altezza del ghiacciaio utilizzando i dati raccolti da diversi satelliti combinati con analisi sismiche, il fenomeno andrebbe ricollegato alla particolare conformazione dell’Hektoria, tutt’altro che rara nell’Antartide. Secondo le loro ricostruzioni il fenomeno ha avuto inizio con il distacco progressivo di iceberg dal ghiaccio, che avrebbe anticipato l’assottigliamento dell’Hektoria. A questo punto, spiegano i ricercatori, la conformazione del terreno sotto il ghiacciaio, piatto, avrebbe favorito il galleggiamento e quindi l’ulteriore sfaldamento, accelerato. Nello specifico gli scienziati parlano di ice plain per riferirsi alle zone piatte su cui è appoggiato il ghiacciaio, sottoposte alla spinta idrostatica. Regioni simili, continuano, sono state osservate in diverse aree dell’Antartide, come la Barriera di Ross, il ghiacciaio di Pine Island o il ghiacciaio Thwaites.

    Crisi climatica

    L’iceberg più grande del mondo si sta disintegrando

    di Giacomo Talignani

    03 Settembre 2025

    “In questo caso, il ritiro è stato causato principalmente da un processo di distacco legato all’ice plain, piuttosto che dalle condizioni atmosferiche o oceaniche come suggerito in precedenza – concludono – Questo implica che i ghiacciai con terminazione marina e con una geometria del letto di ghiaccio ad ice plain possono essere facilmente destabilizzati”. LEGGI TUTTO

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    Perché all’Italia non conviene una retromarcia sulla transizione alla green economy

    Lo stato di salute della Green economy in Italia registra luci ed ombre. Nel 2024 le emissioni di gas serra diminuiscono troppo poco; aumentano i consumi finali di energia per edifici e trasporti e si importa troppa energia dall’estero; il consumo di suolo non si arresta; la mobilità sostenibile si scontra con 701 auto ogni 1000 abitanti, il numero più alto d’Europa. Dall’altro lato, la produzione di energia elettrica da rinnovabili è arrivata al 49% di tutta la generazione nazionale di elettricità, l’Italia mantiene il suo primato europeo in economia circolare, l’agricoltura biologica cresce del 24% nel 2024 e le città italiane mostrano vivacità nella transizione ecologica. È questa la fotografia dell’Italia delle green economy contenuta nella Relazione sullo Stato della Green Economy 2025 presentata oggi in apertura degli Stati Generali della Green Economy, il summit verde promosso dal Consiglio Nazionale della Green Economy e dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile.

    “Abbiamo messo al centro di questa edizione un tema cruciale per il nostro paese: conviene o meno all’Italia tornare indietro nella transizione ad una green economy decarbonizzata, circolare e che tutela il capitale naturale? – ha affermato Edo Ronchi, Presidente della Fondazione Sviluppo Sostenibile – Noi riteniamo di no, anche alla luce dell’impatto positivo sull’economia italiana avuto con i progetti del PNRR, nei quali è stato rilevante l’aspetto della sostenibilità ambientale. Senza il Pnrr, il Pil italiano sarebbe stato in stagnazione o, addirittura, in recessione e sarebbe stato molto difficile contenere il deficit al 3%. Per l’Italia, al centro dell’hot-spot climatico del Mediterraneo, con un aumento delle temperature che corre il doppio della media mondiale, la transizione energetica e climatica è di vitale importanza”.

    “L’Italia, con le sue leadership in settori fondamentali come l’economia circolare, ha le carte in regola per essere nel gruppo di testa di un’Europa che guardi alla transizione in modo realistico e pragmatico. In un contesto complesso sotto il profilo geopolitico e di profondi cambiamenti climatici, il nostro continente deve investire in innovazione, crescita sostenibile e sicurezza energetica. L’Italia delle imprese impegnate nella green economy è un esempio da seguire per l’economia del futuro”: lo dichiara Gilberto Pichetto Fratin, Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica.

    I numeri italiani

    Emissioni e Clima

    Dal 1990 al 2024 sono state ridotte complessivamente del 28%, ma nel solo 2024 il taglio delle emissioni di gas serra è stato di poco più di 7 milioni di tonnellate, neanche un meno 2% su base annua: un quarto della diminuzione registrata nel 2023. Per raggiungere l’obiettivo assegnato all’Italia nell’ambito del burden sharing europeo del 43% al 2030, occorre tagliarle di un altro 15% nei rimanenti 6 anni. In Italia il 2024 è stato l’anno più caldo di sempre con oltre 3.600 eventi climatici estremi, quattro volte quelli del 2018.

    Energia, rinnovabili al 49% per la produzione elettrica
    Dal 2005 al 2024, in Italia i consumi di energia per unità di ricchezza prodotta si sono ridotti del 28% (meno della media europea del 35%). L’Italia rimane inoltre fra i Paesi europei con la più alta dipendenza energetica dall’estero. Per i consumi finali di energia, le stime per il 2024 non sono positive: i consumi registrano un aumento di circa l’1,5%, da ricondursi interamente ai settori degli edifici e dei trasporti, che si confermano i veri settori “hard to abate” per l’Italia. Nel 2024 la produzione di elettricità da rinnovabili ha superato i 130 miliardi di kWh, al 49% della generazione di elettricità, in traiettoria col target del Pniec, del 70% al 2030. Purtroppo, i dati del primo semestre del 2025 mostrano un nuovo possibile rallentamento – del 17% per le nuove installazioni di eolico e fotovoltaico rispetto al primo semestre del 2024 – probabilmente per la fine del superbonus del 110% e per la frenata attivata da alcune Regioni. Più efficienza, maggiore risparmio energetico e un forte sviluppo delle rinnovabili sono essenziali non solo per la decarbonizzazione, ma anche per ridurre in Italia i costi dell’energia e aumentare la competitività.

    Economia circolare, l’Italia primeggia in Europa
    La transizione verso una maggiore circolarità dell’economia è particolarmente importante per l’Italia, che utilizza grandi quantità di materiali che importa per il 46,6%. L’Italia ha le migliori performance di circolarità fra i grandi Paesi europei per la produttività delle risorse, cresciuta dal 2020 al 2024 del 32%, da 3,6 a 4,7 €/kg; per il tasso di utilizzo circolare dei materiali, che nel 2023 ha raggiunto il 20,8; per-il tasso di riciclo dell’86% del totale dei rifiuti e per il 75,6% di riciclo degli imballaggi. Attenzione però al mercato delle MPS, in particolare quello della plastica riciclata che è precipitato in una forte crisi e che, se non risolta, potrebbe produrre ricadute negative anche sugli sbocchi delle raccolte differenziate.

    Mobilità, l’e-car non decolla
    In Italia, benché nel 2024 abbiamo raggiunto il record europeo di 701 auto ogni 1000 abitanti (571 la media UE di 571), la produzione è scesa ai minimi storici, a 310 mila unità, con una quota, ormai marginale, del 2,1%, della produzione di auto in Europa. Dopo aver perso il treno dell’industria automobilistica tradizionale, si stanno accumulando ritardi anche nell’industria automobilistica del futuro, quella delle auto elettriche, calate del 13% nel 2024, con una quota di mercato in diminuzione dall’8,6% al 7,6%, un terzo della media UE che è al 22,7%. Benzina e diesel alimentano ancora l’82,5% del parco e il parco auto invecchia ogni anno di più, è arrivato a una media di 12,8 anni.

    Agricoltura, il biologico cresce
    Tra il 1980 e il 2023 in Italia i danni causati all’agricoltura da eventi atmosferici estremi sono stati pari a 135 miliardi di euro, il più elevato in Europa. È essenziale che l’agricoltura italiana sia più coinvolta nella transizione climatica, con misure di adattamento e mitigazione. L’Italia è il Paese europeo con il più elevato numero di prodotti DOP, IGP, STG: nel 2023 sono stati 856. Cresce ormai ogni anno l’agricoltura biologica. Nel 2024 la somma delle aree certificate e in conversione è stata di 2.514.596 con un incremento del 2,4% rispetto all’anno precedente e dell’81,2% in confronto al 2014. La Sicilia continua a essere la regione con la maggiore estensione in valore assoluto (402.779), seguita da Puglia e Toscana. Queste tre regioni concentrano il 38% di tutta la superficie biologica nazionale.

    Il consumo di suolo non si arresta
    Tra il 2022 e il 2023 il consumo di suolo in Italia è stato di 64,4 km2 circa 17,6 ettari al giorno, il terzo valore più alto dal 2012. L’impermeabilizzazione del suolo aumenta il deflusso superficiale e riduce la capacità di assorbimento delle piogge, contribuendo ad aumentare gli impatti degli eventi atmosferici estremi. In termini di impermeabilizzazione, tra i capoluoghi delle Città Metropolitane, segnaliamo che Napoli con il 34,7% e Milano con il 31,8%, hanno i valori più elevati, mentre Messina (6%), Reggio Calabria (5,8%) e Palermo (5,7%) registrano le minori percentuali.

    Le città italiane al lavoro per la transizione ecologica
    Le città italiane sono molto esposte ai rischi della crisi climatica. Nei mesi estivi del 2024, il 90,6% della popolazione residente nelle città italiane è stata esposta a temperature medie superiori a 40°C. Grazie alla partecipazione ad iniziative europee e ai fondi del Pnrr, molte città hanno realizzato interventi di mitigazione e di adattamento alla crisi climatica e iniziative dedicate alla transizione ecologica: impianti innovativi per la gestione rifiuti urbani, aumento di piste ciclabili e potenziamento del trasporto pubblico, rinnovo delle flotte di bus, tutela e valorizzazione del verde urbano, ecc. Nel 2026, terminati i fondi del Pnrr, occorrerà attivare nuove forme di finanziamento per continuare a sostenere la grande vivacità e qualità delle iniziative per la transizione ecologica avviate nelle città. LEGGI TUTTO

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    A 10 anni da Parigi la sfida del clima può essere vinta

    Belém, nel cuore dell’Amazzonia, la Cop30 riunirà il mondo attorno al tavolo del clima, a dieci anni esatti dallo storico Accordo di Parigi. In un decennio caratterizzato da un crescendo di conflitti, tensioni geopolitiche e sfiducia nel multilateralismo, la Cop rimane una bussola importante. Attorno a quel tavolo, ogni anno, quasi duecento Paesi discutono soluzioni per la sfida più grande del nostro tempo: come e in che tempi abbandonare i combustibili fossili e mantenere le temperature all’interno di una soglia compatibile con le indicazioni della scienza.

    Editoriale

    Cop30 – “L’ultimo appello”. Un’istituzione da difendere

    di Federico Ferrazza

    03 Novembre 2025

    È innegabile, molti oggi guardano all’obiettivo di 1,5 °C con scetticismo. Ma il bilancio scientifico è severo: il margine di emissioni compatibile con quella soglia è sempre più esiguo. Tuttavia, senza l’azione avviata a Parigi, oggi saremmo in una situazione drammaticamente peggiore. Dal 2015 la traiettoria di riscaldamento globale stimata è scesa da 3,9 °C a 2,6 °C (Unep), e oltre cento Paesi hanno oggi un obiettivo di neutralità climatica (Unfccc). Gli sforzi fatti hanno rallentato la corsa verso il disastro. Il primo bilancio globale di tali sforzi, in gergo Global Stocktake, concluso a Dubai nel 2023, ha indicato la necessità di accelerare: triplicando le rinnovabili, raddoppiando l’efficienza energetica e avviando l’abbandono graduale dei combustibili fossili. Una decisione, quella di Cop28, che ha riconosciuto l’inevitabilità della fine dell’era fossile.

    L’Europa è l’esempio più tangibile del cambiamento. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, le emissioni nette dell’Unione europea nel 2022 erano inferiori del 31% rispetto al 1990. Un risultato significativo se si considera che, nello stesso periodo, il Pil europeo è cresciuto considerevolmente. Progressi che mostrano l’avanzare della decarbonizzazione, con la crescita di rinnovabili ed efficienza energetica, in sostituzione a carbone, gas e petrolio. Gli Accordi di Parigi hanno innescato una nuova rivoluzione industriale. Oggi fare innovazione significa investire nelle tecnologie della transizione, le cosiddette clean tech. Dal 2015, i dati dell’Agenzia Internazionale dell’Energia indicano che i costi dell’energia solare sono diminuiti dell’85% e quelli delle batterie del 90%, e gli investimenti globali in energia pulita hanno raggiunto i 2.000 miliardi di dollari nel 2024, il doppio di quelli nei combustibili fossili. La mobilità elettrica è il nuovo standard per il futuro dei trasporti e l’elettrificazione dei consumi finali diventa sempre più realtà per molte famiglie e imprese. Secondo l’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili, nel 2024 si è registrato un aumento di 582 gigawatt di capacità rinnovabile a livello globale, il più alto incremento annuale mai registrato. Si tratta di una trasformazione che ridisegna l’economia globale: chi investe nel futuro pulito ha ritorni in termini di competitività, occupazione e sicurezza. Chi, al contrario, si ostina a difendere il passato rischia di restare intrappolato in industrie obsolete e capitali bloccati in asset destinati a perdere valore. La neutralità tecnologica non esiste: le tecnologie hanno costi, efficienza, maturazione di mercato e disponibilità diverse tra loro. Oggi vince chi punta sulle tecnologie più efficienti, economiche e disponibili, come le rinnovabili.

    In questi dieci anni, gli Stati Uniti sono passati da un programma ambizioso per la transizione come l’Inflation Reduction Act, all’avvento di Trump, che ha scelto di proteggere i settori tradizionali fossili. Tuttavia, restare ancorati al passato non preserva la competitività, la compromette. L’economia globale, trainata da realtà come Cina e India, non aspetta: l’innovazione verde sta diventando la misura della potenza economica.

    Verso Cop30

    Emissioni, finanza, foreste: i temi in discussione in una Cop in bilico

    di Luca Fraioli

    03 Novembre 2025

    Ma l’innovazione richiede finanziamenti e, in questo senso, dal 2015 i flussi finanziari globali hanno preso nuove direzioni. Nel 2022, alla Cop27 di Sharm el-Sheikh, si è reso operativo il “Fondo per Perdite e Danni” (Loss and Damage Fund), primo strumento di solidarietà verso i Paesi più colpiti dagli impatti climatici. Nel 2024, alla Cop29 di Baku, un nuovo obiettivo di finanza climatica ha impegnato i Paesi più ricchi a mobilitare 1.300 miliardi in finanza per il clima entro il 2035.

    Molto resta da fare soprattutto per finanziare l’adattamento. Alla Cop30 di Belém, i Paesi rimarranno sulla rotta tracciata in questi dieci anni, nonostante l’opposizione americana? Molto dipenderà da nuove alleanze e compromessi, inclusa una cooperazione lucida e selettiva tra Europa e Cina. Dieci anni dopo l’Accordo di Parigi, il mondo non ha ancora risolto la sfida climatica, ma ha mostrato che può farlo. La bussola del clima esiste: basta seguirla.

    (*Luca Bergamaschi, esperto di politica energetica, è cofondatore e direttore esecutivo di Ecco, il think tank italiano per il clima) LEGGI TUTTO

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    L’alocasia, come prendersi cura delle “orecchie di elefante”

    L’alocasia è una delle piante tropicali più amate dagli appassionati di botanica e di design d’interni. Originaria delle foreste pluviali dell’Asia sud-orientale, appartiene alla famiglia delle Araceae e deve il soprannome “orecchie di elefante” alle sue foglie enormi, a forma di cuore o di freccia. In natura può superare i due metri di altezza, mentre in appartamento resta una presenza scenografica e di grande eleganza. Prendersene cura, tuttavia, non è immediato: questa pianta richiede attenzioni precise su luce, umidità, terreno e difesa dai parassiti. Ecco una guida completa per coltivarla con successo.

    Coltivazione dell’alocasia: terreno e clima ideali
    Per crescere rigogliosa, l’alocasia ha bisogno di condizioni che riproducano il suo habitat tropicale. Predilige temperature comprese tra i 18 e i 25 gradi e non tollera sbalzi termici né correnti d’aria fredde. Sotto i 15 gradi, infatti, la pianta rischia di soffrire e arrestare lo sviluppo. Per quanto riguarda invece il terreno, questo deve essere soffice, ben drenato e ricco di sostanza organica: un mix di terriccio universale, torba e perlite assicura il giusto equilibrio tra umidità e ossigenazione delle radici. Per chi desiderasse coltivare l’alocasia in giardino, è bene ricordare che in Italia può vivere all’aperto solo nelle zone più miti, mentre altrove conviene tenerla in vaso per spostarla facilmente in inverno.

    Irrigazione: quando annaffiarla
    L’acqua è vitale per questa pianta, che ama l’umidità costante. Ma attenzione: troppa irrigazione può essere dannosa quanto la siccità. Il ristagno idrico, infatti, favorisce il marciume radicale, una delle principali cause di deperimento della maggior parte delle piante. Il metodo migliore per capire se sia o meno ora di irrigare l’alocasia è quello di controllare il terreno con le dita. Se lo strato superficiale appare asciutto, è il momento di annaffiare; in estate la frequenza può arrivare a due volte a settimana, mentre in inverno va ridotta sensibilmente. Un’accortezza in più è nebulizzare le foglie con acqua non calcarea, per ricreare il microclima umido che l’alocasia predilige.

    L’esposizione dell’alocasia
    La luce è un altro fattore decisivo per la salute dell’Alocasia. Questa pianta tropicale ha bisogno di ambienti luminosi, ma non sopporta i raggi diretti del sole, che possono bruciare le foglie lasciando antiestetiche macchie marroni. Se coltivata in casa, il punto ideale è vicino a una finestra orientata a est o a ovest, dove la luce arriva filtrata e mai troppo aggressiva. In giardino, invece, l’Alocasia va collocata in mezz’ombra, protetta dalle ore più calde della giornata.

    Come prendersi cura dell’Alocasia: concimazione
    Durante la stagione vegetativa, da aprile a settembre, l’Alocasia beneficia di una fertilizzazione regolare. Un concime liquido per piante verdi, somministrato ogni due settimane, garantisce un apporto costante di nutrienti. In autunno e inverno, quando la pianta entra in riposo, la concimazione va sospesa. Anche le grandi foglie dell’alocasia richiedono una certa attenzione; per mantenerle in salute ed esteticamente appaganti, sarebbe utile pulirle periodicamente con un panno umido per eliminare la polvere e favorire la fotosintesi. Nel caso in cui dovessero comparire foglie ingiallite, nessuna preoccupazione: non è sempre un segno di malattia. Potrebbe essere il normale ricambio vegetativo, perciò niente panico.

    Parassiti e malattie: come difendere l’alocasia
    Nonostante il suo aspetto vigoroso, l’alocasia è vulnerabile ad alcuni nemici. Afidi, cocciniglie e acari sono i parassiti più comuni: si nutrono della linfa e indeboliscono la pianta. In questi casi è possibile intervenire con sapone insetticida, olio di neem o, nei casi più gravi, prodotti specifici. Tra le malattie più frequenti c’è l’oidio, un fungo che si manifesta con una patina biancastra sulle foglie (e che colpisce molte piante, in realtà). Anche in questo caso, prevenzione e buona aerazione sono fondamentali: se necessario, si può ricorrere a fungicidi mirati. Un ingiallimento diffuso delle foglie, invece, segnala quasi sempre errori di gestione: troppa acqua, luce insufficiente o temperature non adeguate. LEGGI TUTTO

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    Sul Kilimangiaro è scomparso il 75% delle specie vegetali in un secolo

    Sui pendii della montagna più alta dell’Africa, il Kilimangiaro, ci sono sempre meno specie di piante. A lanciare l’allarme è oggi un nuovo studio dei ricercatori dell’Università di Bayreuth, in Germania, secondo cui nell’ultimo secolo la perdita delle specie vegetali naturali sulle pendici inferiori del Kilimangiaro è stata pari al 75%. Un preoccupante declino della biodiversità che, secondo gli autori, non sarebbe stato direttamente causato dai cambiamenti climatici, bensì da pressioni antropiche, e in particolare dai cambiamenti nell’uso del suolo. I dettagli sono stati pubblicati sulla rivista Plos One. Il Kilimangiaro e i suoi ecosistemi Milioni di persone che vivono nelle aree vicine alla montagna dipendono dai suoi ecosistemi, ad esempio per il legname, il cibo e le risorse idriche. Tuttavia, come già suggerito da ricerche precedenti, la biodiversità presente in questi ecosistemi è gravemente minacciata da molteplici fattori, come i cambiamenti climatici, l’inquinamento, l’introduzione di specie invasive, l’estrazione di risorse e il cambiamento nell’uso del suolo. Comprendere non solo quali siano gli effetti ma anche le cause dirette del calo della biodiversità sul Kilimangiaro, così come su altre montagne tropicali, è quindi fondamentale per orientare al meglio gli sforzi di mitigazione.

    L’analisi
    Ed è proprio in questa direzione che si sono focalizzati gli autori del nuovo studio. Hanno, infatti, analizzato mappe storiche, dati di censimento, immagini satellitari e un set di dati ad alta risoluzione spaziale di circa 3 mila specie vegetali presenti in diverse parti della regione. Dai loro risultati è emerso che la principale causa diretta della perdita di biodiversità vegetale nell’ultimo secolo (1911-2022) è stata il cambiamento nell’uso del suolo, come per esempio l’espansione delle aree urbane, dovuta a una rapida crescita demografica, e la conversione degli habitat della savana in terreni agricoli, derivata dallo sviluppo economico. In questo periodo, infatti, le pendici inferiori del Kilimangiaro hanno registrato una perdita del 75% delle specie vegetali naturali per chilometro quadrato. I cambiamenti climatici, invece, non sono risultati essere una causa diretta significativa del calo delle specie vegetali su questo vulcano.

    Il cambiamento nell’uso del suolo
    Il nuovo studio, il primo nel suo genere ad aver collegato la densità della popolazione umana a quella delle specie vegetali su una scala così piccola (1 km²), rappresenta quindi un’ulteriore conferma che la perdita di biodiversità sia una conseguenza diretta delle attività antropiche. “La nostra ricerca rivela che il cambiamento nell’uso del suolo, causato dalla rapida crescita demografica – non il cambiamento climatico – è stato il principale fattore diretto della perdita di biodiversità sul Monte Kilimangiaro nell’ultimo secolo”, spiegano gli autori. “È stato sorprendente scoprire che, contrariamente a quanto si pensa comunemente, il cambiamento climatico non ha avuto effetti misurabili sulle tendenze della biodiversità locale, il che sottolinea l’urgente necessità di affrontare fattori socioeconomici come l’uso del suolo nelle politiche di conservazione”. Anche le specie animali sono in declino e perdono “potenza”. Rimanendo nel continente africano, anche gli ecosistemi della fauna selvatica sono in pericolo. A riferirlo è stata una nuova ricerca pubblicata su Nature e coordinata dall’Università di Oxford, a cui ha collaborato anche Luca Santini del dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università di Roma, che si basa su un approccio energetico per mostrare non solo il declino della biodiversità animale, ma anche come questo influisca sul funzionamento degli ecosistemi. Secondo l’analisi, infatti, gli ecosistemi africani hanno perso oggi, rispetto all’epoca pre-coloniale e pre-industriale, oltre un terzo della potenza, in ciò che gli esperti chiamano flussi di energia trofica. La causa di questa perdita, come suggeriscono i ricercatori, è in gran parte dovuta al declino della megafauna, ossia le specie di grandi dimensioni, come leoni, elefanti e rinoceronti, che ha appunto il potenziale di alterare la funzionalità degli ecosistemi. LEGGI TUTTO

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    I Paesi più ricchi e tecnologici perdono la “connessione con la natura”

    In epoca di continui sviluppi tecnologici e sociali, quanto riusciamo ancora ad essere fortemente connessi alla natura? E cosa influenza il nostro legame con il “creato”? Domande che secondo un nuovo studio mostrano alcune evidenze importanti: laddove la spiritualità, la fede religiosa, le credenze e le tradizioni sono ben radicate, il rapporto con la natura appare più stretto. Al contrario, nei luoghi in cui c’è una maggiore “facilità di fare impresa”, in pratica nei Paesi più costantemente orientati al business e alle spinte del mercato, i legami con ambiente e natura sono più deboli. Così si spiega per esempio come il Paese al mondo “più connesso con la natura” risulti essere il Nepal, mentre quello meno ravvicinato all’ambiente sia oggi la Spagna con la sua economia in crescita. A raccontarci i dettagli di queste connessioni è un nuovo studio, che fa leva sia su competenze psicologiche, sia economiche ed ambientali, pubblicato su Springer Nature da un team internazionale di ricercatori e a guida britannica.

    Gli esperti, attraverso un ampio set di dati e sondaggi che hanno coinvolto in totale 57mila persone, hanno realizzato una classifica sulla connessione con la natura che riguarda 61 Paesi. Al primo posto con un valore superiore allo zero, c’è il Nepal (1.386), seguito da Iran (1.215) e dal Sudafrica (1.200). I meno connessi sono invece Spagna (-0,613), Giappone (-0,391) e Israele (-0.303). Nella classifica si leggono i punteggi in totale di 63 realtà: alla lista dei 61 Paesi esaminati va infatti aggiunta la Gran Bretagna scelta come Paese di riferimento (dal valore 0) e la Palestina.

    In questo contesto l’Italia risulta al 44esimo posto come “connessione alla natura”. La prima delle realtà europee che mostra più legami con l’ambiente è invece la Croazia (settima), mentre il Brasile dove si svolgerà a breve la COP30 – la grande conferenza delle parti sul Clima – è all’undicesimo posto, la Palestina è al 12esimo e la Cina, sempre per fare un esempio, è trentaseiesima.

    Nello specifico lo studio tenta di indagare come i nostri comportamenti nei confronti della natura siano influenzati dai fattori sociali, economici, ma anche culturali o geografici, sempre partendo però dal concetto psicologico di misura della vicinanza fra la nostra ed altre specie. In generale gli studi mostrano come un’elevata connessione con la natura porti a un benessere maggiore e un aumento del rispetto nei confronti dell’ambiente mentre bassi livelli virano invece verso cause di deterioramento naturale, come la perdita di biodiversità o l’aumento delle disuguaglianze. Come ha spiegato Miles Richardson, esperto di “connessione con la natura” che insegna all’università di Derby ed è fra i primi autori dello studio, questa ricerca evidenzia come la spiritualità delle persone e i popoli sia un indicatore decisivo: più è alta, più società e culture mostrano livelli di connessione maggiore. Laddove prevale la fede i dati mostrano una maggiore connessione, mentre al contrario quando a prevalere sono scienza e interessi economici avviene una sorta di distacco.

    A influenzare negativamente il rapporto con la natura sono anche i livelli di urbanizzazione, l’uso di internet e il reddito medio. Per Richardson “la connessione con la natura non riguarda solo ciò che facciamo, ma anche il modo in cui ci sentiamo, pensiamo e diamo valore al nostro posto nel mondo vivente”. Parlando della Gran Bretagna, realtà nella parte bassa della classifica e paese di riferimento dello studio, il professore spiega di non essere stupito dei risultati dato che “siamo diventati una società più razionale, economica e scientifica. Questo ha ovviamente portato alcuni fantastici benefici, ma è importante bilanciarli con i problemi imprevisti. Per esempio dovremmo chiederci come poter reintegrare il pensiero naturale nel nostro mondo altamente tecnologico. È ovviamente molto difficile cambiare le culture, ma si tratta di integrare il valore della natura rendendola parte del nostro benessere, in modo che diventi rispettata e quasi sacra”.

    Come si potrebbe dunque migliorare il rapporto dei cittadini con la natura? Fondamentale, per gli autori delo studio, è lo sviluppo dei diritti della natura che devono essere inseriti nelle leggi, ma anche normare ciò che è necessario fare per l’aumento della biodiversità e aggiungere per esempio l’importanza del valore della natura e dell’ambiente anche nei trattamenti di salute pubblica (quella mentale compresa). E per fare questo non si tratta “semplicemente di creare un parco in una città, ma di andare più in profondità nel rafforzare il legame con la natura nelle società urbanizzate” conclude Richardson. LEGGI TUTTO