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    Il vero mostro di Halloween è lo spreco. Dalle zucche ai vestiti, è tempo di riciclo

    Il mostro più spaventoso di Halloween è lo spreco. Questa notte milioni di persone nel mondo festeggeranno la festa del “dolcetto o scherzetto” con costumi mostruosi, tante decorazioni e una innumerevole quantità di zucche. Dietro al divertimento, gli scherzi e gli effetti speciali per rendere la celebrazione sempre più “paurosa”, c’è però un lato preoccupante che in anni di maggiore consapevolezza sulla necessità di una migliore impronta ambientale sta emergendo con forza: l’enorme volume di sprechi che vengono generati, per esempio quelli delle celebri zucche in cui inserire le candele, ma anche la grande quantità di costumi e materiali in plastica spesso destinati a finire in discarica.

    Conoscere i volume dell’impatto di queste criticità può aiutarci a ragionare su un Halloween più sostenibile in cui realizzare per esempio costumi con materiale di scarto o riciclato, oppure l’importanza di recuperare, cucinare o usare per il compostaggio le zucche anziché avviarle al macero e a conseguenti emissioni di metano. Una fotografia dell’impronta negativa ambientale di Halloween la restituiscono bene due realtà dove questa ricorrenza è fortemente celebrata, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Nel Regno Unito per esempio si stima che ogni anno vengano prodotte 18mila tonnellate di scarti di zucca. Solo in territorio britannico 22 milioni di zucche vengono gettate, per uno spreco alimentare che è stimato in 32 milioni di sterline. In media, solo una persona su nove cucinerà – dopo averle intagliate e trasformate in simboli della paura – le zucche utilizzate. A livello di costumi si parla invece di sette milioni di capi gettati via dopo Halloween, vestiti che vengono indossati una sola volta da quasi la metà delle persone. Secondo il gruppo Hubbub, che ha condotto uno studio sui rifiuti, buona parte di questi capi, il 63%, contiene poliestere che può impiegare anche due secoli a decomporsi e l’83% dei costumi è fatto in generale con parti di plastica non riciclabile. Per questo le stime indicano una produzione di circa 2000 tonnellate di rifiuti di plastica solo nella settimana di Halloween, tenendo conto anche degli imballaggi delle caramelle usate per il famoso “dolcetto o scherzetto”.

    Negli Stati Uniti gli sprechi diventano esponenziali. Partendo dai dolcetti, la stima è che in media ogni bambino che bussa con il suo contenitore per raccogliere cioccolatini alle porte dei vicini genera in media mezzo chilo di spazzatura. Il numero delle zucche che finiscono al macero poco dopo un solo giorno di festa è poi davvero incredibile: si parla di 450 milioni di chili di zucche. Come costumi, saranno invece 35 milioni i capi che finiranno per essere gettati, secondo FairylandTrust. Infine, un altro spreco da non sottovalutare, è quello dei semi di zucca, che sono considerati una miniera d’oro dal punto di vista nutrizionale dato che contengono proteine, zinco, magnesio e grassi sani. Anche questi potrebbero essere risparmiati nella corsa al consumismo, così come la parte delle zucche intagliate e magari difficili da consumare può sempre essere donata a fattorie locali in grado di riusarle come mangime per gli animali. Tutti numeri, quelli che riguardano Usa e Uk, che ci aiutano a ragionare sull’enorme impatto di una festa che sta crescendo per volumi di consumo anche in Italia. Di recente la Coldiretti ha stimato, per l’Halloween 20225, un valore di circa 30 milioni di euro legato alla “zucca economy”. Quest’anno, dopo forti cali di produzione legati alla crisi del clima, la coltivazione di zucca si è leggermente ripresa e le stime indicano un raccolto totale di quasi 40mila tonnellate, con un prezzo medio al dettaglio intorno a 2 euro al chilo anche se “può arrivare al doppio o al triplo” a seconda di varietà o se già sbucciate, ricorda la Coldiretti. Un prezzo non da poco che, oltre alla questione emissioni e inquinamento da plastica, dovrebbe essere un motivo in più per riutilizzare anziché sprecare. LEGGI TUTTO

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    In Svizzera gli orologi si riciclano nei forni solari

    Nella Watch Valley, tra Ginevra e Basilea, i maestri orologiai adesso dispongono di due forni a energia solare che consentono di riciclare gli scarti metallici e ottenere preziosi lingotti di acciaio. Il segreto di questo successo di economia circolare si deve alla start-up giurassiana Panatere – dal dialetto locale che con lo stesso termine indica il cestino di vimini usato dai contadini per la raccolta di frutta. LEGGI TUTTO

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    Legambiente, foreste a rischio: bruciati 94 mila ettari. Il doppio rispetto al 2024

    Messe a dura dagli incendi, dallo sfruttamento, dalla perdita di biodiversità, le foreste italiane stanno vivendo un momento di grande vulnerabilità. Da nord a sud. Eppure, non solo rivestono un ruolo cruciale – ricoprono il 40% del territorio nazionale – nel contrasto al cambiamento climatico, ma sono anche custodi di una straordinaria biodiversità. Così appare preoccupante il report presentato da Legambiente all’ottavo Forum sulle Foreste e che fotografa la situazione nel 2025. Un anno complicato: da inizio anno al 15 ottobre sono bruciati ben 94.070 ettari di territorio, pari a 132 mila campi da calcio. Quasi il doppio rispetto agli ettari andati in fumo nel 2024 ossia 50.525. “Se le politiche di gestione forestale venissero attuate concretamente, potrebbero catturare oltre 20 milioni di tonnellate all’anno, lo stesso impatto di circa 5 milioni di auto”, spiegano i ricercatori di Legambiente.

    Il focus

    Il nuovo regolamento dell’Ue obbliga le aziende a contrastare la deforestazione

    di Stefano Comisi

    21 Ottobre 2025

    Le aree più colpite
    Il Sud Italia si conferma l’area più colpita dalle fiamme: maglia nera alla Sicilia, con 49.064 ettari bruciati in 606 incendi; seguita da Calabria, con 16.521 ettari in 559 eventi, Puglia con 8.009 ettari in 114 eventi, Campania con 6.129 ettari in 185 eventi, Basilicata con 4.594 ettari in 62 eventi. Ci sono poi il Lazio con 4.393 ettari in 133 eventi e Sardegna con 3.752 ettari in 57 eventi. A livello provinciale, le province più colpite, sono quelle siciliane di Agrigento (17.481 ettari bruciati), Caltanissetta (11.592), Trapani (7.148), seguite da Cosenza (6.720) e Foggia (4.9739).

    Il report

    Fao: la deforestazione nel mondo rallenta, ma non basta

    di Giacomo Talignani

    21 Ottobre 2025

    La proliferazione del bostrino
    All’impennata degli incendi, si affianca l’accelerata della crisi climatica che contribuisce a rendere le foreste più fragili e vulnerabili con eventi meteo estremi sempre più intensi, ondate di siccità, e un’estate 2025 che per l’Italia, secondo Copernicus, è stata la quinta più calda registrata dal 1950 ed è stata segnata da un’anomalia termica di +1,62°C. Preoccupa anche la proliferazione del bostrico, un piccolo coleottero che negli ultimi anni è uno dei principali responsabili dei gravi danni alle foreste alpine già devastate dalla tempesta Vaia e causando il disseccamento e la morte di molti abeti rossi. Ingenti anche i danni economici.

    Scarsa la pianificazione forestale
    Appena il 18% delle foreste ha un piano di gestione vigente. Spiega Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente: “Serve maggiore integrazione tra politiche nazionali, regionali con le strategie comunitarie e globali e un serio impegno da parte del Paese nel contrastare la deforestazione globale attraverso l’applicazione del regolamento EUDR”. E ancora. “La gestione sostenibile delle foreste è una grande opportunità per ridurre i rischi, da quello idrogeologico agli incendi, per aumentarne la fruizione e per garantire l’approvvigionamento nazionale di legname per le filiere produttive nazionali, riducendo le importazioni. Servono le giuste politiche nazionale e regionali e adeguati sostegni alla filiera, che continuano purtroppo a latitare”. LEGGI TUTTO

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    Veleni silenziosi, il lato oscuro del DDT e un insegnamento per il futuro

    Diclorodifeniltricloroetano. Un nome così complesso per una formula ben nota. La storia del DDT, che sembra così lontana, è più attuale che mai. È il 1874, quando il giovane chimico austriaco Othmar Zeidler lo sintetizza per la prima volta, il DDT rimane quasi dimenticato fino al 1939. È il chimico svizzero Paul Hermann Müller a scoprirne le potenti proprietà insetticide e la sua efficacia straordinaria. Il DDT agiva per contatto, aveva una bassa tossicità acuta per i mammiferi e, soprattutto, era incredibilmente persistente. È proprio la persistenza, all’inizio celebrata come un vantaggio, che rivelerà il suo lato oscuro. Il DDT è infatti un inquinante organico capace di resistere alla degradazione per decenni, accumularsi nei tessuti adiposi e magnificarsi lungo la catena alimentare, ossia diventare sempre più concentrato man mano che si passa dagli organismi più in basso a quelli più in alto nella catena alimentare.

    Ma facciamo un passo indietro.

    Il miracolo durante la guerra
    A metà ‘900 il DDT si rivela decisivo contro tifo e malaria poiché efficace contro un’ampia varietà di parassiti, tra cui il pidocchio (che all’epoca era uno dei principali vettori del tifo), lo scarabeo del Colorado (flagello delle coltivazioni di patata) e la zanzara anofele, responsabile della trasmissione della malaria. A metà degli anni ’40 a Napoli, il DDT viene usato per reprimere un focolaio di tifo: per la prima volta nella storia un’epidemia di questa malattia venne arrestata. Nello stesso periodo, la sperimentazione prosegue a Ostia, estendendosi al delta del Tevere e alla zona sud-orientale della Pianura Pontina, territori storicamente colpiti dalla malaria. In Sardegna, infine, per cinque anni vengono distribuite oltre 70.000 tonnellate di DDT con l’obiettivo di eradicare la zanzara Anopheles labranchiae, vettore della malattia. I casi di malaria crollarono quasi a zero.
    Il DDT diventa simbolo di progresso e modernità. Le immagini di aerei e camion che spruzzano nuvole di pesticida nei parchi, tra bambini che giocano, riflettono l’euforia di quegli anni per le nuove conquiste della scienza. Nel 1948, Paul Hermann Müller riceve il Premio Nobel per la Medicina con la motivazione che il DDT aveva “portato benefici immani all’umanità, salvando milioni di vite”.
    I primi segnali d’allarme
    Alla fine degli anni ’50 arrivano i primi segnali d’allarme. Lo studioso statunitense Joseph Hickey osserva un drastico declino nelle popolazioni di falchi pellegrini e aquile calve a causa di gusci d’uovo sottili e fragili, che si rompevano sotto il peso dei genitori durante la cova compromettendone così la riproduzione. La colpa era del DDE, il metabolita del DDT che permaneva nell’ambiente e interferiva con il sistema ormonale degli uccelli, impedendo il corretto assorbimento del calcio necessario alla formazione di gusci robusti.

    Primavera silenziosa
    In questo clima di crescente preoccupazione, nel 1962 la biologa Rachel Carson pubblica “Primavera Silenziosa”, il libro che segna una svolta nella consapevolezza ambientale. La Carson denuncia il lato oscuro dell’uso massiccio dei pesticidi: gli insetticidi non solo eliminano gli insetti nocivi, ma si diffondono nell’ambiente e lungo le catene alimentari, colpendo anche uccelli, pesci e altre specie. Il libro mette in luce come tutti gli esseri viventi siano strettamente interconnessi e interdipendenti, e trasforma l’allarme scientifico in un vero e proprio movimento di opinione pubblica globale.

    Le ripercussioni, però, non riguardavano solo la natura. Già alla fine degli anni Quaranta si osservano tra i lavoratori esposti al DDT, disturbi neurologici acuti come tremori, vertigini e nausea. Negli anni ’50 e ’60 diventa evidente che il DDT si accumula nel tessuto adiposo e nel latte materno, raggiungendo anche persone non direttamente esposte e prolungando l’esposizione per anni.

    La risposta dell’Industria
    Critiche feroci arrivano dalle industrie produttrici di pesticidi: cercano di screditare la Carson, mettendone in dubbio le competenze e l’attendibilità delle sue ricerche. Tuttavia, la sua denuncia — fondata su centinaia di studi e dati scientifici — colpisce nel segno e raggiunge la cultura popolare. I cittadini chiedono risposte e tutele. In questo contesto, organizzazioni ambientaliste come il WWF, fondato nel 1961, assumono un ruolo decisivo: finanziano ricerche indipendenti sugli effetti del DDT, promuovono campagne di sensibilizzazione e fanno pressione sui governi per regolamentarne l’uso.

    I divieti
    Nel 1972 l’EPA (Environmental Protection Agency) vieta la maggior parte degli usi del DDT negli Stati Uniti, segnando una svolta decisiva nelle politiche ambientali. Poco dopo anche l’Italia ne bandisce l’uso, la vendita e la detenzione, ponendo fine a decenni di impiego diffuso. Nel 2001 la Convenzione di Stoccolma sugli Inquinanti Organici Persistenti inserisce il DDT nella “lista nera” delle sostanze da eliminare a livello globale, pur consentendo deroghe nei Paesi senza alternative efficaci ed economicamente accessibili per il controllo della malaria.

    Il ritorno dell’Aquila
    I dati confermano le tesi della Carson. Negli anni ’60, la popolazione di aquila calva negli Stati Uniti continentali era ridotta a circa 400 coppie nidificanti anche a causa dell’uso del DDT. Dopo il divieto del pesticida nel 1972 e all’avvio di programmi intensivi di protezione, la tendenza di invertì rapidamente. Nel 2007, la popolazione superava le 11.000 coppie nidificanti, un successo tale da consentirne la rimozione dalla lista delle specie minacciate.

    La storia non finisce qui
    Nonostante i divieti, i residui di DDT sono ancora oggi presenti nei tessuti di grandi cetacei, come capodogli e balenottere anche del Mare Nostrum, a testimonianza della straordinaria persistenza di questa sostanza nell’ambiente. Tracce di DDT sono state individuate anche lungo la catena alimentare, in particolare in specie ittiche destinate al consumo umano. Durante la campagna “Detox” del 2005, ricerche finanziate dal WWF hanno rilevato residui significativi di DDT sia nei tonni e pesci spada sia nel sangue umano, evidenziando come questa sostanza continui a essere rilevabile a decenni di distanza dal suo divieto.

    Il glifosato e la lezione che non abbiamo ancora imparato
    La storia del DDT dimostra che anche soluzioni apparentemente efficaci possono comportare conseguenze a lungo termine per ambiente e salute, evidenziando l’importanza di valutazioni scientifiche rigorose prima della loro diffusione. Quello che accadde allora è il simbolo per tante battaglie ambientali di oggi: è la parabola dell’entusiasmo per una tecnologia potente, dell’allerta scientifica indipendente e della mobilitazione civile. La lezione del DDT è più attuale che mai. Sostanze come il glifosato e altri pesticidi, ancora presenti nei nostri campi e sulle nostre tavole, sollevano interrogativi analoghi sulla sicurezza a lungo termine per l’uomo e per l’ambiente.

    Se il glifosato solleva problematiche simili a quelle del DDT, non dovremmo impegnarci per trovare strategie e soluzioni migliori? Per noi, la risposta è: sicuramente sì.
    “Storie di sostenibilità” è la nuova rubrica del WWF nell’ambito della campagna Our Future
    (*Eva Alessi è responsabile sostenibilità WWF Italia) LEGGI TUTTO

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    Yishan Wong, l’ex ceo di Reddit si dedica alla riforestazione

    Per anni Yishan Wong è stato uno dei protagonisti più brillanti e controversi della Silicon Valley. Dopo aver guidato niente meno che Reddit (fra il 2012 e il 2014) e aver lavorato in precedenza in Facebook e PayPal, ha deciso di allontanarsi dal mondo dell’hi-tech tradizionale per dedicarsi a una causa radicalmente diversa: ricostruire le foreste del pianeta. Con la sua startup Terraformation, fondata nel 2020 alle Hawaii, Wong ha lanciato un progetto di riforestazione che cerca di sposare rigore scientifico, sostenibilità economica e coinvolgimento individuale.

    Il cuore del piano, annunciato da poco, è un abbonamento da 25 dollari al mese, una cifra che — spiega Wong in un’intervista al Financial Times — “riflette il vero costo di piantare e far crescere un albero sano in una foresta biodiversa”. Non si tratta quindi di un gesto simbolico – d’altronde Terraformation non è una no-profit – ma di un impegno a lungo termine: la quota copre la messa a dimora, la cura e il monitoraggio per anni, fino alla maturità della pianta. “Il nostro obiettivo non è piantare alberi a basso costo — dice Wong — ma creare ecosistemi autosufficienti che diventino serbatoi di carbonio stabili nel tempo”. Un percorso insomma un po’ diverso da quello di piattaforme per “piantare alberi” spuntate negli anni.

    Le prime foreste a godere del contributo degli utenti nasceranno in due diversi siti sulla Big Island delle Hawaii, dove Terraformation lavora con specie autoctone come il Koa (Acacia koa) e l’Hala (Pandanus tectorius), piante che giocano un ruolo cruciale nella rigenerazione del suolo e nella protezione delle coste. La sede stessa dell’azienda è un’ex base navale riconvertita in centro di ricerca e logistica per la riforestazione, dove si studiano le condizioni ottimali di crescita e i sistemi di irrigazione a energia solare.

    Tra i sostenitori del progetto figurano alcuni dei nomi più influenti della tecnologia e dell’imprenditoria statunitense: tanto per cominciare, Sam Altman fondatore di OpenAI e il fratello Max anch’egli imprenditore e venture capitalist, Marc Benioff, fondatore, presidente e Ceo di Salesforce e Naval Ravikant, co-fondatore, presidente ed ex amministratore delegato di AngelList. Una fortissima rete di finanziatori che, secondo Wong, vede nella riforestazione un modello di business scalabile e potenzialmente più efficace dei tradizionali programmi di compensazione delle emissioni. Terraformation ha già collaborato con grandi aziende per piantare milioni di alberi ma la nuova offerta in abbonamento è pensato per i singoli cittadini. “Le persone vogliono un modo diretto per contribuire — ha spiegato — e vogliono anche vedere i risultati”. No buttare pochi euro e non saperne più nulla. Per questo gli iscritti ricevono foto periodiche del loro albero e aggiornamenti sullo sviluppo del progetto.

    Non tutti, però, sono convinti che basti piantare alberi per risolvere la crisi climatica. Karen Holl, professoressa di studi ambientali all’Università della California, sottolinea che molte iniziative del genere falliscono perché si limitano alla fase iniziale, senza preoccuparsi della sopravvivenza delle piante o della biodiversità. ”Puoi piantare un albero con un dollaro, ma non puoi farlo crescere con un dollaro” ha ricordato, criticando in particolare il modello di riforestazione a basso costo diffuso finora. E chiede maggiore trasparenza da parte delle piattaforme che si sono lanciare nel settore, con dati su tassi di sopravvivenza, copertura satellitare e impatti sociali nei territori coinvolti.

    Su questi punti, Wong ha risposto in diverse occasioni che Terraformation fornisce alle aziende partner report completi che includono analisi di biodiversità, immagini satellitari e monitoraggio della crescita. Per gli utenti privati, invece, l’esperienza è più immediata: fotografie, aggiornamenti e una narrazione “semplice e tangibile dell’impatto”, come ha dichiarato per esempio al Wall Street Journal. E un costo che, appunto, va ben oltre la piantumazione.

    L’ex manager della Silicon Valley è naturalmente consapevole dei limiti del suo approccio. “Piantare alberi non è una soluzione permanente al cambiamento climatico – ha ammesso – ma è un modo per guadagnare tempo, mentre lavoriamo su tecnologie più avanzate per ridurre e catturare la CO2”.

    Secondo Wong, il vero obiettivo non è tanto piantare una quantità record di alberi, quanto creare un modello replicabile che unisca profitto e impatto ambientale, un paradigma in cui la crescita economica coincida con la rigenerazione naturale che consenta di mitigare per il momento gli effetti del riscaldamento globale. Il percorso di Wong, raccontato anche in un profilo su Fortune.com, è quello di un ingegnere che ha lasciato i codici per dedicarsi alle radici. Nel suo passato, un curriculum che va dal mop dei pavimenti di Burger King alla guida di una delle community più influenti del web; nel futuro, una visione che tenta di trasformare la riforestazione in un’impresa globale e duratura, in cui ogni albero diventa un piccolo atto d’investimento nel Pianeta. LEGGI TUTTO

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    Bonus elettrodomestici, ecco quanto si risparmia con la rottamazione

    Bonus elettrodomestici a breve in pista. Tra pochi giorni, infatti, sarà accessibile il portale per chiedere il voucher che consentirà di avere uno sconto del 30% sul nuovo acquisto, a fronte della rottamazione di un vecchio apparecchio della stessa tipologia. Il voucher dura 15 giorni, passato il periodo non è più utilizzabile. Bisogna quindi decidere in anticipo quale elettrodomestico sostituire per non correre rischi, dato che i fondi a disposizione sono limitati e difficilmente potrà essere presentata una nuova richiesta. Sarà possibile fare acquisti sia presso i rivenditori fisici sia online, che decideranno di aderire all’iniziativa. La lista di tutti i punti vendita sarà disponibile online.
    Fondi a disposizione e risparmi in bolletta
    Per il bonus sono a disposizione in tutto 48,1 milioni di euro. Considerando che i voucher hanno un importo base di 100 euro, che raddoppia per chi ha un Isee entro i 25.000 euro, potrebbero essere anche meno di 400.000 i voucher erogabili. In ogni caso è ammesso un solo voucher per nucleo familiare.

    Secondo i dati ENEA, sostituire un elettrodomestico acquistato dieci anni fa con uno nuovo di classe energetica elevata riduce in media i consumi elettrici per quel determinato apparecchio del 50%. Il risparmio varia in base al tipo: per i frigoriferi si può arrivare al 60%, per le lavastoviglie al 50%, per le lavatrici al 45%. In parallelo ai consumi ovviamente si risparmia anche sulle emissioni di CO2. Le etichette energetiche obbligatorie riportano il consumo energetico specifico in Kwh, e questo consente di avere una base per effettuare i conteggi con una buona approssimazione. Ecco qualche indicazione conti considerando un costo medio per Kwh di 30 centesimi complessivo della materia prima e di tutti gli altri oneri per la bolletta della luce.

    Fisco verde

    Ricarica della batteria con lo sconto per chi ha un’auto elettrica

    di Antonella Donati

    14 Ottobre 2025

    Nuove lavastoviglie anche a risparmio di acqua
    Per nuclei familiari numerosi che usano la lavastoviglie due volte al giorno la sostituzione porta vantaggi consistenti. I modelli moderni consumano circa 60-70 kWh per 100 cicli contro i 100-120 kWh di quelli più vecchi. Va considerato anche il risparmio idrico: le lavastoviglie nuove usano meno di 10 litri per ciclo contro i 15-20 dei modelli datati. In media il risparmio in bolletta può arrivare a 115 euro all’anno solo per l’energia elettrica. A questo va aggiunto anche il risparmio per l’acqua.

    Frigorifero e lavatrice, risparmi allineati
    Un vecchio modello di frigo può consumare fino a 500 kWh annui, mentre uno di classe energetica alta scende sotto i 200 kWh. Per famiglie numerose che aprono spesso il frigorifero e hanno bisogno di grande capacità, considerando un risparmio di 300 kWh/anno, il taglio della bolletta può agevolamene superare i 100 euro.

    Quanto alla lavatrice, per chi fa molti lavaggi settimanali la lavatrice diventa l’elettrodomestico più energivoro dopo il frigorifero. Famiglie con bambini piccoli o sportivi che lavano quotidianamente possono arrivare a 300 cicli all’anno. Il passaggio da un modello di classe B a uno di classe A riduce il consumo di circa il 45%. L’etichetta energetica indica il consumo per 100 cicli, quindi basta moltiplicare per tre per avere il consumo annuo effettivo. In media si possono considerare almeno 80 euro di risparmi.

    Forno, consumi alti ma uso saltuario
    Infine il forno ha un consumo per ciclo relativamente alto ma viene utilizzato meno frequentemente. Per chi cucina al forno più volte alla settimana la sostituzione ha senso. Chi lo usa solo occasionalmente ottiene un risparmio limitato che non giustifica la spesa immediata. L’etichetta indica il consumo per ciclo in modalità convezione e ventilata. Chi ha più elettrodomestici datati dovrebbe privilegiare quello con maggiore utilizzo e consumo continuo. LEGGI TUTTO

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    Clima, appello di Guterres a Cop30: “Obiettivi più ambiziosi o conseguenze devastanti”

    La strada verso Belém è piena di buche. Però c’è, ed è questa la buona notizia. Fra circa due settimane in Brasile, alle porte dell’Amazzonia, inizia la Cop30, la Conferenza delle parti sul clima. Quest’anno, dopo tre diverse edizioni che si sono svolte nei petro-stati, c’è una forte aspettativa per una Cop che possa risultare più pragmatica nel difficile percorso della riduzione delle emissioni climalteranti.
    Così, mentre gli occhi del mondo sono puntati sull’occhio del ciclone – quell’uragano Melissa destinato a impattare su una Giamaica già fragile davanti alla crisi del clima – lo sguardo della diplomazia climatica è rivolto al percorso per riuscire ad abbassare le emissioni, ovvero la presentazione dei vari Paesi dei loro Ncd, i piani climatici per centrare l’obiettivo che vengono diffusi prima della Cop.

    Assemblea Onu

    Meno emissioni più energia pulita: gli impegni (insufficienti) della Cina

    di Luca Fraioli

    25 Settembre 2025

    Questi piani sono stati riassunti all’interno del nuovo Synthesis Report dell’UNFCCC che guarda ai traguardi del 2035. Il report ci dice che le emissioni globali stanno iniziando a diminuire e che quest’anno è stata presentata dalle nazioni la serie più completa di impegni climatici fatta finora rispetto al passato, piani che coprono circa un terzo delle emissioni globali.

    La buona notizia è che c’è appunto una strada: l’88% degli Ndc sono risultati nuovi o aggiornati e l’89% include obiettivi a livello economico che riguardano tutti i principali settori emissivi. Circa il 78% include inoltre sforzi legati agli oceani, ben il 39% in più rispetto ai precedenti impegni.

    Ambiente

    Il primo punto di non ritorno è già realtà: la perdita delle barriere coralline è irreversibile

    di Giacomo Talignani

    13 Ottobre 2025

    Solo un terzo dei Paesi ha presentato obiettivi per il clima
    La cattiva notizia è che però anche se tutti i Paesi che hanno presentato i loro Ndc li rispettassero totalmente, si andrebbero a ridurre le emissioni di appena il 10% (rispetto al 2019) entro il 2035. Una percentuale decisamente ancora troppo bassa vista l’avanzata della crisi del clima. Di fatto, dunque, i piani presentati da oltre 60 Paesi all’Onu sono insufficienti a scongiurare il collasso climatico che incombe perché coprirebbero soltanto di un sesto la riduzione necessaria il 60%) di emissioni per riuscire a limitare il riscaldamento a 1,5 gradi e rispettare l’Accordo di Parigi.

    Lo studio

    Gli alberi giganti dell’Amazzonia resistono al clima e diventano più grandi

    di Fiammetta Cupellaro

    26 Settembre 2025

    Per Simon Stiell, segretario esecutivo dell’United Change Conference dell’Onu, “grazie alla cooperazione climatica organizzata dalle Nazioni Unite e agli sforzi nazionali, l’umanità sta ora chiaramente piegando la curva delle emissioni verso il basso per la prima volta, anche se ancora non abbastanza velocemente. Sebbene la direzione di marcia migliori di anno in anno, abbiamo bisogno di una maggiore velocità e di aiutare un maggior numero di Paesi a intraprendere azioni climatiche più incisive”.

    Il report

    Fao: la deforestazione nel mondo rallenta, ma non basta

    di Giacomo Talignani

    21 Ottobre 2025

    Il segretario chiede dunque una accelerazione dell’ambizione, quella che dovrebbe partire soprattutto dalle realtà più sviluppate e responsabili delle emissioni, come per esempio Cina e Ue, che però devono ancora fornire dettagli sui loro piani climatici.
    I ritardi della Ue e l’assenza degli Usa
    Tra i ritardi dell’Europa, l’assenza degli Stati Uniti che con le politiche negazioniste di Donald Trump si sono sfilati dall’Accordo di Parigi e un 10% di riduzione delle emissioni che appare ancora troppo basso, è evidente dunque come la strada per Belòm sia davvero piena di buche. Nonostante il cammino tortuoso una luce di speranza – come ha detto Laurence Tubiana, Ceco di European Climate Foundation – potrebbe arrivare da “i cittadini, le comunità e le imprese che continuano ancora oggi a spingere l’economia reale verso un futuro sostenibile e più verde”.
    Guterres: “Il superamento di 1,5 °C più breve possibile”
    Ma senza decisioni concrete dall’alto, chiosa il segretario generale dell’Onu António Guterres in una intervista al The Guardian, sarà comunque impossibile “cambiare rotta”, quello che davvero servirebbe in questo mondo bollente.

    Per Guterres infatti l’umanità “non è riuscita a limitare il riscaldamento globale” e si prospettano “conseguenze devastanti. Alcune di queste conseguenze devastanti sono punti di non ritorno, che si tratti dell’Amazzonia, della Groenlandia, dell’Antartide occidentale o delle barriere coralline” per cui a partire dalla Cop30 “è assolutamente indispensabile cambiare rotta per garantire che il superamento di 1,5 gradi sia il più breve possibile e di minore intensità e per evitare proprio i punti di non ritorno che incombono”. LEGGI TUTTO

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    Dalle bucce di patate nasce il packaging sostenibile per frutta e verdura

    “Prendiamo le bucce di patate scartate dall’industria, le processiamo, le secchiamo, le maciniamo e le combiniamo con altri ingredienti. Col processo di termoformatura produciamo le vaschette. Il nostro obiettivo è creare un circuito virtuoso che parta dagli scarti, un bene prezioso”. A parlare è Massimo Bagnani, veronese, diploma al Fracastoro e laurea in Bioingegneria al Politecnico di Milano, ha sviluppato a Zurigo, dove si trovava per un dottorato di ricerca, questa tecnologia dirompente da cui è nata PeelPack.

    La startup italo-svizzera fondata nel 2025 da Massimo Bagnani (CTO) e Slava Drigloff (CEO) realizza contenitori in bioplastica compostabili per frutta e verdura, ricavati da bucce di patate industriali, pensati per sostituire gli imballaggi in plastica nella grande distribuzione.

    Com’è nata l’idea? “L’idea è nata dopo aver realizzato quanti scarti di bucce di patate fossero prodotti dalle aziende agricole, durante il mio dottorato all’ETH di Zurigo (tra le università più prestigiose al mondo), dove ho iniziato a lavorare sui materiali sostenibili – racconta a Green&Blue Massimo Bagnani –. Volevamo mettere a frutto questo materiale di scarto, e ci siamo resi conto che poteva essere usato per contenere frutta e verdura. Ora stiamo portando questa tecnologia in Italia grazie al programma FoodSeed, per svilupparla a livello industriale”.

    Tutorial

    Come ridurre la plastica monouso in casa e in azienda

    28 Aprile 2025

    Le vaschette prodotte dalle bucce di patate
    Come nascono le vostre vaschette? “Utilizziamo le bucce di patate scartate dall’industria alimentare e le trasformiamo in un nuovo materiale compostabile. Le bucce vengono essiccate, macinate e mescolate con altri ingredienti naturali. Attraverso un processo speciale di lavorazione termoplastica e termoformatura, otteniamo vaschette resistenti e adatte a contenere frutta e verdura. In questo modo diamo una seconda vita agli scarti alimentari, riducendo l’uso di plastica e l’impatto ambientale”.
    “PeelPack risponde a un’importante opportunità di mercato nel settore europeo delle bioplastiche – aggiunge Bagnani -, trasformando milioni di tonnellate di scarti di bucce di patata in imballaggi completamente compostabili e sicuri per gli alimenti per i cestini di frutta e verdura”.

    Tecnologia

    Shelfy, il purificatore da frigo che fa durare più a lungo frutta e verdura

    di Dario D’Elia

    24 Ottobre 2025

    Mentre l’UE intensifica le normative contro le plastiche di origine fossile e aumenta la domanda di alternative sostenibili e locali, l’innovativo materiale di PeelPack offre una soluzione circolare ed economicamente vantaggiosa che riduce le emissioni, l’inquinamento da microplastiche e la dipendenza dalle bioplastiche importate. Il suo vantaggio risiede nella tecnologia proprietaria che crea imballaggi durevoli e compostabili a livello industriale direttamente dai rifiuti agricoli, si integra perfettamente nelle catene di fornitura esistenti ed è convalidata dai partner industriali.

    “Non solo – precisa Bagnani -. Le nostre vaschette aumentano anche la self life della frutta come fragole, lamponi che – di regola – dopo cinque giorni hanno già la muffa. I risultati dimostrano che possiamo allungare di qualche giorno, che non è poco, la durata di questi prodotti. I nostri contenitori sostanzialmente al contrario della plastica che non fa respirare la frutta, hanno proprietà specifiche che fanno respirare il prodotto sia dal punto di vista di scambio di gas, che di umidità. In questo modo l’umidità non condensa, evitando la crescita di funghi batteri. Siamo molto orgogliosi della nostra tecnologia che crediamo possa avere un impatto ambientale su più fronti: non solo nella diminuzione dell’inquinamento da plastica – che come sappiamo è devastante -, ma anche sullo spreco di cibo”.

    Quali sono i vostri prossimi passi? “Siamo stati selezionati tra 200 candidature e grazie al percorso di FoodSedd adesso gettiamo le basi per rientrare in Italia nei prossimi mesi. L’obiettivo è trasferire la produzione proprio nella packaging valley, secondo un modello di economia circolare che ci permetta di ridurre i costi e anche l’impatto ambientale”.

    PeelPack lavora in stretta collaborazione con agricoltori, rivenditori, industrie alimentari e impianti di compostaggio per costruire una catena del valore completamente circolare. La loro soluzione riduce le emissioni di gas serra, l’inquinamento da microplastiche e la dipendenza da imballaggi di origine fossile, trasformando i rifiuti alimentari locali in alternative sostenibili e scalabili per il settore agroalimentare.

    “Il futuro del cibo in chiave sostenibile”
    PeelPack è tra le sette startup innovative, selezionale dall’acceleratore FoodSeed per ridisegnare in chiave sostenibile il futuro del cibo. E’ questo l’obiettivo di FoodSeed, l’acceleratore promosso da Cdp Venture Capital insieme a Fondazione Cariverona, UniCredit ed Eatable Adventures, che ha presentato il 21 ottobre a Verona i progetti selezionati per la terza edizione. In sei mesi di accompagnamento strategico, le giovani imprese hanno lavorato per passare dalla tecnologia di laboratorio a prototipi pronti per il mercato.

    I sette progetti selezionati uniscono ricerca scientifica, tecnologie d’avanguardia e visione strategica per trasformare in chiave sostenibile l’intera filiera agroalimentare. Con un investimento iniziale di 17mila euro, che potrà crescere fino a 500mila per le realtà più promettenti e dirompenti. “Li accompagniamo in un percorso su misura, che parte dalla validazione tecnologica fino a costruire un business model solido e replicabile – ci dice Alberto Barbari, Regional VP di Eatable Adventures –. Il nostro è un ecosistema di innovazione che collega startup, imprese, investitori e istituzioni. Con FoodSeed stiamo dimostrando che l’innovazione può diventare una leva strategica per il tessuto industriale agroalimentare italiano. In questi tre anni abbiamo costruito un ponte solido tra startup, imprese e centri di ricerca, favorendo la nascita di collaborazioni che trasformano le idee in soluzioni concrete per la filiera. I progetti selezionati in questa edizione ne sono la prova: realtà capaci di affrontare le sfide di oggi e di rafforzare la competitività del nostro sistema produttivo per un agroalimentare italiano più responsabile e innovativo.” LEGGI TUTTO